Mia e la voragine: una fiaba visionaria

Mia è una preadolescente timida, riservata e curiosa che vive nell’ombra della madre Alma, pediatra brillante e anaffettiva che tenta di colmare con il successo professionale il vuoto lasciato dalla morte del marito. Un lutto mai elaborato che la porta ogni estate a trascinare la figlia nel paesino sperduto dove il marito è letteralmente scomparso, per trasformare la vecchia casa di famiglia in un apprezzatissimo ambulatorio temporaneo e usare il consenso popolare come terapia contro l’horror vacui delle vacanze estive. Avrebbe un sacco di domande, la povera Mia, sempre più relegata nell’angolo di una casa che deve contenere l’ego della madre, ma tutto rimbalza contro il muro di gomma delle risposte scientifiche di Alma, che fa del linguaggio medico un’arma di difesa e prescrive per sé e la figlia dei pesantissimi silenzi terapeutici.

Riassunta così, la trama di Mia e la voragine contiene tutte le premesse per un bel drammone sull’incomunicabilità famigliare, uno di quei mattoni “due camere e cucina” che, se portato sul grande schermo, diventerebbe il soporifero esercizio di un regista post-antonioniano che tiene a bada una Margherita Buy al limite e una sconosciuta esordiente dall’accento lievemente romano.

Per fortuna non è mai la storia ma il modo in cui la si racconta, e Diana Ligorio – autrice di documentari qui al suo romanzo d’esordio con la sempre coraggiosa e originale Terrarossa Edizioni – sceglie la direzione visionaria, quella delle ragazzine risucchiate da un pericoloso Paese delle Meraviglie che parte dall’Alice di Lewis Carroll per arrivare alla Coraline di Neil Gaiman e – ribadendo il parallelismo cinematografico – al Guillermo Del Toro più messicano, quello dei fauni e dei mostri sentimentali.

Diana Ligorio

Mia e la voragine è una fiaba sull’accettazione della perdita e sull’inevitabilità di farsi male per crescere, che l’autrice sceglie di scrivere in una prima persona singolare adatta a restituire sia la cadenza dialettale della protagonista, sia il suo sguardo tardo-infantile filtrato da una fantasia inesauribile. Mia è una flâneuse annoiata e infelice che trascina una gamba affetta da zoppia e scappa da una dimensione domestica insostenibile, trasformando tanto la madre quanto tutto ciò che la spaventa o non le piace in creatura fantastica: adulti e bambini diventano animali antropomorfi o figure eteree che sembrano attingere all’immaginario del Pinocchio di Collodi (e di Comencini), mentre il paesaggio che la circonda è quello di una Puglia selvaggia e incantata, dove gli ulivi sono mostri ricurvi e tentacolari, le piogge rovesci torrenziali e traditori e le gravine voragini naturali e interiori. Come quella del titolo, una fossa apparentemente senza fondo che diventa l’entrata di una dimensione parallela tutta da esplorare, un nostrano upside down dove dimorano fantasmi del passato e sensi di colpa da affrontare per raggiungere maturità e consapevolezza.

Gravina Grande
Pietro D’Ambrosio, CC BY-SA 3.0 http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/, via Wikimedia Commons

Da buona documentarista, Ligorio è bravissima a evocare immagini funzionali alle sensazioni che vuole raccontare, a creare un universo immaginario e realistico allo stesso tempo, a usare l’ambientazione come proiezione dell’interiorità dei personaggi: Mia e la voragine è un libro che si vede, un romanzo breve ed essenziale che va dritto al punto, tirando il lettore dentro la gravina il tempo necessario per farlo evadere e riflettere. Come in certe storie di Buzzati, ma senza lasciarti l’amaro in bocca.  

Ancora una volta Terrarossa si dimostra casa editrice attenta alla sperimentazione e alla contaminazione di generi, arricchendo il catalogo con un’opera adatta tanto ai lettori più giovani quanto ai loro genitori: una storia fantastica che, se portata sul grande schermo, potrebbe diventare l’esercizio visionario di un regista post-felliniano che tiene a bada una sconosciuta esordiente dall’accento lievemente barese e – perché no? – una Margherita Buy coerentemente sopra le righe.

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