Il suono della macchina

Zitto zitto, anche quest’anno si appropinqua il Festival di Sanremo, il baraccone mediatico più caro d’Italia che ogni anno, da più di sessant’anni, ci fa sognare con il suo sempre nuovo spettacolo di varietà e un mosaico musicale mai scontato o ridondante. Se un amico definì l’ultima edizione «la Caporetto della televisione italiana», dove il non più eterno ragazzo Morandi strizzava con le enormi, rugose mani, i seni delle donne più splendenti d’Italia, macabra metafora dell’atmosfera politica mentre Celentano sproloquiava come l’ultimo dei messia per non udenti, quest’anno le cose sembrerebbero essere cambiate.

A condurre sarà il buon Fabio Fazio, volto moderato e moderatore della televisione, collezionatore di cachet da capogiro e uomo di punta Rai da un decennio a questa parte; direttore artistico del Festival assieme a lui sarà Mauro Pagani, amico di De Andrè, compositore e direttore d’orchestra, per un’edizione che promette di portare nuovamente al centro della scena la musica e i suoi contenuti. Prova di ciò dovrebbero essere le scelte degli artisti selezionati: dall’inaspettato ritorno degli Elio e le Storie Tese e Max Gazzè tra i big ai Blastema e Andrea Nardinocchi per la sezione giovani. Alle loro spalle uno stormo di volti noti della televisione statale, programmisti-registi di Che tempo che fa e scrittori dei varietà di Antonellona Clerici, impegnati da qui a febbraio a portarsi dignitosamente a casa lo stipendio proponendo al pubblico un Festival finalmente schietto e popolare.

In realtà non è bene farsi così facilmente prendere per il naso, la televisione con la sua stessa struttura meccanica svela infatti la propria natura doppia e misteriosa, uno schermo animato e colorato che ricopre nascondendoli i fili e gli ingranaggi posti al suo buio interno senza i quali non ci sarebbe quella cristallizzazione dell’immagine e quell’intrattenimento che irrimediabilmente hanno sostituito il focolare nella vita domestica. Forma questa che si sviluppa senza fallo al di là, dove in carne ed ossa si confezionano i programmi da ospitare sullo schermo, procedimenti e operazioni che sfruttano qualunque pretesto per risvegliare sentimenti e interessi posticci e glutinosi al fine di consolidare patrimoni e scalare la piramide sociale, presentando una facciata che snatura senza vergogna i propri contenuti.

Il Festival di Sanremo è forse la summa di questo procedimento. Cosa ci può essere infatti di più universale del Canto nel Paese della Musica?

Come la fede, infatti, anche la musica è necessaria fonte d’aiuto inestirpabile per l’uomo melanconico che sulla strada si sente stanco o perduto, ed esattamente come per la fede c’è stato un momento a partire dal quale essa si è dovuta slegare dalle leggi dell’animo umano per legarsi a quelle del mercato. Il Festival di Sanremo è il serbatoio in cui si coagula questo gorgo della moderna industria musicale italiana attraverso i movimenti scacchistici delle major e i sapienti tocchi dei direttori artistici. Così la sezione giovani brilla dei talenti marcati EMI (Andrea Nardinocchi), SONY (Ilaria Porceddu e Paolo Simoni), Universal (Il Cile), NUVOLE PRODUCTION (Blastema) e RUSTY RECORDS (Antonio Maggio); tutti preferiti, tra i sessanta finalisti, ai concorrenti privi di un etichetta discografica altrettanto importante.

Non c’è timore di sbagliarsi: la parola d’ordine per chiunque abbia a che fare con l’arte è «vendibile» − chiunque non rientri in questa categoria si astenga dal sognare. Se tuttora è vero che l’autentica qualità, quella “geniale” e fresca raramente passa inosservata, non possiamo comunque difenderci dalle migliaia di artisti costruiti sapientemente sul tavolo di un ufficio di marketing o in una riunione per la delineazione del palinsesto; la quasi totalità delle radio e dei canali televisivi musicali, è evidente,  sono sostenuti come parte integrante di una lovecraftiana entità di consumo e produzione della quale gli ascoltatori sono marginalmente consapevoli. Così il gusto musicale è piegato e imbrigliato, schiavizzato dalle decisioni e i commenti di personalità ormai rese avide dalle fantastiche possibilità di guadagno impegnati a creare polle rafferme dove chiunque non abbia la volontà di scegliere possa paciosamente sguazzare ignaro di accrescere una vera e propria industria il cui unico scopo è appiattire la possibilità di scelta per renderla più facilmente pilotabile.

A prova di ciò due esperienze musicali contemporanee completamente agli antipodi l’una dall’altra, emblematiche perché derivanti dal medesimo milieu cittadino e uscite allo scoperto durante l’anno che sta per finire: da una parte il cantautore pop Il Cile, dall’altra la band Sycamore Age.

Il primo è una creatura rimasta in gestazione per un paio d’anni tra le mani di un produttore musicale che da subito ne intuì le potenzialità sia d’immagine che musicali; così, dopo averne limato le asperità impacchettando un prodotto potenzialmente perfetto e percepita la maturità dei tempi, si prepara il contratto con la Universal e si passa a sfruttare tutti i possibili contatti per far dilagare il successo. Esce Cemento Armato manifesto del nuovo giovane in crisi che miagola stonato «in un cestino o in un abbraccio c’è uguale immersione» tra una sbronza molesta e le gastriti che derivano da una storia d’amore finita male. Il format è perfetto: voce resa particolare, urtante e per questo irresistibile; basilari accordi stesi sotto parole che racchiudono i sentimenti comuni a tutti i giovani disillusi di questo inerte decennio, amori finiti, lavoro mancante, strali a casaccio indirizzati a politici che sono «iene ghignanti», alcol e droga occhieggianti senza però offendere nessuno. È un tripudio.

Ben pompati dalle poderose macchine messe in moto dalla Universal i commenti degli esperti fioccano sulle pagine dei maggiori giornali nazionali incensando il nuovo venuto come poeta della contemporaneità, penna raffinata e novello-Battisti. Esce così il primo album Siamo morti a vent’anni, seguono collaborazioni con la crema degli artisti italiani, grandinate di apprezzamenti sul web, apparizioni in televisioni con contratti da cifre a più zeri e infine Sanremo, coronamento di una promozione coatta di scontato squallore, proprio di un epoca che ancora fatica a distinguere tra il comune massificato e lo straordinario crogiolandosi nell’autocompiacimento di sentirsi parte di un esteso sentimento che in realtà è stato preventivamente confezionato come un pollo da supermercato.

Dall’altra parte della città, nel frattempo, un altro esperimento prendeva forma; un veterano della musica sotterranea italiana, mai riuscito a raggiungere con le precedenti formazioni la forma e il grado di successo desiderato incontra un giovane figlio d’arte con uno sbalorditivo talento musicale. Esperienza e freschezza si uniscono creando i Sycamore Age. Registrando in casa sfruttando i suoni particolari che solo fuori da uno studio di registrazione si possono trovare ed affidandosi ad un etichetta indipendente in breve confezionano il primo EP. Con quest’album omonimo, incredibilmente complesso nella sua genuinità, i suoi numerosi componenti riescono a creare un atmosfera così carica di influenze da sembrarne completamente priva. Così il progressive rock si lega ai Radiohead passando attraverso i Grizzly Bear, strumenti etnici fanno da contrappunto a sventagliate elettroniche in una intricata ragnatela fatta di duri suoni industriali e eterei accordi di pianoforte dove la potente voce solista tiene i fili tra tessuti ritmici che irridono il 4/4. Se i testi in se e per se non brillano per contenuti la musica è astonishing, in una varietà di composizioni che passano con imbarazzante naturalezza dal roccioso industrial di My Bifid Siren alla dolcezza commovente di Heavy Branches, dalla hit trascinante Happy al folle carillon fatato di Astonished Birds si inanellano percorsi da sogno stupefacente dal quale non è possibile risvegliarsi scossi (e con l’incognita di trovare di meglio da ascoltare una volta che il silenzio torna sovrano). Incredibili dal vivo la band ha suonato in locali come il Locomotiv Club a Bologna o il Circolo degli Artisti a Roma scontrandosi con tutti i problemi che accompagnano chi cerca di fare musica senza prendere il mainstream in considerazione.

Questi sono due approcci differenti alla musica suonata e fatta produrre; quale dei due sia migliore è difficile dirlo considerando tutti i fattori, l’unica cosa che non mente sono le sensazioni che derivano dall’ascolto, e solo su quelle si fonda il valore di una vibrazione, tutto il resto è menzogna e laido sfruttamento. Sfruttamento dal quale è difficilmente possibile liberarsi, consapevoli dell’impossibilità di tornare a quel momento in cui anche una scimmia poteva fermarsi ad ascoltare il ritmo di un tamburo.

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