Sovranità alimentare: il valore del cibo

 «Viviamo una dimensione schizofrenica in cui proprio il mondo contadino e l’uso della terra, i due elementi fondamentali per fornire nutrimento agli uomini, sono alle prese con un sistema in cui il cibo ha perso i suoi molteplici valori, per diventare una commodity che ha senso solo in funzione del suo prezzo»

(Carlo Petrini, Cibo e libertà, Firenze, Giunti editore, 2013, p. 5)

Quando scegliamo cosa mangiare siamo prigionieri di un sistema di cui conosciamo ben poco, le nostre scelte, in realtà, non sono del tutto nostre e nel libero mercato non siamo effettivamente liberi di scegliere. Quando penso al cibo penso a tutte le ripercussioni della produzione sugli ecosistemi, alle relazioni con la tutela dei diritti dell’uomo, al lavoro e al rispetto della dignità dei lavoratori, al fatto che viviamo in un sistema in cui una piccola parte della popolazione globale spreca e butta via il 40% delle risorse mondiali.

Se cerchiamo di conoscere il processo che porta il cibo dal produttore al nostro piatto non possiamo fare a meno di interrogarci sul lavoro contadino, sui modi in cui vengono sfruttate le risorse, sui processi economici che stabiliscono a monte cosa produrre (e quindi cosa una popolazione troverà nei luoghi di acquisto) e come produrlo, sugli impatti ambientali delle produzioni su larga scala, sull’aumento dell’obesità infantile e sulla malnutrizione che affligge ancora intere nazioni del pianeta.

UN’ILLUSIONE CHIAMATA RIVOLUZIONE

agricolturaNegli anni ’40, uno scienziato statunitense, Norman Borlaug, fu incaricato di dirigere un laboratorio in Messico per la creazione di specie vegetali resistenti a condizioni climatiche avverse attraverso la modificazione genetica. Grazie ai suoi metodi, presto sperimentati nei paesi del Terzo Mondo, molte zone raggiunsero l’autosufficienza alimentare, tanto da far guadagnare a Borlaug il premio Nobel per la pace. Inizia così quella che viene definita la Rivoluzione verde, o Rivoluzione alimentare, che vide – e vede – gli scienziati di mezzo mondo impegnati nella “lotta alla fame nel mondo”.

Grazie ai sorprendenti risultati prodotti dalla genetica, il Messico passò dall’importazione di metà del suo fabbisogno di grano nel 1944, all’esportazione di mezzo milione di tonnellate nel 1963, così che ben presto si cominciò a pensare che l’ingegneria genetica potesse scongiurare le infauste previsioni di Malthus sull’aumento esponenziale della popolazione mondiale in rapporto alle risorse.

Quando si parla di Rivoluzione verde non ci si riferisce solo all’utilizzo di sementi modificate, ma al profondo cambiamento apportato alle tecniche agricole dei paesi del Terzo mondo, i quali, a partire dagli anni ’50, grazie all’iniziativa delle istituzioni internazionali, dei governi dei paesi tecnologicamente più sviluppati e di enti privati, riuscirono ad avere accesso a risorse economiche e finanziarie necessarie alla modernizzazione.

Nel giro di qualche decennio gli aumenti della produttività nelle zone più povere del pianeta furono miracolose, ovunque si cominciarono a lavorare colture ad alta resa, a investire in maniera esponenziale per la tecnologizzazione dell’agricoltura, a spendere fino a 25 volte in più per fertilizzanti e fitofarmaci1. L’ingegneria genetica non fu certo l’unico strumento utilizzato dai paladini di questa Rivoluzione: l’uso di fertilizzanti chimici per accelerare la crescita delle piante e migliorarne la produttività, l’irrigazione massiva, l’introduzione di grandi macchinari meccanizzati, il più della volte alimentati tramite combustibili fossili, che comportano la drastica riduzione del lavoro umano, ma anche l’uso massiccio di prodotti fitosanitari (diserbanti, insetticidi, ecc…) per estirpare le erbe nocive e gli insetti infestanti, al fine di migliorare la resa del raccolto, sono componenti non meno importanti della genetica.

Detta così si potrebbe pensare che il processo a cui diede avvio questa rivoluzione fosse destinato a sconfiggere la fame nel mondo e a rendere più semplice l’accesso alle risorse alimentari in quei paesi in cui le condizioni ambientali rendono difficile il soddisfacimento del bisogno interno. Purtroppo la favola della Rivoluzione Verde finisce qui, proprio nel punto in cui i dati ci mostrano come l’aumento delle produzioni non sia andato di pari passo alla diminuzione della fame, contraddicendo così ogni roseo desiderio di chi aspira – o così vuol farci credere – a sconfiggere la carenza di cibo in alcune parti nel mondo.

L’agricoltura moderna si basa sulla disponibilità di grossi capitali, spendibili su coltivazioni in larga scala per una produzione industriale – spesso destinata all’esportazione – che poco ha a che vedere con le economie di sussistenza dei piccoli e medi coltivatori. L’agricoltura tradizionale sfrutta, invece, una grande quantità di forza lavoro e la resa di un raccolto non è limitata solo alla parte commercializzabile, ma si cerca di sfruttare al massimo tutte le parti della pianta; si ha così una forma di economia agricola finalizzata all’autosufficienza di piccoli gruppi e con una grande varietà di coltivazioni. L’agricoltura della Rivoluzione verde utilizza, invece, risorse economiche a cui i piccoli gruppi non hanno accesso e incrementa poche specie coltivabili – in genere grano, mais, soia, riso – a discapito delle specie autoctone.

La conseguenza più importante, ma non l’unica, di questo processo è stato l’aumento delle esportazioni a opera delle grosse industrie, con la conseguente diminuzione dei prezzi sui mercati internazionali, e la diminuzione delle risorse alimentari e agrarie disponibili per le popolazioni locali. In parole povere: le risorse alimentari disponibili aumentano, ma essendo prodotte da grosse aziende sono destinate all’esportazione e non al soddisfacimento dei bisogni interni. Si potrebbe obbiettare che la grossa produzione agricola contribuisca comunque ad abbassare i prezzi e a immettere più cibo sul mercato. Purtroppo la macchina dell’economia non ha funzionato così, anche se sul mercato ci sono il doppio delle derrate alimentari ciò non implica che i contadini a cui è stata sottratta la terra da coltivare abbiano il denaro sufficiente per acquistare il cibo di cui una volta erano i produttori diretti.

Tutti noi conosciamo l’impatto ambientale che può produrre la meccanizzazione e globalizzazione dell’agricoltura, ma poco ci si sofferma sugli impatti sociali: dall’espropriazione dei terreni per debiti, all’abbandono delle campagne e a una urbanizzazione forzata, con un eccesso di manodopera operaia che ha prodotto ancora più fame e povertà.

La Rivoluzione Verde è l’esempio lampante di come la globalizzazione si sia rivelata un modo per escludere, per selezionare la parte migliore e lasciare fuori il resto, quel resto rappresentato dalle fasce di popolazione che sono lo scarto inutilizzabile dal mercato. L’obbiettivo di un’agricoltura globalizzata è quello di produrre il più possibile utilizzando tutte le risorse necessarie e la regola d’oro delle multinazionali del cibo – come, del resto, di ogni multinazionale – è “compra a poco e vendi caro”, in un mercato il cui unico scopo è la massimizzazione del profitto e non il benessere sociale. Il problema è che questo meccanismo funziona perché supportato, oltre che dalle grosse aziende, anche dai governi, ma non è riuscito comunque a rispettare la promessa dell’aumento delle risorse alimentari a un costo più accessibile, anzi il risultato è stato l’opposto.

È facile capire le motivazioni che spingono le popolazioni indigene, soprattutto in Asia e in Africa, ad opporsi ai cambiamenti agricoli, non tanto per un atavico attaccamento alle tradizioni, ma perché sottrarre le risorse agricole per la produzione del cibo equivale a sottrarre la vita, condannando alla fame e alla malnutrizione circa un ottavo della popolazione mondiale.

contadino indianoAppare ormai chiaro come il cibo sia diventato l’ultimo campo di battaglia nella guerra tra i sempre più poveri e i sempre più ricchi, tra un occidente consumista, opulento e scialacquatore, e un “resto del mondo” sacrificabile in nome del nostro (iper)benessere. In questo scenario i contadini continuano ad essere l’ultima ruota del carro, benché siano proprio loro a custodire e amministrare la base della vita. Ad oggi, secondo i dati Fao, quasi 800 milioni di persone non hanno accesso a sufficienti risorse alimentari, che equivale a quasi 1/9 della popolazione mondiale.

Non sorprende dunque che sempre più comunità contadine si oppongano alla modernizzazione. Quello che occorre spiegare è piuttosto come una tecnologia costosa ed inefficiente come quella dell’agricoltura moderna abbia potuto diffondersi così rapidamente ed estesamente. Come in meno di mezzo secolo la Rivoluzione Verde abbia soppiantato la maggior parte dei sistemi agricoli tradizionali, nonostante essi fossero spesso più efficienti e sostenibili.

Oggi in India più di duemila persone l’anno, quasi tutti contadini ridotti alla fame, vendono i loro reni sul mercato nero a noi occidentali diabetici, obesi, ipertesi. In entrambi i casi è una corsa per la sopravvivenza fatta di scambi estremi: da una parte chi ha bisogno di un pezzo di ricambio per un corpo reso insano dal cibo, dall’altra chi capitalizza il proprio corpo e la propria salute per non morire di stenti, il rene è l’ultima garanzia dei poveri contro la miseria.

Nei Paesi in via di sviluppo la tendenza, in termini di economia agricola, è la stessa che negli Stati Uniti 100 anni fa: la concorrenza senza regole sui mercati (liberalismo) fa diminuire i prezzi, i contadini non riescono più a sopravvivere e si indebitano, finendo per perdere la terra appartenuta per generazioni alla loro famiglia. A questo punto diventano forza lavoro sottopagata da impiegare nelle stesse terre che gli vengono sottratte dalle banche e che finiscono per ampliare i latifondi dei grossi proprietari terrieri, utilizzati spesso in monocoltura. Purtroppo la piccola agricoltura annega nel mare del libero mercato, in India come negli Usa, in Africa come in Italia e il cibo è diventato un’arma politica classista. Nel sud del mondo si producono la maggior parte delle eccedenze alimentari, proprio là dove vivono il maggior numero di persone che fanno difficoltà a soddisfare il loro fabbisogno giornaliero. La fame non è quindi un problema di risorse, ma piuttosto un problema economico e politico, che per la sua risoluzione poco ha a che vedere con un futuro aumento delle produzioni.

SOVRANITA’ ALIMENTARE COME ANTIDOTO

«la sovranità alimentare è il diritto dei popoli ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica, ed anche il diritto di poter decidere il proprio sistema alimentare e produttivo»

(Dichiarazione di Nyéléni, Forum sulla sovranità alimentare del 2007, Mali)

Di fronte alla trasformazione del sistema agro-alimentare globale, i movimenti contadini hanno spesso affrontato la questione del cibo reinterpretandola nei termini di una “sovranità alimentare”.

Anche se era già in uso durante il periodo delle contestazioni alla Rivoluzione verde, il concetto nasce ufficialmente a metà degli anni Novanta ad opera di movimenti dal basso che coinvolgono le realtà contadine coalizzatesi a livello globale nell’organizzazione della Via Campesina. Dietro il termine di “sovranità alimentare” vi è una vera e propria teoria volta a proporre un impegno pratico alternativo alle proposte delle istituzioni politiche che non tengono conto del diritto all’autodeterminazione alimentare delle popolazioni, che è andato perduto con l’avvento di agricoltura e allevamento industrializzati.

sovranita-alimentareSe fino a poco tempo fa i prezzi dei generi alimentari di base erano determinati dalle realtà locali, oggi il cibo è diventato un oggetto di speculazione, il cui prezzo viene fissato in borsa all’interno di un modello economico che lo equipara a una merce qualsiasi, a un bene di scambio come un’auto o un iphone. Secondo i sostenitori di questa teoria, la causa principale sia della “fame”, sia della morbilità per cattiva alimentazione, sta proprio nella perdita dell’accesso alla produzione del cibo da parte delle popolazioni. La sovranità alimentare diventa elemento di liberazione per tutti quei popoli che vogliono rivendicare una cultura alimentare fondata sul rapporto con luoghi che abitano e con ciò che questi hanno da offrire.

Paradossalmente anche le popolazioni dei paesi ricchi hanno perso la loro sovranità alimentare: hanno a che fare con un cibo che di “sano, nutriente e culturalmente appropriato” non ha proprio nulla. Sembriamo aver dimenticato che quello che noi mangiamo si trasforma nel nostro corpo, che c’è un legame biunivoco tra noi e l’ambiente che ci circonda: il veleno che scarichiamo in una zona del mondo non rimarrà sigillato lì per sempre, anzi noi ci nutriamo anche di ciò che sembra lontano decine di migliaia di chilometri.

In Italia, negli ultimi cento anni, abbiamo perso il 50% della biodiversità e anche noi, pur trovandoci in una zona del mondo più votata al protezionismo, modifichiamo il ciclo naturale della nostra terra in base alle esigenze del mercato.

In un modo o nell’altro anche noi facciamo parte della rete del cibo e possiamo accettare passivamente di essere spogliati della possibilità di scegliere senza porci grosse domande, oppure iniziare a considerare il cibo non come una merce, ma come un diritto, come un mezzo di autodeterminazione. Da consumatori possiamo fare una cosa semplicissima, ma grande nei suoi effetti: informarci e influenzare il mercato portando altrove i nostri portafogli.

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1. Per i dati a riguardo: statistiche diffuse dalla FAO, http://faostat.fao.org/site/291/default.aspx

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