Il linguaggio come specificità umana

Durante una passeggiata al parco due cani si incontrano. Si avvicinano, si annusano reciprocamente, poi ognuno prosegue per la propria strada. Gli umani che tengono al guinzaglio i cani attendono pochi minuti, assistono allo scambio, si rivolgono frasi di cortesia.

In questo semplice avvenimento sociale è avvenuta una comunicazione. I padroni dei cani hanno avuto uno scambio sintetico, basato su norme convenzionali, causato dall’avvicinamento dei cani. Tra i due cani, invece, cosa è accaduto?

Se i due uomini a passeggio esaminassero l’incontro tra i loro cani vedrebbero accadere questo: i due animali si avvicinano senza andare diretti l’uno contro l’altro, si annusano le code, muovono le orecchie e la testa. In tutto l’incontro i cani non emettono suoni riconoscibili. Eppure è naturale chiedersi: «Cosa si saranno detti?».

Porsi questa domanda, utilizzare il verbo «dire» riferito a una comunicazione tra animali, quanto può essere ritenuto valido? È a tutti gli effetti uno scambio linguistico, pur non riconoscibile all’occhio umano?

Se un comportamentalista esperto in comunicazione animale si trovasse sulla scena, senza dubbio riferirebbe i movimenti dei cani come uno scambio non casuale, dettato da regole e parametri ben precisi, referente a significati comprensibili per la specie del cane. La gestualità dei cani si rivela come qualcosa di sensato, basato su un codice.

La presenza di un linguaggio intraspecifico e codificato va ricercato non tanto nella comunicazione verbale, ma in quella paraverbale. Concentrandoci sugli aspetti gestuali, è possibile fare un esame di quel che i cani hanno voluto «dire»: la postura rilassata di entrambi indica che rispettano reciprocamente gli spazi e non invadono il territorio altrui; la prossemica, ovvero la posizione dei corpi l’uno rispetto all’altro, non frontale, vuole significare un atteggiamento pacifico, così come il movimento cinetico dei loro corpi, non veloce e non in linea diretta. È altrettanto importante osservare la mimetica che mostra il muso del cane e la gestualità che vi accompagna: muoverà la testa per sottolineare le sue intenzioni, e si leccherà il muso per significare la stessa cosa che i due uomini si dicono sorridendo per cortesia. Dopo aver fatto questo esame approssimativo dell’incontro tra i due cani, come è possibile definire la loro comunicazione? Si sono «detti» qualcosa o i loro gesti erano dovuti a un istinto tipico della specie, non voluto e non significante?

Mentre i cani mettevano in atto questo scambio gestuale, gli umani che li accompagnavano hanno costruito quello che si può definire «dialogo», basato su una comunicazione sia verbale che paraverbale, dove la verbale è composta da suoni convenzionali, le «parole», messi in un ordine grammaticale e sintattico concordato, la «lingua».

Eppure le basi del linguaggio paraverbale usato dal cane potrebbero essere impiegate in larga misura da un uomo. Alcuni movimenti fondamentali del corpo e alcune espressioni facciali formano una sorta di «linguaggio universale» che può mettere in comunicazione qualsiasi specie animale con un’altra. Ad esempio, qualsiasi animale umano e non umano si spaventerebbe nel vedersi venire incontro una creatura a braccia – o zampe, o ali – spalancate, bocca aperta, con movimento veloce, improvviso e diretto. Per lo stesso motivo nessuno, uomo o animale, riterrebbe pericolosa un creatura che si avvicinasse abbassando la testa, facendo movimenti larghi e lenti, e guardando l’ambiente circostante.

Si può affermare che la comunicazione più naturale e istintiva, quella gestuale, sia universale per animali umani e non umani. Ma dunque cosa rende la comunicazione tra i due uomini tanto diversa e soprattutto tanto più stratificata ed evoluta rispetto a quella tra i cani?

Lo studio dei linguaggi naturali degli animali non umani, affiancato a quello della comunicazione interspecifica, propone una soluzione originale, che suggerisce come l’evoluzione comunicativa dell’uomo sia dovuta proprio al linguaggio stesso, e alla possibilità che questo cambi l’uomo fin dentro al modo di pensare. Le differenze tra il «parlare» umano e il «comunicare» animale vanno forse ricercate in una funzione cognitiva del linguaggio, che potrebbe essere considerata una qualità specificamente umana.

La biodiversità è un fattore primario nella ramificazione delle specie e nella nascita di diversi comportamenti, e l’ambiente favorisce o meno lo sviluppo di diversi istinti e abilità. I differenti ambienti in cui si evolve un organismo determinano anche l’evolversi dei suoi comportamenti: questo serve a capire come ogni linguaggio sia legato alla specie e all’ambiente in cui questa vive, rendendo la comprensione di un linguaggio soggettiva. Si prenda in esame il testo di Thomas Nagel[1], in cui la questione della soggettività viene valutata partendo da un esempio di percezione totalmente diversa da quella umana: quella del pipistrello. Tutte le funzioni fisiche di questo animale, adatto a spostarsi in aria durante la notte, sono relative all’ambiente in cui vive. Il pipistrello sviluppa percezioni diversissime da quelle umane: non vede, ma «sente» gli oggetti che ha intorno. Lo studio di Nagel pone alla base l’assunto che il pipistrello abbia la coscienza necessaria per comprendere la propria esistenza. Da parte sua, l’uomo non può inserirsi nella percezione del pipistrello, può al massimo immaginare di esserlo conoscendo le sue specifiche, ma è impossibile comprendere il punto di vista dell’animale, poiché «se anche riesco a immaginarmi tutto ciò (e non mi è molto facile), ne ricavo solo che cosa proverei io a comportarmi come un pipistrello. Ma non è questo il problema: io voglio sapere che cosa prova un pipistrello a essere un pipistrello»[2]. Ogni fenomeno percettivo è legato a un punto di vista soggettivo, ciò significa che per un uomo è impossibile sapere cosa si prova ad essere un pipistrello.

There may be further implications about the form of the experience; there may even (though I doubt it) be implications about the behavior of the organism. But fundamentally an organism has conscious mental states if and only if there is something chat it is like to be that organism—something it is like for the organism. We may call this the subjective character of experience

(Thomas Nagel)

È forse questo il motivo per cui gli studi fatti su linguaggi artificiali interspecifici hanno portato a un fallimento. Per quanto le somiglianze biologiche avvicinino l’uomo ad alcuni animali, quali le scimmie antropomorfe, il tentativo di insegnare a queste ultime un linguaggio umano è risultato deludente. La differenza principale è proprio l’ambiente: ogni animale sviluppa facoltà adatte alle proprie condizioni di vita, legate alle necessità di sopravvivenza, e mentre gli animali non umani adattano le proprie capacità fisiche ad un ambiente naturale, si potrebbe assumere che l’umano abbia adattato la propria evoluzione a un ambiente cognitivo[3]. Il corpo umano non ha sviluppato particolari funzioni adattative, mentre il cervello umano risulta estremamente più evoluto di quello animale, mostrando uno spiccato istinto a sviluppare il linguaggio più velocemente.

Vi sono esempi rilevanti di linguaggio interspecifico testato su animali assai diversi dall’uomo, come nel caso del pappagallo Alex. Irene Peppenberg, studiosa di fondamenti cognitivi e comunicazione, ha insegnato ad Alex un linguaggio artificiale verbale di circa ottanta parole inglesi, con cui Alex può fare riferimento a oggetti, entità, colori e materiali[4]. Alex è in grado di rispondere ad alcune domande, come la richiesta di riconoscere un materiale o un colore in riferimento a un oggetto mostratogli. Inoltre ha sviluppato la capacità di utilizzare le parole apprese come strumenti per ottenere ciò che vuole, ad esempio richiedere una nocciola. Alex è in grado di formulare la frase «voglio nocciola!» per indicare la nocciola desiderata, ad espressione del volere che gli venga concessa, in più è in grado di capire se ciò che gli viene messo vicino al becco è ciò che ha richiesto o meno. Al fine dello sviluppo di un linguaggio interspecifico questo studio non è molto rilevante, ma permette alcune riflessioni fondamentali sulle possibilità di linguaggio degli animali.

Nella pubblicazione How to Do Things with Words, J. L. Austin, il filosofo e linguista inglese, divide l’atto locutorio, un atto fondamentale dell’agire linguistico, in tre momenti di base: l’atto fonetico, che è l’atto di emettere suoni; l’atto fàtico, ovvero l’atto di pronunciare vocaboli appartenenti a un lessico, interni a una grammatica; l’atto retico, cioè l’esprimersi utilizzando i vocaboli in riferimento a qualcosa. Ma dunque Alex, esprimendosi con il linguaggio artificiale, passa per questi tre atti? È possibile che un pappagallo sappia «parlare» in modo da poter rientrare in una classificazione fatta partendo dal linguaggio umano?

Alex emette atti fonetici: qualsiasi pappagallo ne produce, solo ripetendo parole che ha ascoltato e di cui non comprende il significato. Ma Alex è stato addestrato a capire la convenzione in cui vengono utilizzati alcuni di questi suoni, perciò passa dall’emettere un atto fonetico ad emettere un atto fàtico: quando dice «voglio nocciola!» il pappagallo sa perché sta usando il suono corrispondente a «voglio» e a «nocciola», e per quale motivo. Infine, Alex fa riferimento a qualcosa, ovvero la nocciola: se gli si porge qualcosa che non è una nocciola, Alex rifiuta, e ripete «voglio nocciola». È evidente l’intento di significare con quella convenzione un oggetto particolare e un contesto: sta compiendo un atto retico.

Eppure a chiunque sarebbe chiaro che il «voglio nocciola!» di Alex non sarà mai paragonabile al  naturale linguaggio umano, in nessun caso e dopo nessun tipo di addestramento. Cosa impedisce ad Alex o alle scimmie addestrate di sviluppare, da queste basi, un linguaggio simile a quello umano e di coglierne le possibilità?

L’impossibilità di questa evoluzione non è dovuta a una falla nei linguaggi artificiali costruiti dagli studiosi, lo si può comprendere esaminando le principali funzioni di un linguaggio animale naturale.

Felice Cimatti propone sette funzioni: quella espressiva, dove il messaggio scaturisce dall’emozione; quella fàtica, dove i segnali comunicativi sono utilizzati in funzione del gruppo; la funzione metalinguistica, dove vengono usati segnali relativi ad altri segnali; la funzione conativa, usata per indurre un certo comportamento nel destinatario; la funzione referenziale, dove i segnali sono usati relativamente a oggetti; infine la funzione estetica, fine a sé stessa, senza vero intento comunicativo.[5] A queste va aggiunta un’ulteriore funzione, quella cognitiva: l’animale non ne è del tutto privo, piuttosto sembra utilizzarla per espressioni particolari, come funzione autoconativa per guidare le proprie azioni.

A condizionare la funzione cognitiva dell’umano interviene un fattore biologico e comportamentale: l’allevamento della prole umana richiede molto più tempo di quella di qualsiasi altro animale, ma lo sviluppo celebrale del bambino è molto veloce. L’educazione ricevuta concede a un adulto di possedere un linguaggio evoluto, grazie al fatto che il bambino nella fase pre-linguistica è direzionato da un adulto tramite le parole. Per gli animali la situazione è diversa: i cuccioli di qualsiasi specie imparano il necessario guardando gli adulti, ma nessuna scimmia spiegherà verbalmente ai figli come trovare del cibo, piuttosto glielo dimostrerà. Mentre le piccole scimmie osservano, memorizzano e ripetono delle azioni, le azioni del bambino sono mediate e guidate dalla parola dell’adulto: il mezzo linguistico fa da tramite all’apprendimento, legandosi a questo in maniera inscindibile per tutta la crescita del bambino. Tramite questo tipo di educazione il bambino acquisisce coscienza di sé, e del proprio parlare: sviluppa un linguaggio interiore. È proprio questo che permette all’uomo di astrarre, pianificare, espandere la memoria, creare collegamenti e trovare risposte non immediatamente vicine nello spazio-tempo: il linguaggio interiore umano, quello pensato, permette la classificazione di oggetti, la schematizzazione e la memorizzazione, insomma aggiunge ulteriori livelli cognitivi alle facoltà già possedute. Se l’uomo cresce intellettualmente accompagnandosi con il linguaggio, così il linguaggio si evolve con l’espansione delle capacità umane. Ecco dunque la specifica capacità adattativa dell’animale umano, in qualsiasi ambiente: l’uso pedagogico e cognitivo della comunicazione, che permette l’evoluzione del linguaggio stesso.

 


[1] Nagel T., “What Is It Like to Be a Bat?”, The Philosophical Review, ottobre 1974, trad. it. Giuseppe Longo

[2] Nagel, “What Is It Like to Be a Bat?”, cit.

[3] F. Cimatti, La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani, Roma, Editori Riuniti, 2002, cit. p. 201.

[4] F. Cimatti, Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva, Roma, Carocci, 1998, p. 130

[5] F. Cimatti, Mente e linguaggio negli animali, cit. p. 130

 

 

 

 

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