Di addii, partenze e arrivi: Umberto Boccioni

C’è chi, pur di salutarsi bene, cammina per tutta la Grande Muraglia. C’è chi l’addio e la partenza, invece, li disegna, come Eleonora ci ha raccontato che fa Shaun Tan con la sua graphic novel The Arrival. A noi probabilmente − statisticamente − tocca più spesso, come cronotopo del saluto, la stazione ferroviaria: qui è ambientato il ciclo degli Stati d’Animo di Umberto Boccioni, nelle due versioni create a pochi mesi di distanza l’una dall’altra nel 1911. In linea con gran parte delle Avanguardie europee, in questi quadri non è da ricercarsi assolutamente un intento descrittivo che, in effetti, in Boccioni non c’è mai stato: anche nei primi dipinti, molto italiani, è molto forte l’influenza  del divisionismo veicolato dal maestro Giacomo Balla, il cui studio romano frequenta con Gino Severini. Per questi pittori, il puntino francese diventa filamento: più teso, vorticante e drammatico, da un lato anticipa il movimento e la tensione dei quadri futuristi, come ne La ragazza che corre sul balcone del Balla, dall’altro ha sempre anche una valenza ulteriore e allusiva, come nel caso de La pazza, sempre di Balla. Il filamento colorato, infatti, deve comunicare un dato psicologico che è ben oltre la piatta descrizione oggettiva della scena, e che invece fa irrompere un “qualcosa d’altro” non immediatamente visibile. Quello che seppe aggiungere Boccioni rispetto ai suoi compagni di avventure artistiche, rimasti troppo legati all’insegnamento cubista, è la costante compresenza dell’elaborazione-deformazione espressionista: ecco perché, in una stazione ferroviaria dipinta da un futurista, non vediamo troppi treni ma decisamente molti sentimenti.

“Ma lei vede il vero così?” vi chiederà sempre la balordaggine pretenziosa della persona colta. “Ma un albero è un albero, perdio! ” vi gridano congestionati i medici, gli avvocati, i professori… (Fondamento plastico della scultura e pittura futurista)

Dal divisionismo alla frammentazione: tornando da Parigi. La lezione cubista sperimentata in Francia viene rielaborata da Boccioni in modo personale per gradi: da una scomposizione della figura in più elementi o momenti o punti di vista, come nel caso dei celebri ritratti di donna di Picasso, fino alla giustapposizione degli stessi, alla compresenza (quasi si trattasse di una striscia di un fumetto) su tutta la scena del quadro. Nel Fondamento plastico della scultura e pittura futurista (1913) Boccioni provò a spiegare meglio quanto già era stato detto tre anni prima nel Manifesto tecnico, perché non venisse più travisato: «Noi vogliamo al contrario [di quanto i critici affermano] avvicinarci alla sensazione pura, creare cioè la forma nell’intuizione plastica, creare la durata dell’apparizione, cioè vivere l’oggetto nel suo manifestarsi. Quindi non solo l’oggetto dato nella sua integrità con l’analisi superiore, come l’ho chiamata, di Picasso, ma dare la forma simultanea, che scaturisce dal dramma dell’oggetto coll’ambiente».
Parlare di ambiente a inizio Novecento significa parlare di Impressionismo, ma anche per questa questione di affiliazione-derivazione  Boccioni ha la risposta: «Se per gli impressionisti l’oggetto è un nucleo di vibrazioni che appaiono come colore, per noi futuristi l’oggetto è inoltre un nucleo di direzioni che appaiono come forma».
E parlare di colore significa parlare di Espressionismo: a ogni emozione o sensazione deve corrispondere «un’analoga forma-colore». Ricapitoliamo un attimo: simultaneità, movimento, ambiente, a cui ora si aggiunge anche il dato visivo del colore. Con tutto questo si confronta Boccioni negli Stati d’Animo. Le emozioni escono dalle menti dagli occhi dai corpi e riempiono l’aria, ogni spazio vuoto: ora anche l’atmosfera ha un corpo visibile, ed è fatto di sentimenti. La «costruzione emotiva» supera e trascende l’ambientazione della stazione per diventare l’unica, vera protagonista: «la direzione delle forme e delle linee era fissata con un determinato scopo drammatico − spiegavo la diversità emozionale delle linee».

Sullo spigolo del
congedo mi sbuccio
il respirare.
Il fiato
rammendato col
filo più scuro:
d’abbandono.
Elisa Biagini, Da una crepa (2014)

Gli Stati d’Animo. L’addio è confuso, obliquo: stai per partire ma rimani ancora un attimo, hai il piede nella carrozza ma il braccio penzola di fuori e la gente comincia a premere e spingere e vorticare tutt’attorno per poter salire a bordo a prendere posto. Il treno fermo in stazione è quel non-luogo dove salutarsi è più sicuro: poi ognuno si allontana, nessuno rimane lì a fare i conti con il vuoto. Bene. Ma prima un abbraccio: e la coppia allora si abbraccia e occupa tutto lo spazio. Un malinconico verde prende possesso della banchina, mentre si intravedono il treno pronto al binario e la città in costruzione − Boccioni è pur sempre un futurista, alla fin fine, che così descrive questo quadro:  «Una folla che parte vive in un ambiente emotivo agitato con direzioni irregolari ad angoli acuti, a linee oblique e a zig-zag aggressivi».

Gli addii (1911), a sx la prima versione, conservata al Museo del Novecento (MI), la seconda versione, a dx, conservata  al MoMA

Gli addii (1911), a sx la prima versione, conservata al Museo del Novecento (MI), la seconda versione, a dx, conservata al MoMA

Quelli che se ne vanno sono i più fortunati: sfrecciano luminosi e orizzontali, cambiano prospettiva ogni attimo, anche se chiudono gli occhi le cose fuori dal finestrino continuano ad accadere. Qui la relazione con la spazialità è massima e ha una forte «valenza psicologica: le linee sono orizziontali, fuggenti, rapide e sobbalzanti». I colori si fanno meno evidenti e sfacciati che negli Addii, comincia a comparire, soprattutto nella seconda versione, la predominanza di un colore molto caro alle Avanguardie del Novecento, il blu.

Quelli che vanno (1911), a sx la prima versione, conservata al Museo del Novecento (MI), la seconda versione, a dx, conservata al MoMA

Quelli che vanno (1911), a sx la prima versione, conservata al Museo del Novecento (MI), la seconda versione, a dx, conservata al MoMA

Quelli che restano, invece, a loro tocca trascinare un poco i piedi mentre escono dalla stazione. Sicuramente pesano almeno quattro paia di chili in più, a occhio e croce, quelle schiene curve non mentono: «le linee sono perpendicolari, ondulate e spossate».  La verticalità ossessiva, nella prima versione riprodotta da pennellate ravvicinate e nella seconda invece rimarcata da veri e propri rettangoli con tanto di bordo e di ombre, è rafforzata dall’utilizzo di un solo colore, più malinconico e silenzioso, quasi “di sordina”.

Quelli che restano (1911), a sx la prima versione, conservata al Museo del Novecento (MI), la seconda versione, a dx, conservata al MoMA

Quelli che restano (1911), a sx la prima versione, conservata al Museo del Novecento (MI), la seconda versione, a dx, conservata al MoMA

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