Pino Cacucci, ritratti libertari dal Messico: Tina Modotti e Nahui

Chi sia Pino Cacucci è difficile dirlo, con esattezza. Scrittore, storico, traduttore, osservatore sociale, viaggiatore, attraversa da venticinque anni i luoghi come le vite e le correnti politiche o artistiche: a passo lento e leggero eppure senza mai indugiare, quasi non esistesse altra direzione percorribile da quella intrapresa.
Fellini lo definiva “un artigiano, un costruttore di trame, di atmosfere e di personaggi”, e non sbagliava, riconoscendogli l’abilità di produrre progressivamente, ricombinando e rimpastando elementi già presenti nella realtà, vivi per se stessi e per loro memoria.

Nato ad Alessandria e cresciuto a Bologna, dove frequentò il DAMS e dove al momento vive, Cacucci ha soggiornato a Parigi, a Barcellona e per un lunghissimo periodo in Messico, terra alla quale deve grande parte della sua scrittura.
Il Messico degli anni ’80 è in Cacucci uno spazio di dialettica creativa, di pulsante contrasto tra il fenomeno di globalizzazione, l’avanzamento tecnologico di marchio statunitense che le grandi città messicane inglobavano, e la resistenza culturale e specificamente identitaria che a tale trasformazione si opponeva; tra l’istintivo attaccamento alle proprie radici e la necessità di progredire, di andare avanti.

Pino_Cacucci_0031-199x300«Le radici sono importanti, nella vita di un uomo, ma noi uomini abbiamo le gambe, non le radici, e le gambe sono fatte per andare altrove», scriveva in Un po’ per amore, un po’ per rabbia, e la sua poetica sembra interamente permeata da questa naturale, irreversibile fatalità.

La resistenza che cede ma non cessa, “i perdenti ma non vinti” costituiscono la materia prima e primaria dei suoi testi: coloro che si ribellano, rigettando i meccanismi di scontro, violenza e distruzione sociale prestabiliti e indotti dal sistema, volgendosi alla costruzione di nuove forme di aggregazione e lotta; coloro che scelgono di mettere in circolo parole sane e giovani per dare corpo e forza ai valori, opponendosi disperatamente all’oblio dell’antica architettura della civiltà; coloro che non si rassegnano nemmeno da arresi.
Se per Camus i ribelli dicono di no, per Cacucci si affermano dicendo di esistere, divenendo per l’innegabile e insistente evidenza  di (r)esistere in quanto ribelli i fautori di quel progresso dell’umanità da sempre destinato a nascere da un gesto di ribellione.
Così l’autore non rivela l’essenza della lotta resistenziale attraverso l’invenzione di personaggi fittizi e assimilabili alla dimensione dell’idealità, ma lo fa attraverso la riscoperta di personaggi storici effettivamente esistiti, cioè riproponendo la realtà di una presenza cangiante che può ancora salvarci siccome ci ha salvati, una realtà in divenire che nelle sue opere è elaborata con la cura dell’archeologo e la precisione del filologo, con la vis imaginativa dello scrittore e l’attenzione alla veridicità dello storico.

Con gli strumenti del traduttore (cosa che effettivamente è, peraltro magistralmente) e le qualità innate del pittore, Cacucci realizza originali ritratti di libertà e rivoluzione, ma anche di ostinata integrità e polverosa bellezza, tra i quali spiccano distintamente quelli di donne selvatiche, fascinose e immense, di anime creatrici sfavillanti di vita e dalla vita sofferta come Nahui, Frida Kahlo, Tina Modotti, “Tania la Guerriera”.

Più note le compagne di Diego Rivera e di Che Guevara, poco conosciute al grande pubblico italiano Tina Modotti, friulana di nascita, e Nahui, al secolo Carmen Mondragón, sulla vita delle quali Cacucci ha scritto e pubblicato Tina nel 1991 e Nahui nel 2005.

Tina Modotti da giovane

Su Tina s’è detto tanto ultimamente, l’ultima mostra a lei dedicata si è conclusa a Torino un paio di mesi fa e negli ultimi anni sono state diverse le biografie edite e i documentari realizzati (Tinissima. Il dogma e la passione, Laura Martinez Diaz, 2011 ; Tina, Anna Vinci, 2013), a ripescare dal baratro dell’indifferenza in cui era stata gettata la figura di una delle artiste più influenti nella storia della fotografia novecentesca, ma anche delle più interessanti, eclettiche ed esplosive della sua epoca.

Emigrata in gioventù negli Stati Uniti, Tina entrò presto in contatto con il fermento culturale di San Francisco, Hollywood e Los Angeles, dove si cimentò come attrice teatrale e cinematografica e infine, dopo l’incontro con il fotografo Edward Weston, come fotografa, il cui talento fu internazionalmente riconosciuto. Intensissimo fu il suo impegno artistico, paragonabile solo all’impegno politico e intellettuale che profuse in ogni angolo del mondo: a Città del Messico si dedicò alla causa rivoluzionaria, lavorò per Soccorso rosso, in Spagna combatté con le Brigate internazionali, in Russia subì come una violenza l’operato di Stalin. Ma sempre e per sempre dalla stessa parte la si trovò, parafrasando De Gregori, compreso quando ogni promessa venne disattesa e ogni speranza naufragò lasciando spazio alla sola decadenza: dalla parte della libertà, della giustizia, dell’umanità, dell’equità, della bellezza.

La stessa parte di Nahui Olin. La bellissima, provocatoria, pungente e infine folle – d’un eccesso di lucidità – Nahui. Polarizzata al Messico come quella di Tina, la vita di Nahui scorse tra l’Europa francofona e la Spagna, dove si dedicò alla pittura e alla poesia e dove occupò un ruolo di rilievo nell’ambiente artistico parigino e messicano per via della sua sfrontata nudità, offerta generosamente a pittori e fotografi e impiegata come mezzo di scardinamento e segno di sfida dello status quo. Numerosi furono i suoi amanti, fertili e brucianti i suoi amori – primo su tutti quello per il pittore Gerardo Murillo, infinita l’ebbrezza cui si abbandonò come in un impulso giorno dopo giorno, fino alla morte del compagno e della révoluciòn, dopo la quale si lasciò evaporare alla maniera della Remedios di García Márquez.

Nahui Olin

 Tina e Nahui appartengono alla categoria di «donne e uomini dai volti allegri, malgré tout, persone che ogni giorno compivano l’atto civile e memorabile di fare del proprio meglio per rendere il mondo un luogo un po’ meno triste e un po’ più vivibile» (Nahui, 189). Sono carnali, volitive, fragili, impietosamente lucide e straordinariamente appassionate. Figure incapaci di cristallizzarsi in un’identità definita, disperse in ogni luogo e raccolte in un essere in divenire che è  – risiede – nello scivolamento dei giorni, degli eventi, delle persone che gli gravitano attorno e dentro, delle scintille che lo animano senza tregua. Guerriere ardenti e profili di dolore che pregano e combattono, amano e soffrono con la stessa incandescente enfasi, con lo stesso temperamento sanguigno con cui si lasciano masticare dalla vita acre nel tempo delle trasformazioni politiche e storiche, delle rivoluzioni sociali, delle attese che verranno deluse ma non sapranno volgersi in disperazione, della bellezza che pur anestetizzata, camuffata e sfigurata non può soccombere.

Entrambe sono donne intelligenti, inquiete e anticonformiste che punzecchiano e sfidano le limitanti e sterili norme della società messicana degli anni ’20 ( «Ho un corpo così bello che non potrei mai negare all’ umanità il diritto di contemplare quest’opera», rispondeva Nahui ai benpensanti che la criticavano per i suoi nudi), con ben 40 anni d’anticipo sui percorsi europei d’emancipazione femminile. Le loro esistenze sono in egual modo turbolente, travolte e stravolte da un rapporto con l’arte, con le passioni e con l’amore che si rivela sofferto e gioioso, impossibile e inevitabile insieme. E simile è il loro destino, una tragedia sublime da consegnare intatta alla storia: sfioriscono senza marcire; scelgono di perdere quando temono di non poter più vincere sulla vita; si lasciano andare quando consapevoli di non poter più accompagnare «al piano le danze di una società che stava portando tutto all’estremo» (Nahui, pag. 174); soffiano le ceneri del mondo per diffonderle disperdendole, ma non le abbandonano.

Tina Modotti, dalla Mostra Tina Modotti. Fotografa e Rivoluzionaria

Pino Cacucci immortala e celebra il mito della resistenza e della libertà attraverso l’esperienza quotidiana e l’esistenza di due donne, una morta a poco più di quarant’anni d’età e una dalla notevole longevità, a comunicare quel messaggio spesso espresso da Tina per cui la democrazia ha bisogno di normalità. Una normalità fatta di giorni, di dolore, di umanità nel senso lato e più pieno del termine, di spasmi di felicità, di miseria e candida ricchezza, di silenzi e canti.

Inserite nella cornice del Messico del primo Novecento, meticolosamente descritto e attentamente caratterizzato dall’autore, Tina e Nahui si muovono in una marcia della pace e della comunione, forse utopica ma incredibilmente reale al fondo dei loro occhi luminosi, della loro ostinata, tenace, irriducibile tensione ad una negazione della distruzione che non si arresta nemmeno quando tutto viene a mancare e che coincide – in una visione esistenzialistica – all’unica possibile affermazione umana.

Sul finale di Tina troviamo Tina seduta ad aspettare, «sola col suo sguardo penetrante», Cassandra tradita dalla sfiducia altrui ma ancora con lo sguardo rivolto al futuro, speranzoso. Similmente in Nahui: troviamo una Nahui incompresa ai più, ritenuta folle e schiva, e tuttavia ancora brillante e fulgida, come rivela in alcuni dialoghi, ancora parte integrante – seppur occulta – di quel panorama intellettuale messicano libertario e desiderante.

Cacucci ripercorre passo dopo passo il passo e lo spazio dell’anima di queste due donne, alternando alla narrazione principale e oggettiva forme di scrittura privata, dalla diaristica in Nahui alle incursioni poetiche, dialogiche, epistolari in Tina e contrapponendo a uno stile fluido, ricercato ed esatto uno stile più frammentario, sospeso e approssimato proprio della pratica scrittoria privata.

Nahui Olin, 1932

Efficaci e vibranti, duri e languidi, i testi di Cacucci sembrano tradotti e dipinti ancor prima che scritti, quasi presupponessero un’operazione di traslazione e ricomposizione, di ripulitura e di rimodellamento, in definitiva di microchirurgia estetica – senza anestetici – dell’etica.

Tina, Nahui, Frida e le altre donne di cui Cacucci racconta sono donne-preghiera, donne-veggenti, combattenti di pace e madonne rivoltose che guidano con innocenza e ardore il mondo verso la sua fonte, perché gli sia foce, e che non possono perire perché fatte della stessa carne delle idee – che, Shakespeare mi perdoni, sono più radicali e potenti dei sogni.

Eloquente è a tal proposito la poesia che Pablo Neruda scrisse su e a Tina Modotti alla sua morte, riportata in calce del testo di Cacucci ed evidentemente da quest’ultimo a pieno condivisa (con la nostra più totale approvazione):

[…]
Lo senti quel passo, un passo pieno di passi, qualcosa
di grandioso che viene dalla steppa, dal Don, dal freddo?
Lo senti quel passo fiero di soldato sulla neve?
Sorella, sono i tuoi passi.

E passeranno un giorno dalla tua piccola tomba prima che le rose di ieri appassiscano;
passeranno per vedere quelli di un giorno, domani,
dove stia ardendo il tuo silenzio.

Un mondo marcia verso dove andavi tu, sorella.
Ogni giorno cantano i canti delle tue labbra,
sulle labbra del popolo glorioso che tu amavi.
Col tuo cuore valoroso.

Nei vecchi focolari della tua patria, sulle strade
polverose, una parola passa di bocca in bocca
qualcosa riaccende la fiamma delle tue adorate genti,
qualcosa si sveglia e comincia a cantare.

Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il nome tuo
noi che da ogni luogo delle acque e della terra
col tuo nome altri nomi tacciamo e pronunciamo.
Perché il fuoco non muore.

Tina Modotti,Madre con bambino di Tehuantepec

Tina Modotti,Madre con bambino di Tehuantepec

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