unorthodox-netflix

Unorthodox: la miniserie tratta da una storia vera

Tutto il mondo ne sta parlando, subito dopo il Coronavirus e Tiger King, una docuserie sempre su Netflix: Unorthodox è la miniserie di quattro episodi che segue la giovanissima Esther Shapiro nella sua fuga dalla comunità ebraica di Brooklyn in cui è cresciuta per raggiungere Berlino, inseguita dal marito e dal cugino di lui che vogliono riportarla indietro.

Creata da Anna Winger e Alexa Karolinski, Unorthodox è basato sulla storia vera raccontata da Deborah Feldman nel libro omonimo della serie, pubblicato nel 2012. Parlata in gran parte in Yddish, la miniserie Netflix ci dona una visione privilegiata sulla vita di alcune famiglie della setta chassidica Satmar nel cuore di Williamsburg, dei loro riti quotidiani e delle loro funzioni religiose, ma anche di cosa significa non sentirsene parte, scoprire di poter essere altro – o di esserlo sempre stati.

Una volta arrivata a Berlino sulle tracce di una persona, Esty si ritroverà invece da sola, senza punti di riferimento, ma con un talento che potrebbe fare la differenza: sarà questo a darle una nuova direzione e a procurarle un gruppo di amici provenienti da tutto il mondo pronti a guidarla e sostenerla.

Parallelamente e intervallate da flashback del passato di Esty assistiamo alle ricerche, prima a Williamsburg e poi a Berlino, di Yanky, marito di Esty, e del cugino Moishe, portatori dell’ingenuità l’uno e della mancanza di scrupoli dell’altro. Più che un riportare a casa Esty. questo viaggio si profila come il venirsi incontro tra realtà apparentemente inconciliabili, che sono molte di più di quella della comunità Satmar da una parte e il resto del mondo dall’altra. Scopriremo anche che il motivo per cui Yanky sta cercando Esty non è l’amore e quello per cui Esther è fuggita non è sperimentare il mondo.

Cosa significa “Unorthodox”

Il titolo della miniserie Netlifx e del libro di memorie, Unorthodox, è un bell’esempio del potere della lingua. Si tratta di un composto: un–ortho–dox, il cui fulcro è orthos (ὀρθός), aggettivo che significa “dritto” e quindi, per estensione, “retto, giusto” e che fa riferimento alla doxa (δόξα), che significa “opinione” e può assumere diversi valori. Nella Grecia classica, poteva equivalere tanto alla fama che qualcuno aveva acquisito (anche grazie all’opinione che gli altri avevano di lui/lei) quanto alla conoscenza delle cose basata sull’opinione soggettiva (e quindi non comprovabile scientificamente), un mondo di apparenze sensibili diversi da persona a persona.

È con il Nuovo Testamento (scritto in greco) che la doxa si allontana dal concetto caro ai e analizzato dai filosofi greci per aderire ancor di più al primo significato, quello di onore, a cui si aggiunge la sfumatura di gloria e quindi di magnificenza. Doxa indica ora lo splendore divino, in un tentativo di rendere in greco uno degli attributi chiave di Jhwh e collegarlo a Gesù, a indicarne la continuità: Jhwh splende nel rogo che si mostra a Mosé, Gesù splende sul Getsemani o davanti a Paolo (Saulo) di Tarso.
L’ortodosso è colui che accetta una dottrina, per lo più religiosa, e ne segue strettamente le regole. Cosa è successo quindi a Esty?

Un- è prefisso con valore negativo che annulla il significato della parola che segue, proprio come in greco antico accadeva con l’alfa privativo ἀ- (o ἀν- davanti a vocale, anche in Italiano: pensa ad anaffettivo), che derivando dal proto indoeuropeo *n condivide quindi la stessa origine di ne-, in-, on-, un-, che si sono differenziati nelle varie lingue d’Europa, dal latino al danese, sempre con valore negativo.

La traduzione più semplice di non-ortodosso diventerebbe così eterodosso, cioè chi segue una dottrina diversa da quella della maggioranza, proprio come non-basso significa alto, non-buono sta per cattivo. In realtà, da quello che percepisco come parlante d’inglese, un- può avere anche una sfumatura in più, quella che indica il lasciare uno stato che esisteva in precedenza: per esempio unfitted significa “che non è più in forma”, quindi: fuori forma. Per questo, unorthodox può significare anche “che non è più ortodosso, che è uscito dall’ortodossia”: e questo è il caso di Esther Shapiro e Deborah Feldman. Fuori dalla comunità.

Chi è Deborah Feldman, la scrittrice che ha ispirato la miniserie di Netflix

Prima di essere una serie, Unorthodox è un libro: quello delle memorie di Deborah Feldman e del suo distacco dalla comunità di ebrei ultraortodossi in cui è cresciuta. Il titolo completo dell’autobiografia è infatti Unorthodox: The scandalous rejection of my Hasidic roots, perché la comunità di cui faceva parte Feldman e che appare nella serie è quella Satmar, formata da ebrei conservatori e rigorosi che fanno affidamento sui principi del chassidismo (conosciuto anche come ḥasidismo o hassidismo), un movimento nato in Polonia nella prima metà del Settecento e oggi praticato da più comunità di ebrei di origine ungherese o rumena che vivono per lo più negli Stati Uniti.

Uno degli obiettivi di questi gruppi, che affondando le origini in Polonia e nei Paesi slavi è stata quindi uno dei più colpiti dall’Olocausto, è ricostituire i sei milioni di persone o fedeli persi a causa della Shoah. Questo è l’imperativo che guida l’intera comunità, a cui tutto il resto viene sacrificato.

Deborah Feldman

Anche se non si tratta di una rimessa in scena pedissequa delle memorie di Feldman, gran parte di ciò che vediamo nella serie riprende ciò che è successo a Deborah. Come il matrimonio quando aveva solo 17 anni, dopo aver visto il futuro marito per poco più di mezz’ora; i problemi di vaginismo che hanno minato la sua vita sessuale e la sua posizione nella famiglia e nella comunità. Perché Deborah Feldman prima ed Esther Shapiro poi hanno un compito sociale che devono portare a termine e che parte dalla camera da letto.

È in questo luogo della casa che si svolge una delle scene più potenti della serie, una sorta di punto di svolta, di rude awakening: momento che non è però accaduto nella realtà, lasciando Deborah Feldman in ammirazione di Esther e un po’ gelosa della sua capacità di prendere possesso del momento.

Dignità e vergogna

La visione della serie è stata molto dura per Deborah Feldman: ha raccontato al New York Times che, nonostante abbia vissuto tutto in prima persona e abbia parlato di questa storia per anni, «per la prima volta ho visto come altre persone – e non io – la interpretavano, la trasponevano in immagini, entravano nei ruoli, tagliavano le scene».

Non si è trattato solo di mostrare al mondo l’intimità di Deborah–Esty, ma quella di un’intera comunità che si tiene isolata e in disparte, che non partecipa al resto del mondo, di fronte al quale improvvisamente si trova disvelata, senza difese. Allo stesso tempo, questo significava mettere in prospettiva le scelte e i comportamenti della protagonista, inquadrarli in un contesto – e quindi poterli giudicare.

La cosa che mi preoccupava era la dignità di Esty, che era anche ciò che mi preoccupava mentre scrivevo Unorthodox: come si scrive di cose così dolorose e shameful in un modo che sia dignitoso?

Deborah Feldman al New York Times

Shameful può significare, letteralmente, “vergognoso, deplorevole, disonorevole, scandaloso, imbarazzante”: il termine perfetto per indicare il filo sottile su cui corre tutta la storia, sempre in bilico tra il senso di vergogna intimo di non riuscire ad adempiere o riconoscersi nelle leggi della comunità e non realizzarsi come persona e quello di disonore pubblico.

In particolare, questo senso di non essere mai all’altezza e di continua mancanza nei confronti delle regole è trasmessa a Deborah ed Esty dalle donne della comunità: la zia, la suocera, la sessuologa, le inservienti che per esempio officiano il mikveh. Davanti a loro, quasi più che al marito e agli uomini della comunità, sembra che Esty debba dimostrare di aver diritto a esistere, conquistarsi un posto e mantenere un ruolo.

Quello che Deborah ha detto al marito Eli però è molto simile a quello che Esty dicee a Yanky in Unorthodox: bada che io non sono come le altre ragazze. I desideri di Deborah, anche quelli più semplici come indossare lo smalto sulle unghie, si scontrano con le aspettative della comunità e la ricerca che porta Esty dall’altra parte del mondo è incentrata anche su questo: scoprire se si ha diritto a essere qualcuno nonostante questo si allontani da quello che venga considerato giusto (orthos, appunto).

«Ero molto ansiosa perché sapevo che se [Shira Haas, l’attrice che interpreta Esty] avesse fallito, allora avrebbe significato che anch’io avevo fallito, che la mia storia non avrebbe avuto più dignità» ha detto Deborah Feldman nella stessa intervista. Non deve temere nulla, però: ogni personaggio di Unorthodox riesce a mostrare entrambi i propri lati, quello più luminoso e quello più oscuro, quello che si fa amare e quello che si fa odiare, mostrando una compresenza che è molto rara nelle serie e che viene portata con delicatezza e attenzione sullo schermo perché si racconti da sola.

Gli uomini raccontano la storia e le donne rendono la storia reale. Sono le donne a far accadere la storia.

Deborah Feldman al New York Times

Intervista a Deborah Feldman sul New York Times

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.