Quattro film terribili

Aggiungere commenti e impressioni in parole ad opere in cui suono, immagine e movimento concorrono alla creazione di un senso soggettivo non è che un pretesto: esprimere il desiderio che tale senso sia interpretabile da chi ancora era ignaro dell’opera.

naniANCHE I NANI HANNO COMINCIATO DA PICCOLI  (W. Herzog – 1970). La prima opera da cui partiamo in queste quattro declinazioni della vita e della morte è un incubo, tanto orribile «perché generato da chi lo sta sognando e dagli elementi di cui è composto, e insieme farsesco perché comunque destinato a finire in un non senso ancora maggiore. Un sogno in bianco e nero popolato da nani che, rinchiusi in un’imprecisata struttura di correzione, detenzione o assistenza, decidono di sovvertire l’ordine imposto dal maestro che vi regnava al grido: “vogliamo divertirci anche noi!”».
Ogni livello civile, dalla religione alle buone maniere, viene fatto a brandelli e la natura – presunta ordinata – appare come una realtà impossibile da ordinabile. I nani del racconto non sono tali, sono uomini normali la cui statura viene ridimensionata per adattarsi alla grandezza delle comuni pretese di etica e morale, e la violenza e la crudeltà trionfano su tutto ciò che cerca di barricarsi nella sicurezza della ragione.
Una dinamica di gioco e violenza che si svela nel simbolo del cerchio, universale ritorno circolare di distruzione che è un inesauribile crescendo senza un vero inizio né una fine. L’istituto in cui i nani ribelli si muovono è un vero microcosmo, pieno di piante ed animali addomesticati e circondato da una natura inaccessibile, fatta di nere e aguzze rocce laviche; la presumibile pace che vi regnava prima della ribellione non è che un velo, gli stessi animali che vi razzolano divorano i cadaveri dei propri simili, torturano i propri compagni in difficoltà e si combattono fino alla morte; neutrale rispecchiamento di ciò che lungo il racconto avverrà tra gli uomini.
Non c’è morbosa ricerca di sadismo ma una capillare insistenza sui dettagli che compongono l’universale insensatezza di una natura che segue regole inevitabili e che può essere definita “spietata” solo da chi può concepire la pietà. Il tentativo di far regnare “l’ordine e la pulizia” naufraga nell’insensato moto circolare di una macchina priva di conducente e infine distrutta mentre i nani ribelli gridano al proprio maestro assediato: “ne abbiamo abbastanza della lotta eterna contro la bestia che si annida dentro ognuno di noi!”
Si sgretola ogni pretesa morale, il tutto senza uno scopo blasfemo o solenne ma tra le risate del divertimento più assoluto, sciolto da ogni legame, come testimonia una musica di sottofondo che accenta le scene più drammatiche con una voce e una chitarra bambinesche e tese, angosciosamente allegre.
Nessuno dei protagonisti si salverà e insieme nessuno confesserà i propri peccati perché a nessuno interessa la redenzione o la dannazione, resta solo la sfida rabbiosa di piccoli uomini al proprio mondo: l’ordine insensato e perentorio dato ad un albero di abbassare il proprio ramo e la strozzata derisione di un animale incapace di reggersi sulle proprie zampe.
Un racconto allucinato che è parabola simbolica del ruolo degli esseri umani sulla terra visto dagli occhi di chi ricerca nell’estremo più disperato una (non)risposta, eversiva di tutte le risposte.

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amore-tossico-locandina-filmAMORE TOSSICO (C. Caligari – 1983). Il secondo film è una diversa declinazione della vita, ricercata raccontando le giornate di un piccolo gruppo di tossicodipendenti nella loro missione di arricchire, evitare, sopportare l’esistenza. Girato a Ostia agli inizi degli anni Ottanta si immerge in acque che nessuno al tempo desiderava approfondire rendendo possibile quell’attraversamento dello specchio che permette di fissare lo sguardo su ciò da cui si preferisce distoglierlo. La vita giornaliera di chi va in cerca di una dose passa attraverso gli occhi di una coppia di ragazzi alle prese con tutti i modi che Roma e il Lido di Ostia propongono per “svoltarla”.     In tutti i personaggi che ci vengono presentati brilla una scintilla, nella vaga fuga dal quotidiano piacere generalizzato, per cercarne uno più intenso e altrettanto inappagabile, arde una vivacità che nulla ha a che vedere con l’opacità dei loro occhi; ed è questa scintilla che tiene in piedi l’intera narrazione: ogni personaggio scatena empatia e anche il più ruvido pappone non può non far sfuggire una risata.
Quasi tutto il film riesce a sostenersi in questo pericoloso stallo tra lacrime e riso che sembra riprodurre formalmente il filo di rasoio tra morte e vita sul quale i personaggi sono perennemente in bilico; privo di retorica, tranne che negli accenti drammatizzanti della spigolosa colonna sonora, focalizza l’attenzione a non tralasciare nulla del mondo sommerso della periferia e della grande capitale che si sostiene grazie alla droga, un mondo presentato esplicitamente e implicitamente in tutti i suoi aspetti: dai transessuali che deridono le suore alla stazione alle madri che fanno le veci del figlio fornendo eroina conservata nel barattolo dello zucchero, dagli invisibili architetti e avvocati che fanno altrettanto parte e sostentano il circo della droga ai precisi rituali nella preparazione delle siringhe, fino ai gelati, al cui piacere comunque non si riesce a rinunciare anche in un assolato pomeriggio in cerca di una dose.
Il merito nella riuscita di questi quadri sta nel volere presentare una vicenda così come si svolge, senza censurare sangue o bestemmie, grazie a un cast composto da “ex” tossicodipendenti che, recitando in vernacolo stretto, riescono ad unire verismo a felici e drammatiche interpretazioni. Un racconto su una droga che inietta grande godimento lasciando tremule speranze, senza volontà di rendere affascinante o miserabile la ricerca di un piacere e una sofferenza da cui si vuole e non si vuole sfuggire nell’incessante e sempre uguale sbattere del mare sulla battigia.
(Leggete cosa ne pensa Francesco Lunetta qui)

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pieta-kim-ki-duk-posterPIET (K. Ki-duk – 2012). Dalla Korea giunge questa parabola evangelica della vita vissuta nella forma più miserabile del capitalismo, legata indissolubilmente al denaro come “inizio e fine di ogni cosa”. Irretiti in processi industriali in cui i protagonisti sanno di poter essere costretti a rinunciare a tutto per le richieste del mercato, ogni rapporto si perverte mutandosi in aberrazione. Nessun impulso è svincolato dalla necessità di guadagno in un mondo in cui l’alternativa al lavoro è la morte e dove si protraggono debiti pur consapevoli di doverli ripagare con amputazioni e suicidi. Negli angoli metallici di una periferia di botteghe industriali i sentimenti crescono solo per riempire profonde ferite che vogliono rimarginarsi a costo di far morire l’intero corpo; qui la vita degli uomini è stretta in angusti spazi dai confini rigidamente imposti dove non sembra esserci la possibilità di trovare altra aria da respirare – come per un pesce costretto in una vasca con troppa poca acqua – e le dinamiche di morte e violenza si applicano agli uomini come agli animali di cui ci si nutre.
Nelle strade grige e piene di rottami si muove un giovane, orfano da trent’anni, che, incaricato di recuperare il denaro da chi ha richiesto prestiti, sfoga la sua incompresa solitudine rendendo storpio chi non può pagare i debiti. Agisce meccanicamente, con la freddezza insensibile delle macchine che ritorce contro i propri operatori mutilandoli o inabilitandoli, accomunandoli così alla propria condizione emotiva. Dopo aver provato e inflitto l’odio per qualunque relazione incontra l’origine, l’alleviatrice e la realizzatrice del proprio dolore e delle proprie paure: la sua presunta madre che tramite enigmi lo porterà, attraverso un crescendo di amore riscoperto e sofferenza mai provata, a un agnizione finale di crudele morte e rinascita.
Le scene si susseguono in maniera piana, lasciando che la vicenda si srotoli da sola attraverso un dramma da teatro greco dove la pietà attraversa davvero tutto l’orizzonte penetrando ogni cosa senza però poter essere vista, un gioco di prospettive presbiti in cui ciò che è più vicino è anche più difficile da inquadrare nei suoi contorni offuscati dal desiderio di guadagno o di vendetta.
“Kyrie Eleison” invoca infine un gioco che vede le parti controbilanciarsi autonomamente in un equilibrio che si impone attraverso la sofferenza e dove ogni debito viene pagato; l’unica, sovrumana e innaturale possibilità di mettere un granello di sabbia nell’ingranaggio è l’impossibile pietà che sorge infine come comprensione di ciò che è stato inflitto e subìto, ma che non può trova una redenzione all’interno di un mondo ormai troppo pervertito.

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Det_sjunde_inseglet_1957IL SETTIMO SIGILLO (I. Bergman – 1957). La storia con cui concludiamo il giro, in un ritorno al bianco e nero che è ritorno alla dualità tra male e bene – vita e morte, è di una potenza difficilmente contenibile. Ogni frammento che la compone è la tessera di un mosaico, un mosaico che non può essere finito per mancanza dei contorni fondamentali ma che si compone e ricompone per ciò che di meraviglioso e terribile si può riuscire a scorgervi all’interno. Ogni immagine, ogni dialogo, ogni nota musicale cercano di unirsi per afferrare ed esprimere qualcosa, la stessa cosa che in modi diversi cercano di stringere i personaggi che la animano.
Un Cavaliere e il suo Scudiero si svegliano sulle inospitali pietre di una spiaggia. Il Cavaliere soffre di nullità, il vuoto dolore di chi percepisce la vanità di tutte le cose e chiede a un dio che non risponde giustificazioni per la misteriosa sofferenza; lo Scudiero abbraccia la nullità, la comprende con la rassegnazione allo spaventoso inevitabile e ne ricava pratica saggezza e acuta ironia. Prega il primo sulla spiaggia, l’altro dorme; alle preghiere risponde un’entità differente: appare la Morte al Cavaliere, per portarselo via. Ma l’uomo non è sceso così a fondo in sé stesso senza carpire un barlume delle proprie possibilità e così sfida la nera figura a una partita a scacchi; la Morte, amante del gioco, accetta e nel tempo e negli intervalli della partita il Cavaliere cercherà le risposte alle proprie domande. Inizia così un viaggio nelle terre devastate dalla peste e dalla paura medievale, ma nessuna delle domande poste resta incatenata a un contesto storico nella ricerca di abbracciare gli estremi temi: amore, dolore, menzogna, verità, vita e morte.
La difficoltà di giocare con queste tessere è manifesta eppure chi lo fa in questa storia non lo fa con pedanteria o retorica ma con semplicità, forza, umorismo e paura. L’Apocalisse apre e chiude la danza e la Morte è la grande protagonista, ed essa non viene mai senza la paura. Ma “bisogna far vedere come stanno le cose perché poi uno decida da sé, e la paura è un buon modo per costringere la gente a pensare”, come rivela allo Scudiero un pittore di scene macabre, tra un sorso di acquavite e l’altro.
Si tratteggiano così gli incontri dei due compari, oscure trasposizioni basso medievali del seicentesco don della Mancha e il suo panciuto scudiero, in un girovagare verso la propria origine e la propria fine, il castello in cui si è nati: la famiglia di artisti girovaghi, incarnazione della semplicità e della grazia che insieme portano a vedere ciò che ai più è invisibile, all’interno di un mondo in cui ciò che non c’è viene proclamato reale per amore della paura; streghe a cui è stato imposto di credere nel diavolo, luminari della fede ridotti a sciacalli, cortei di peccatori che si fustigano per scontare il giudizio divino…ogni incontro scatena dialoghi essenziali che cercano di carpire, attraverso il confronto, un modo di rispondere ai rivolgimenti e alle continuità dell’esistenza.
La peste come morte e morbo divino è dappertutto eppure, in mezzo a tale paura, vuoto, dolore e distruzione ci sono momenti in cui l’uomo sente di scorrere senza sforzo assieme alla propria vita, un istante di pace che può placare anche il pensiero di ciò per cui ci si batte e che comunque non può essere evitato: così la semplice tenerezza si fa devastante, un raggio di luce squarcia le nere tenebre e un “ti amo tanto” fa tremare più delle urla disperate dei flagellanti.

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