Marina con Ulay

30 novembre 1943: nasce nella Germania occidentale Frank Uwe Laysiepen, conosciuto nel mondo dell’arte come Ulay. Tre anni dopo, lo stesso giorno, nasce a oltre 1500 chilometri di distanza Marina Abramović. Dal 1976 diventano la coppia di performers and lovers più famosa della storia dell’arte contemporanea.

Art Vital – no fixed living-place, permanent movement, direct contact, local relation, self-selection, passing limitations, taking risks, mobile energy, no rehearsal, no predicted end, no repetition.

Un’arte vitale – non fissa in un posto, in costante movimento, in contatto diretto, in relazione con il particolare, di autoselezione, del superare i limiti, del correre dei rischi, di energia mobile, nessuna preparazione, nessuna fine decisa, nessuna ripetizione.

Per realizzare il tipo di arte a cui aspirano (all’epoca della loro unione sono entrambi artisti già conosciuti e provocatori), hanno però bisogno di essere insieme: «Because a single artist, a single person, can’t get the results we do. We have two impulses of two people, and there is one result» ¹ spiega Ulay,  e la Abramović conferma: «We’re a man-and-woman. I am half, he is half, and together we are one». ¹
È lei a illustrare cosa davvero abbia significato il passaggio dal singolo (come artista, come persona, come pensiero, come vita) alla coppia: «I miei primi lavori erano basati sul dolore, erano davvero drastici. Se non avessi incontrato Ulay, [quei lavori ]avrebbero  distrutto il mio corpo. Ero fatalista, e sempre più distruttiva, ma quando l’ho incontrato stavo lavorando sulla liberazione che poteva derivare da quel senso di distruzione. Ho chiamato quelle performance Liberation of Voice, of Body and Memory. E dopo che abbiamo cominciato a lavorare insieme la nostra arte è diventata costruttiva»¹.

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Due e tanti. Una delle prime e più celebri esecuzioni della coppia avviene proprio nella nostra città nel 1977, in occasione della Settimana internazionale della performance alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, ed è particolare anche perché si tratta di una performance duale e collettiva allo stesso tempo. All’ingresso della Galleria si pongono infatti la Abramović e Ulay, in piedi uno di fronte all’altra e completamente nudi, rimanendo così per tutta la durata degli ingressi. Il visitatore deve scegliere: prima di tutto se entrare – in fondo siamo alla fine degli anni ’70, la rivendicazione del corpo, soprattutto quello femminile, ha già preso piede e dall’arte contemporanea ci si aspetta di tutto, ma una presenza così imposta, sfacciata, e allo stesso rilassata e passiva crea confusione. Piccola parentesi che ci sarà utile: il titolo scelto per l’esibizione è Imponderabilia (faccio riferimento alla seconda definizione del Sabatini Coletti). Abbiamo deciso di entrare, insomma: ma lo spazio tra i corpi dei due performer è minimo, bisogna mettersi di lato per passare. E adesso: scelgo di rivolgere il viso alla donna nuda o all’uomo? Bisogna essere attenti e consapevoli: rivolgere a uno dei due la propria fronte significa anche (pro)porgli i propri organi sessuali, mentre all’altro si rivolge la schiena, la parte più debole e indifesa. Non si tratta quindi di una semplice scelta pratica, ma di un processo di dubbio e interrogazione molto più profondo:  “Sono una donna eterosessuale quindi scelgo di rivolgermi verso Ulay, ma così facendo sto volgendo le spalle e ignorando la donna, quindi la mia natura” e allo stesso tempo “Sono una donna eterosessuale, mi sento a disagio a strusciarmi in pubblico contro un corpo maschile, preferisco voltarmi verso una donna, una mia compagna, ma così facendo porgo la parte più vulnerabile di me al Maschile che può aggredirmi, anzi quasi lo autorizzo a farlo”.
I loro corpi nudi sono due Colonne d’Ercole: prima di queste stava il mondo civilizzato (la Grecia Antica è la civiltà per antonomasia), superarle − anche solo pensare di oltrepassarle − significava questionare tutto.

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Due e poi tanti. Qualche costante: il 1977 e  Bologna, ma stavolta la performance è intitolata Relation in Time, eseguita nello Studio G7. Per sedici ore Marina e Ulay rimangono chiusi in una stanza da soli, seduti, immobili, in silenzio, ognuno fissa una direzione diversa e opposta. L’unico collegamento tra loro: si sono legati per i capelli. Solo allo scoccare della diciassettesima ora è concesso ai visitatori di entrare e vedere come il passare del tempo ha influito sul loro legame: i capelli sfuggono da tutte le parti, il nodo è completamente allentato, lo scioglimento imminente. Gli altri non possono assistere a una relazione che nasce, a un legame che si crea, solo a quel poco che ne rimane, che riesce a sopravvivere.
La performance fa parte di una serie intitolata That Self, titolo che indica ed evoca una terza “presenza” che si manifesta quando maschile e femminile entrano e rimangono (in time) in contatto (relation), nell’arte e nella vita.

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Inesorabilmente due. Breathing in / Breathing out continua l’interrogazione sul rapporto duale: stesso anno, ma stavolta a Belgrado, Ulay e la Abramović  rimangono bocca a bocca per venti minuti, respirando il respiro dell’altro. Ciò che mantiene in vita uno è quindi il fiato emesso dal compagno, che lo ha tenuto cosciente fino all’attimo prima; però l’aria espirata e ricevuta si è già impoverita di ossigeno dopo il primo respiro: più si prosegue e più l’aria è satura  perché non c’è respirazione che non sia questo scambio e riciclo di fiato, i polmoni si riempiono di anidride carbonica, forze e lucidità vengono meno, fino al collasso di entrambi.   Analoga è la performance di diciassette minuti Death Self – stavolta il titolo è ancora più espressivo: la relazione è sì scambio e circolazione, ma è anche inquinamento dell’altro, fino all’affaticamento e alla distruzione – reciproca.

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Fatalmente due. Ad arricchire That Self è anche la performance Rest Energy, registrata nel 1980 ad Amsterdam. In opposizione, o forse come massima rappresentazione, della mobile energy del loro manifesto artistico, mentre mantengono i corpi leggermente inclinati e divergenti la Abramović regge un grande arco dalla parte dell’impugnatura mentre  Ulay tiene la corda tesa e una freccia in cocca. La punta mira al cuore di Marina, la tensione fisica e psicologica è massima: se uno dei due prova a muoversi, la freccia potrebbe scoccare; se uno dei due allenta la presa, la freccia potrebbe scoccare; il corpo per quanto stanco della costrizione (ricordo che non sono in posizione eretta e rilassata, ma sono inclinati all’esterno, fuori dal proprio baricentro) non deve tradire, la mente nemmeno. Così è la coppia, così è la relazione: un’arma manifesta, anzi ben esibita, pronta a ferire, eppure affidata nelle mani di entrambi, soprattutto (ci sembra) dell’altro; abbiamo accettato che tra noi ci sia un’arma, non mi resta che sperare che tu non sferrerai il colpo nella coscienza che potresti farlo in ogni momento.

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Mai più due. Forse però la loro performance più commovente è l’ultima, e in un certo senso anche la prima: The Lovers, The Great Wall Walk.
Il progetto nasce infatti abbastanza presto, almeno come idea: sono gli inizi degli anni Ottanta quando la coppia pensa a una camminata sulla Grande Muraglia cinese, a suggello del loro percorso come artisti e come innamorati. Racconta la Abramović: «Eravamo in Australia, quando sentimmo che gli astronauti dicevano che l’unica costruzione umana che si potesse vedere dallo spazio fosse la Muraglia cinese, e allora ci venne questa idea: noi dovevamo solo camminare lungo la Grande Murag
lia. […] Nel frattempo, scoprimmo che non era stata costruita solo come difesa, ma si trattava anche di una struttura metafisica: è la replica della Via Lattea. Parte dal Mar Giallo: la testa del drago affonda nell’acqua, la coda nel deserto, il corpo sulle montagne. Ulay, come fuoco, come maschio, doveva partire dal deserto, e io in quanto donna dall’acqua». Avrebbero camminato l’uno verso l’altra e al momento dell’incontro, che doveva avvenire a metà strada, si sarebbero sposati.

mai più dueTuttavia, solamente nel 1988 le autorità cinesi concedono loro il permesso di concretizzare la performance e filmarla, ma la coppia è ormai in crisi da tempo, non vivono più nemmeno sotto lo stesso tetto. Ulay crede però che questo permesso sia come un segno, un dono: è la possibilità di coronare dodici anni di vita artistica e sentimentale condivisa, e di prendere infine due strade diverse. Per farlo, devono venirsi incontro un’ultima volta. La Abramović partì a piedi quindi dal punto più a est, il Golfo di Bohai sul Mar Giallo, mentre Ulay faceva altrettanto dall’estremità occidentale, che si trova nella parte sud-ovest del Deserto dei Gobi. Dopo 90 giorni si incontrano a Er Lang Shan, nella Provincia  Shaanxi e vicino a Shen Mu. Finalmente si avvicinano, dopo settimane di un cammino che li portava inesorabilmente, magneticamente a ricongiungersi, per dividersi. Si prendono per mano, per dividersi. Definitivamente.
Alla fine della registrazione originale si sente la voce della cronista cinese che  seguì la performance chiedere al vuoto: «Did they ever truly find each other?».

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Ancora due. In realtà, quella non è stata l’ultima volta che Ulay e la Abramović si sono trovati faccia a faccia. All’inizio di quest’anno, infatti, al MoMA di New York si è tenuta una mostra sulle opere della performer serba, che è rimasta essa stessa presente all’interno del museo, sei giorni a settimana fino al 31 maggio, seduta a un tavolo posto nel centro della hall. Di fronte a lei, una sedia vuota a replicare l’invito delle sue prime performance: il visitatore può accomodarsi e fare ciò che vuole. La maggior parte delle persone che hanno preso parte all’opera, dal significativo titolo The Artist is Present ², si sono limitate a rimanere sedute in silenzio, forse troppo intimidite ed emozionate dalla vicinanza per poter dire qualcosa.
E così ha fatto anche Ulay. Si è messo in coda insieme agli altri, si è seduto sistemandosi la giacca e stiracchiando le gambe e ha aspettato che la Abramović riaprisse gli occhi. L’espressione a 0:27 racconta il resto.

( almeno torna indietro e inventati un addio )

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¹ Da un’intervista a M.A. e Ulay di Helena Kontova,  apparsa su Flash Art n°80-81, 1978
² Così è stato chiamato anche il documentario che in parte è tratto dalla mostra e dalla performance al MoMA e in parte si propone come summa del lavoro della Abramović,  in Italia uscito a cura di Feltrinelli.

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