Il corpo combattente. Dal sacrificio dell’eroe al lutto collettivo: metamorfosi della morte nella Grande Guerra

[…] io mi avvicendo, vado per ossari, e cari stinchi e teschi
mi trascino dietro dolcissimamente, senza o con flauto magico
Sempre più con essi, dolcissimamente, nella brughiera
io mi avvicendo a me, tra pezzi di guerra sporgenti da terra […]
Andrea Zanzotto, Rivolgersi agli ossari

Cento anni sono passati dall’inizio della Grande Guerra: almeno cinque generazioni hanno attraversato e si sono succedute in questo lasso di tempo e, ciò nonostante, quello umano rimane tuttora l’aspetto più complesso e difficile, non solo in termini numerici, con cui dover fare i conti. In cento anni, l’atteggiamento degli eredi è passato attraverso varie fasi: dall’elaborazione del lutto nel periodo immediatamente successivo ai trattati di pace fino al mantenimento attivo tanto della memoria quanto della consapevolezza, che ancora va esercitato ai nostri giorni. Soprattutto su questa progressiva ma risoluta presa di coscienza hanno insistito le numerosi commemorazioni che durante l’arco dell’anno si sono succedute e stanno continuando in tutta Europa; una tra tutte, perché di forte impatto visivo, potrebbe essere l’installazione Blood Swept Lands and Seas of Red: creata da Paul Cummins e Tom Piper, consiste in 888.246 (sì, esattamente come il numero di caduti inglesi durante la Prima Guerra Mondiale) papaveri rosso sangue in ceramica che come un fiume si riversano dalla Torre di Londra per invadere lo spazio del pubblico, allargandosi a macchia d’olio, come un abbraccio, come un monito che non ha bisogno di altro linguaggio che quello dell’evidenza visiva.

© Adam Singer / flickr

© Adam Singer / flickr

A tutti gli effetti, e non solo per le dimensioni mondiali che raggiunse il conflitto, «la storia culturale della Grande Guerra fu una storia comune»¹ che, ignorando i prefissati confini di Stato e di classe, investì e rivoluzionò ogni aspetto della vita del tempo. Davvero non fu possibile rendersi immediatamente conto della portata drammatica che il conflitto stava per immettere nella quotidianità, soprattutto perché i primi tempi coincisero appieno con la creazione del fenomeno che lo storico George L. Mosse ha definito il “Mito dell’Esperienza della Guerra”. Tra gli elementi che ne hanno permesso la nascita e l’affermarsi, forse il più forte, date le profonde radici e la grande eco a cui sarà destinato anche nei conflitti successivi, è l’immagine ideale di un’intera Nazione combattente.
Mai come in passato, infatti, il singolo cittadino sentiva di poter fornire un apporto unico in battaglia, meritandosi addirittura la qualifica di eroe, e allo stesso tempo ne usciva acuito, se non addirittura costruito da zero, il senso di appartenenza a una comunità da proteggere e per cui sacrificarsi come martire. Di questa metamorfosi da vivere in prima persona, di questo vero e proprio rito iniziatico collettivo, ne avevano forte coscienza i soldati stessi, che anzi si arruolavano spesso nella speranza che questo cambiamento li riguardasse davvero da vicino, volevano provarlo sulla loro pelle; queste furono infatti le parole di un volontario tedesco della Prima Guerra Mondiale: «Nessuno uscirà da questa guerra senza essere diventato una persona diversa»².

Chi protegge la Nazione? Nel rintracciare dei precedenti a una tale adesione entusiastica all’arruolamento e al successo del mito della Nazione per cui sacrificarsi, dobbiamo risalire fino alla Rivoluzione Francese (1792-99) e alle guerre di liberazione tedesche contro Napoleone (1813-14). Per la prima volta nella storia moderna, infatti, a scendere in campo per combattere non fu più un esercito di professionisti assoldati – e ricompensati, quindi – per l’occasione da un potente politico.  Il pericolo che minacciava la pace, la sicurezza e la sopravvivenza della nazione stessa veniva dall’esterno e il popolo in prima persona doveva imbracciare le armi per difendere se stesso: si venne quindi a creare più o meno spontaneamente un esercito di cittadini, formato in buona parte da volontari che avevano imbracciato le armi spinti solamente dall’amore per la causa e per la patria. Combattendo, quindi, il soldato incarnava un ideale che non lo univa più solamente ai compagni, ma, soprattutto, all’intero corpo cittadino, che doveva essere protetto. Mai come in passato i volontari furono i veri e propri creatori del mito della guerra: «coloro che accorsero a servire sotto la bandiera della Francia o della Germania erano invero una nuova razza di soldati»³. Di questo erano ben coscienti: canti popolari, illustrazioni, monumenti, tutto ricordava alla patria il sacrificio che i suoi uomini stavano andando a compiere.
Il terreno sociale e culturale era quindi pronto per l’agosto del 1914, che, non a caso, corrispose al periodo in cui i volontari si arruolarono con maggior convinzione ed esaltazione: le iniziative di propaganda si rivolgevano proprio a questi giovani carichi di speranze e di energie, che si percepivano come i prosecutori dei grandi volontari delle rivoluzioni e insurrezioni nazionali. La guerra veniva insistentemente presentata come il momento di massima esaltazione possibile della vita e della virilità: un rito di iniziazione da cui ogni ragazzo sarebbe uscito trasformato, non più ammorbidito dalla comoda e pacifica vita borghese, ma, battezzato dal fuoco, sarebbe stato finalmente e completamente uomo.
Un clima festoso, generato da questa idea di rinnovamento virile, accompagnò quei mesi estivi, tant’è che un corrispettivo di quel momento storico andrebbe ricercato (e sarebbe non difficilmente trovato) non tanto «nel rovesciamento rivoluzionario dell’ordine costituito, bensì nel disordine o rovesciamento momentaneo di status sociale che ha luogo nelle feste»². Un periodo di tempo limitato, insomma – d’altra parte, l’idea della guerra-lampo avrebbe accompagnato e motivato lo scatenarsi del conflitto – da cui uscire formati: «la sensazione di vivere un processo, di vivere in un interregnum senza una precisa struttura, anziché in un luogo definito, fu una costante dell’esperienza d’agosto […], un periodo cosiddetto liminare»².
In questo “regno”, tuttavia, dovevano cominciare a muoversi dei soldati e non più dei ragazzi, che erano quanto di più lontano si poteva immaginare dall’eroe, per esempio, dell’Iliade: giovani incoscienti di quanto stessero davvero andando a vivere, che mantenevano la loro carica di umanità soprattutto per chi rimase a casa, i volontari erano anche i figli, i fratelli, i vicini di casa, i colleghi di lavoro, così mortali e comuni che non sarebbe stato difficile incontrarli e fermarsi a scambiare due parole in qualsiasi momento della giornata in qualsiasi strada del paese. Con il procedere del conflitto e l’innegabile e incessante aumentare delle vittime, diventava sempre più pressante per le autorità, per i familiari, ma anche per i sopravvissuti stessi la necessità di giustificare agli occhi atterriti e giudicanti della collettività il sacrificio di così tanti giovani uomini che avevano abbandonato gli affetti e il loro bene più prezioso, la vita, in favore della causa nazionale. Infatti, non bisogna dimenticare che «il Mito dell’Esperienza di Guerra era un mito democratico incentrato sulla nazione»³ e la morte di massa lo ricordava in modo lampante: si trattava di un sacrificio compiuto per la propria patria e come tale andava onorato. La nazionalizzazione della morte divenne il cardine per tentare un’elaborazione efficace delle tragedie causate dalla Prima Guerra Mondiale.

Il corpo che combatte. Nella propaganda del periodo, colpisce la centralità quasi ossessiva che venne data al fisico del giovane soldato: uomini in tenuta da lavoro che imbracciano un fucile, file di corpi ben allenati e proporzionati che si dirigono verso la frontiera, un giovane ben saldo sulle gambe divaricate che occupa il centro della scena, il mento è sempre alto e lo sguardo sicuro.

da sinistra, illustrazioni propagandistiche di Regno Unito, Italia e Germania. © ww1propaganda.com

da sinistra, illustrazioni propagandistiche di Regno Unito, Italia e Germania. © ww1propaganda.com

L’incessante parlare della guerra che veniva fatto dalla propaganda letteraria e politica serviva inoltre a far diventare, anche se solo a livello inconscio e psicologico, questa esperienza, ancora potenziale, un qualcosa di concreto, tangibile ed esperibile anche da chi non poteva prender parte al conflitto.
La guerra, infatti, doveva essere necessariamente combattuta al fronte, un luogo lontano dalla quotidianità civile e borghese che non faceva che aumentarne l’appeal,  alimentando il senso di avventura e di esperienza “altra”: come in un vero e proprio rito di iniziazione nazionale, i giovani si arrogavano la possibilità – meglio, il diritto – a diventare uomini sotto il fuoco delle armi.

In guerra, così come nel rituale, gli individui non apprendono semplicemente attraverso lo strumento linguistico bensì attraverso la loro immersione nella struttura drammatica dell’evento fisico; l’esperienza di guerra, al pari dell’esperienza iniziatica, è essenzialmente un’esperienza d’apprendimento non verbale, concreta, molteplice. (Eric J. Leed, Terra di nessuno)

Combattere la guerra con il proprio corpo e allo stesso tempo provarne gli effetti sul proprio fisico: improvvisamente le immagini della propaganda diventavano reali, sperimentabili. E non apparivano  assolutamente come avrebbero dovuto essere. La storia culturale della Grande Guerra diventava ora, di colpo, una storia che «aveva a che fare con corpi reali»¹.
Sulla prestanza e resistenza fisica del giovane uomo facevano affidamento non solo i suoi compagni d’esercito che accanto a lui provavano per la prima volta nella storia a far la guerra di trincea; tramite la martellante propaganda diventava sempre più palese che, «per dirla con Giovanni Boine […] quel corpo, quei corpi costituivano le membra di un organismo più grande e importante, quello […] della società»4: l’intera nazione contava su di loro. L’immagine del soldato in uniforme è forse quella più ricorrente nella propaganda pre-guerra, che non a caso spesso era accompagnato da una sventolante bandiera nazionale: costituiva ormai un vero e proprio simbolo che doveva essere immediatamente riconoscibile all’occhio, perché il popolo vi si potesse subito identificare e sentirsi rappresentato.  L’elmetto e il fucile erano ormai rappresentati come veri e propri “ferri del mestiere”. La guerra, infatti, era ora un’esperienza dell’uomo comune: l’operaio e il contadino, che lavorano con il corpo e costituivano la base della società dell’epoca, erano i simboli della virilità della nazione.
“Virilità” è davvero la parola chiave per comprendere la risonanza e il successo che il principiare della guerra ebbe nella mente dei giovani di tutta Europa: divenne quasi un termine tecnico per indicare la serietà della lotta, che era paragonata a un agone tra eroi classici, che richiedeva forza ma soprattutto autodisciplina, caratteristica propria degli uomini, e non dei ragazzi; a temprarsi, durante la guerra, non sarebbe stato solamente il fisico, ma, soprattutto, la mente. Facendo forza su questa idea di un’imminente «rigenerazione personale e nazionale»³, che consistesse anche in una fuga decisa dal materialismo borghese privo di scopi che non fossero quelli del guadagno economico, cominciavano a sorgere organizzazioni e movimenti che preparavano i giovani alla guerra e all’uomo nuovo che avrebbero incarnato, il cui carattere nazionalistico veniva sempre più malcelato e, anzi, finì con il diventare il tratto principale di tali associazioni.
Esemplare è il caso del Movimento Giovanile Tedesco: nato verso la fine dell’Ottocento, era noto anche come Wandervögel (letteralmente, “uccelli migratori”) e si era costituito con l’intento di fornire un momento di incontro per i giovani lontano dal controllo degli adulti, della disciplina sociale e della morale borghese, particolarmente forti e autoritarie in Germania. In queste occasioni, veniva proposto e in un certo senso anticipato il cameratismo maschile che caratterizza da sempre l’esercito. I ragazzi che facevano parte del Movimento, infatti, si dedicavano ad attività di gruppo con una grande predilezione per le escursioni in zone boschive e montuose, scalando vette particolarmente ardue o visitando castelli antichi. Da un lato, la gita all’aria aperta era un modo di esprimere il disagio e la protesta: rappresentava un raro, se non unico, momento per ritrovare un contatto genuino con la natura, allontanando il giovane dalla vita cittadina, percepita sempre più come artificiale – il contesto è ovviamente diverso, ma è bene ricordare che nella seconda metà dell’Ottocento Charles Baudelaire scriveva che, già all’epoca, l’unico modo per trovare della vera acqua a Parigi era controllare nelle tubature.
Dall’altro lato, il discorso era facilmente manipolabile in termini nazionalistici: evadendo dalla città e immergendosi nell’autentico paesaggio germanico, quello pre-industriale, quello degli antenati coraggiosi e indomabili, molti giovani tedeschi sostenevano di poter entrare in contatto e risvegliare la loro natura più vera e vitalistica. Esattamente questo cercavano i ragazzi che si arruolarono come volontari per il fronte: non è un caso se le alte cariche militari furono ricoperte dai vecchi comandanti esperti, mentre i giovani si arruolavano proprio con l’intento di fare l’esperienza della prima linea, di ricercare il confronto diretto con il nemico e con le proprie forze. Mentre i vecchi capi sarebbero rimasti nelle tende e nelle retrovie, la vera guerra l’avrebbero fatta i giovani. E la volevano davvero fare, con tutto l’entusiasmo e le energie possibili. L’idea di poter prendere parte e, anzi, essere i veri promotori di una grande rivoluzione morale cambiò di colpo il modo di porsi della generazione giovane nei confronti dell’istituzione “esercito”: «ciò che un tempo appariva come una massima subordinazione e perdita di identità personale, con la ristrutturazione collettiva della vita sociale diventò una liberazione e addirittura un veicolo di auto-realizzazione»².
La guerra era quindi vista in decisa opposizione alla vita sociale: anzi, ancor più radicalmente, cominciava a essere considerata come l’unico antidoto possibile alla moderna società industriale in cui si sentivano costretti questi giovani avventurosi e potenzialmente indomabili. Proprio «questa polarità tra guerra e vita sociale strutturò l’esperienza d’agosto, dando al passaggio fra pace e guerra il suo caratteristico significato»².
Il fatto ovvio, ma su cui non si mancava mai di insistere, che i soldati fossero uomini veniva continuamente coniugato dalla propaganda letteraria, artistica e politica allo scopo di dare figura concreta – di dare, a tutti gli effetti, un corpo – a un atteggiamento morale virile, che comprendeva «il coraggio, la forza, la fermezza, il controllo delle passioni e la capacità di salvaguardare il tessuto morale della societ໳. Sembrava quindi se non doveroso addirittura naturale mettere alla prova la  virilità nazionale nell’estrema sfida fisica e terribilmente mortale a cui avremmo dato il nome di Prima Guerra Mondiale.

Il sacrificio per la Nazione. Chi rimase a casa, per scelta o per imposizione, o comunque lontano ed escluso da quanto avveniva al fronte, non ebbe mai forse una chiara idea di ciò a cui andarono incontro i giovani che si erano arruolati per combattere nella Grande Guerra. Come riporta George L. Mosse, tra il 1915 e il 1918 morì in azione o a causa delle ferite riportate più del doppio degli uomini caduti in tutti i conflitti di rilievo svoltisi tra il 1790 e il 1914. A conti fatti, l’incontro con la morte di massa è forse l’elemento più pregnante ed evidente di quella guerra tanto osannata che, rivoluzionata nel modo di essere combattuta, aveva trascinato con sé ogni cosa e l’aveva stravolta drammaticamente, fino a mutare per sempre la percezione stessa della morte: essa passava ora attraverso la coscienza, tutta umana, di aver autorizzato una «morte di massa organizzata»³.
Tra gli stessi arruolati cominciò presto a cambiare la percezione della posizione che andavano a ricoprire al fronte: se un volontario dell’agosto del 1914 sentiva di stare per prender parte, anche solo grazie alla presenza fisica, a qualcosa di eccezionale, era ben cosciente che sarebbe stato solo «un attore in un dramma eccitante, ancorché mortale»³. L’elemento della mortalità cominciava a essere pronunciato, non solo più presagito: soprattutto con la progressiva realizzazione che il conflitto sarebbe stata tutto meno che una guerra-lampo, l’idea del sacrificio eroico cominciò a trasformarsi nella terribile cognizione di essersi offerti anima e corpo, inermi, a una causa sempre più labile, a un obiettivo sempre più sfumato in distanza.
Questo sembrava non essere sufficiente perché il Mito dell’Esperienza di Guerra si esaurisse in fretta; la morte in combattimento rimaneva (e rimane) il fatto centrale della «guerra come dramma umano»³: proprio su questo doveva lavorare il Mito per continuare ad alimentare se stesso, dato che guardava al conflitto come a un evento carico di senso, positivo, e anzi sacro. La memoria della guerra, tanto per chi l’aveva combattuta quanto per chi l’aveva sentita raccontare, doveva essere appositamente rimodellata su questo paradigma dell’esperienza sacra: l’obiettivo era fornire alla nazione ferita, sofferente e disorientata qualcosa in cui credere, una nuova profondità etica e un rinnovato sentimento religioso, non più prospettive e speranze per il futuro ma conservazione del ricordo e della memoria.
A sua disposizione, il Mito dell’Esperienza di Guerra aveva secoli di religione cristiana e guerre sante: santi, martiri, simboli di sacrificio innocente, persino luoghi di culto, tutto era pronto perché fosse manipolato e riproposto in chiave nazionale, perché costituisse un nuovo centro saldo e sicuro attorno a cui tutta la comunità potesse riunirsi per piangere se stessa. Dalle ceneri del soldato-eroe era pronto per essere creato e adorato il soldato martire e crociato.

La patria in lutto.  Nato tanto per iniziativa delle autorità quanto per sentimento spontaneo dei cittadini comuni, si diffuse rapidamente, con la fine della Guerra, l’intento di creare una vera e propria religione civica che supportasse e restituisse un senso a quella che Winter definisce «la comunità in lutto». Il culto del soldato caduto per difendere la sua terra divenne l’elemento centrale della propaganda del nazionalismo, presto rivestita di un’aura tale che fu creduta religione, e di cui si sarebbero serviti e su cui avrebbero fatto leva anche i nascenti movimenti e partiti nazionalpopolari. I caduti al fronte erano i martiri della patria, non restava che trovare il modo adatto per commemorarli: i monumenti a loro dedicati simboleggiavano la forza e la virilità della gioventù nazionale, offrendo alle generazioni successive un esempio da seguire, più che un monito a non ripetere lo stesso errore.
I memoriali e i monumenti vennero pensati in modo da assolvere a una doppia funzione: da un lato, l’arte commemorativa dava un contesto e una legittimazione agli occhi della collettività al lutto delle singole famiglie, rimarcando il contributo che ogni uomo aveva portato alla causa comune. Allo stesso tempo, era evidente la volontà di creare un vero e proprio luogo di culto riconoscibile e fortemente simbolico, dove la nazione poteva celebrare se stessa: chi si era sacrificato e chi si recava a commemorarlo erano raccolti nello stesso punto, nello stesso momento.
La morte è un fatto indiscutibilmente individuale. Tuttavia, «allorché si costruisce un monumento ai caduti, si compie una decostruzione della morte»¹: dal lutto privato, che si alimenta dei ricordi personali e degli affetti, si passò – l’ossimoro rimarca lo studio che sottostava alla creazione di questa nuova religione nazionale – a un’astrazione nella rappresentazione materiale della morte stessa, che avrebbe permesso a chiunque di sentirsi parte del cordoglio. Il sacrificio collettivo di migliaia di giovani e uomini doveva essere più evidente della morte di ciascuno di essi: il trauma della perdita del singolo doveva essere letteralmente sepolto in favore di un momento di raccoglimento comune. A guerra finita, il sistema organizzato che sorse per la commemorazione servì per consolare parenti e reduci, in una sorta di elaborazione del lutto collettiva: il superamento del trauma doveva avvenire con la presa di coscienza che da quella morte era sorto, fisicamente, qualcosa che avrebbe avuto una portata nazionale.
Già in Francia era stata istituita, nel 1887, l’organizzazione Le Souvenir Français, che si incaricava di custodire e mantenere fruibili i memoriali francesi. Con la Grande Guerra, l’esigenza di strutture regolate che adempissero a questi precisi compiti si fece pressante: l’obiettivo, soprattutto in Paesi come il Regno Unito e ancora la Francia, era quello di creare luoghi di culto laico ove la morte fosse ormai solo da rappresentare simbolicamente.
Improvvisamente, dopo tanta esaltazione, il corpo del soldato doveva sparire dallo scenario: sorsero ovunque sepolture e monumenti collettivi che rasentavano l’anonimato nel loro dichiarato intento di onorare tutti i morti in modo eguale, senza distinzioni (se non quelli di nazionalità) né individualismi, arrivando fino alla preferenza per il cenotafio o per neutre figure femminili che indicavano pace, humanitas, la patria stessa. Negli stessi cimiteri di guerra, veniva lasciata ben poca libertà ai familiari dei caduti di personalizzare le tombe: la piatta uniformità del complesso doveva essere preservata. Non si dovevano ergere colonne o statue equestri ai generali e agli eroi singoli, ma solamente monumenti collettivi: il sacrificio era stato uguale per tutti, ed era quello della vita.

Sacrario militare del Monte Grappa, © Areaphoto Image & Comunication

Sacrario militare del Monte Grappa, © Areaphoto Image & Comunication

In Italia, il Monumento al Milite Ignoto si trova tumulato all’interno dell’Altare della Patria o Vittoriano, così chiamato perché fu creato con l’intento di ricordare Vittorio Emanuele II dopo la sua morte, per celebrarlo in quanto Pater Patriae e mantenere vivo il ricordo dell’esperienza risorgimentale. Usanza di grande impatto nata con l’intenzione di rendere onore a tutti i soldati che non fu mai possibile identificare, il nostro Milite Ignoto è una salma di un soldato italiano sconosciuto, scelta dalla madre di un caduto disperso tra quelle di altri undici giovani non identificati morti durante il servizio prestato nella Prima Guerra Mondiale, e che fu posta all’interno del monumento il 4 novembre 1921.
Al contrario, il sacrario militare di Asiago, noto anche come sacrario del Leiten dal nome del colle su cui sorge, è uno dei principali ossari militari della Grande Guerra, anche per il numero di caduti che accoglie. La sua creazione va fatta risalire ai primi anni Trenta, quando venne avanzata l’idea di realizzare un imponente ossario che raccogliesse tutte le salme dei caduti italiani sparse nei cimiteri della zona di Asiago, a cui si aggiunsero, alla fine degli anni Sessanta, anche alcune salme di soldati austro-ungarici. I nominativi dei soldati, quando noti, furono fatti incidere in ordine alfabetico sui singoli loculi. Tornando a parlare di numeri: nel sacrario sono ospitati i resti di 54.286 caduti italiani e austro-ungarici, di cui oltre 33.000 sono tuttora ignoti, più 3 caduti della Seconda Guerra Mondiale. Altri resti sono ospitati in tombe comuni vicine alla cappella ottagonale centrale: stiamo parlando di 21.491 soldati italiani ignoti e 11.762 austro-ungarici ignoti. È bene ricordare che il sacrario non raccoglie i resti tutti i caduti nelle battaglie che si combatterono sull’altopiano, ma solo una minima parte.
Forse tentando di distogliere la mente dagli orrori della guerra e cercando invece di orientarla verso la ricchezza di senso e la gloria dell’impresa, gran parte dei progetti che furono fatti in tutta Europa per i monumenti cercavano di rendere, dal punto di vista estetico e architettonico oltre che simbolico, queste strutture della memoria «sopportabilmente tristi», come ebbe a definirli Winter, che individua nel Memoriale di Thiepval ai caduti della Somme l’esempio di questa «realizzazione del nulla»¹. Da un lato, il recupero dei simboli cristiani aveva anche l’intento di rendere la paura della morte meno umana e restituirla a un’ottica consolatoria superiore; dall’altro, si recuperò con forza l’ideale illuministico della morte come lungo sonno tranquillo, con l’intento di allontanare i tumultuosi ricordi della guerra.
Questa volontà decretò sicuramente la fortuna dei cimiteri di guerra pensati secondo il modello del giardino all’inglese: cercando di coniugare la natura con l’elemento artificiale delle tombe, intendevano restituire al visitatore un senso di armonia e di conciliazione che con la guerra era inevitabilmente andato perduto. Tipiche dei cimiteri di guerra tedeschi erano le tombe in ardesia che potevano essere collocate nell’Heldenhaine, il bosco degli eroi in cui ogni albero, solitamente una quercia, simboleggiava un caduto in battaglia e la sua rinascita come parte di qualcosa di più grande – la propria terra, la propria patria.

Oltre la Grande Guerra. L’effettiva esperienza della guerra, tuttavia, non portò mai i volontari più vicini a un significato profondo dell’esistenza, come avevano sperato al momento dell’arruolamento. Al contrario, la maggior familiarità con quel tipo di combattimento brutale e insensato, come si rivelò essere quello della Prima Guerra Mondiale, «distanziò l’individuo dal fine e dal senso del progetto in cui si era trovato coinvolto»². Esso aveva portato una profonda crisi nella concezione del Mito dell’Esperienza di Guerra: da esaltazione gioiosa di uno scontro fisico era diventato ricerca e bisogno profondo di trascendere la morte e il dolore. Fare i conti con la sopravvivenza e la continuità di un significato che era impossibile da supportare, se non addirittura da trovare, fu il compito che decisero di assumersi i movimenti e i partiti nazionalpopolari nei due decenni post bellici: consci che un’esperienza “gioiosa” come quella dell’agosto del 1914 non poteva ripetersi e propendendo, anzi, e alimentando i sentimenti di rabbia e frustrazione che stavano covando per tutta Europa, seppero catalizzare e sfruttare per la loro causa un altro tipo di energie rispetto ai loro predecessori. «Nel 1939 la guerra poteva ancora trovare una giustificazione. Quel che era cambiato, nella cultura dell’Europa occidentale, era la fine dell’epoca della sua glorificazione»¹.

Note e bibliografia
¹ Winter, Jay     Il lutto e la memoria: la Grande Guerra nella storia culturale europea, Bologna, il Mulino, 2014
² Leed, Eric J.    Terra di nessuno: esperienza bellica e identità personale nella Prima Guerra Mondiale, Bologna, Il Mulino, 2007
³ Mosse, George L.     Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, Roma, Laterza, 2007
4 Bracco, Barbara   La patria ferita: i corpi dei soldati italiani e la Grande Guerra, Firenze – Milano,  Giunti, 2012

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