Vite che non sono le loro

“Devi pensare come pensano loro”. Questa espressione torna spesso nel corso della lettura di Occhi di lupo, cuore di cane, romanzo di Diana Ligorio (abbiamo recensito il suo romanzo d’esordio qui, n.d.r.) pubblicato da Bompiani nella collana Munizioni, diretta da Roberto Saviano. Torna perché è una sorta di morale della favola, un’operazione fondamentale da compiere a prescindere si tratti di ritrovare un figlio che non è rientrato a casa, sostenere un provino o incastrare un boss mafioso: pensare, muoversi, vivere come un’altra persona, confondersi come i camaleonti, diventare alieni, altri da sé. Che non vuol dire per forza annullare il proprio io, ma adattarlo alle circostanze per affinarne le qualità distintive. 

Questo fanno, nel corso delle loro carriere, gli uomini e le donne della Direzione Investigativa Antimafia, un corpo interforze, nato nel 1991 da un’idea di Giovanni Falcone, che riunisce i migliori effettivi delle varie forze dell’ordine italiane per combattere la criminalità organizzata. E questo fa anche l’autrice del libro per raccontare la storia dell’ispettore capo della DIA Franco Lomuto: decide di camminare nelle sue scarpe, celandosi dietro la prima persona singolare di un poliziotto sessantenne, ormai in pensione, che cerca di fare i conti con sé stesso e con i suoi fantasmi. 

Diana Ligorio

Il risultato è un esperimento letterario interessante, frutto di una contaminazione che, a livello stilistico, riprende ulteriormente il mimetismo di cui sopra. Perché Occhi di lupo, cuore di cane è principalmente un romanzo, un’opera di finzione che Diana Ligorio ha costruito basandosi sulle testimonianze, da lei raccolte, per la scrittura e la realizzazione del documentario DIA 1991 – Parlare poco, apparire mai. Ma nella forma e nel linguaggio, e nel suo basarsi su fatti storici certificati – le indagini che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, portarono la DIA alla cattura del boss latitante Leoluca Bagarella nel 1995 – il libro strizza l’occhio alla non-fiction e al memoir, attraverso l’intuizione narrativa della lunga e appassionata confessione di un padre assente a un figlio quasi perduto.

L’ispettore capo Lomuto è infatti un personaggio splendido nella sua disperazione, un eroico perdente che, se non ha né il fascino né l’ironia del detective da noir anni 40, possiede tutta la tragicità crepuscolare di uno che ha sacrificato la sua esistenza e i suoi affetti per senso del dovere e un’ideale di giustizia. Fedele al suo nome e alla funzione, è un uomo che nella vita ha parlato il minimo indispensabile e, per quanto riguarda la sfera famigliare, mai al momento giusto: troppo lunghi i periodi passati in missione lontano da casa, troppo pericoloso dire una parola in più, troppo alta la pressione per lasciarsi distrarre dal proprio privato. Ma quando lo incontriamo, prigioniero dei ricordi nella stessa camera d’albergo dove, trent’anni prima, viveva sotto copertura indagando su Cosa Nostra, è ormai un fiume in piena, un vaso di Pandora che esplode in un racconto fiume rivolto a quel figlio che, più di tutti, ha patito le sue mancanze. Non per giustificarsi, beninteso, ma per spiegarsi con chiarezza come mai prima d’ora: per insegnare, tanto a lui quanto a noi che leggiamo, che, al netto dei non detti e delle occasioni mancate, esiste chi decide di non esistere, chi sceglie di non avere altra scelta. Chi pensa consciamente che valga la pena di vivere nell’ombra, schiacciati dall’ansia e dalla paura, pur di proteggere i propri cari e provare a dare il proprio contributo per un mondo migliore. Non per gloria, né per eroismo, ma perché è giusto così. 

Autore: Salvatore Ciambra 
Copyright: © Salvatore Ciambra

In un continuo andirivieni tra la Palermo di oggi e quel Far West con tanto di esercito per le strade che era la Sicilia negli anni Novanta, Occhi di lupo, cuore di cane ha il pregio di essere uno di quei libri che, attraverso una storia personale, ci racconta un pezzo di Storia del nostro paese. E, se è innegabile che l’equilibrio tra l’anima documentaristica e quella romanziera dell’autrice si sbilanci talvolta a favore di quest’ultima in qualche eccesso di retorica, è altrettanto vero che Diana Ligorio riesce a imbastire una trama ritmata e avvincente, precisa tanto nella ricostruzione storica quanto in quella dei metodi d’indagine. Ma soprattutto riesce a creare un’opera che parla di fedeltà, un valore che troppo spesso viene dimenticato tra le poltrone della politica o tra le pieghe delle nostre vite; di coraggio, una qualità che non è sempre innata ma, a volte, solo il risultato della coerenza delle nostre decisioni; di famiglia, un microcosmo che puoi ritrovare nei posti più inaspettati e non puoi far altro che difendere.

In una sola parola, questo libro ci parla di responsabilità, quella che magistrati e inquirenti si sono presi in nome di tutte e tutti senza chiedere nulla in cambio. Per non dimenticare.

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