Identità del male: la costruzione della violenza perfetta

Qualche tempo fa ho seguito il seminario dedicato a “L’identità del male. La costruzione della violenza perfetta“- evento patrocinato della Regione Emilia Romagna (Assessorato alla Cultura e allo Sport) con il contributo della Fondazione Unipolis, soprattutto su iniziativa del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Alma Mater Studiorum in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata dell’Università di Padova, il Centro interuniversitario per lo studio dei regimi totalitari del XX secolo (CISReTO) dell’Università di Siena, la Sezione di Psicologia sociale dell’Associazione Italiana di Psicologia e la rivista “Psicoterapia e Scienze Umane”.

Per me quest’occasione è stata di particolare interesse soprattutto in ragione dell’intervento del fondatore di tale rivista, il professor Pier Francesco Galli che ha vissuto tutti gli snodi più importanti della storia della medicina diventando l’intellettuale italiano che ha reso possibile il dialogo integrato tra discipline come la psicoterapia, la psichiatria e psicanalisi a livello internazionale.  Ideatore e direttore di due collane di libri, una per l’Einaudi, l’altra per la Feltrinelli, nel 1978 ha assistito all’entrata in vigore di una disposizione fondamentale:, ossia la legge 180, conosciuta comunemente come “Legge Basaglia”, decidendo poi di avviare, per la prima volta nel nostro paese, un centro di aggiornamento di psicologia clinica. Galli è un maestro indiscusso a cui Alberto e Francesco Merini hanno dedicato un documentario approfondito. Ne propongo un estratto relativo all’attività editoriale (altri estratti reperibili qui). Ma questa è un’altra storia e sarebbe impossibile descrivere in poche righe tutte le battaglie intellettuali e sociali che lo hanno visto protagonista in un quadro storico-politico intenso come quello del Novecento.

Il convegno (il programma qui) – la cui relazione è stata pubblicata all’interno del fascicolo del numero 2/2013 della rivista – verteva sul tema molto vasto della responsabilità individuale e collettiva nei confronti della violenza e dei crimini politici. Gli studiosi coinvolti sono esperti in varie discipline filosofiche, giuridiche, sociologiche, psicologiche, antropologiche e storiografiche. Ognuno dal proprio campo di ricerca ha cercato di formulare un’elaborazione attorno al concetto di comportamento aberrante, alla qualifica dei cosiddetti principi morali o codici etici, alla relazione tra vincoli giuridici e intenzione morale, all’intreccio tra le motivazioni consapevoli e moventi pre-razionali. In particolare ho assistito alla II Sessione del convegno: a partire dalle riflessioni storico-filosofiche sulla Shoah, il gruppo di ricerca promotore del convegno ha inteso proporre un’indagine interdisciplinare volta a precisare i contorni di concetti come violenza, consenso e responsabilità, al fine di estendere la riflessione all’origine ed alle ragioni della violenza considerata in una molteplicità di contesti.

È per me interessante riportare per punti principali la relazione di Chiara Volpato –  professore ordinario di Psicologia Sociale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – la quale si è concentrata sul proposito di “Negare l’altro” come una delle forme della deumanizzazione. Le forme di disumanizzazione possono, infatti, essere classificate come esplicite o implicite, entrambe mirano a degradare in ogni modo l’altro, a togliergli dignità. Esempi storici delle forme esplicite sono tutte quelle forme di servitù che hanno scosso l’umanità a più riprese nella storia, specie durante il colonialismo. Da qui ad arrivare ai genocidi e agli stermini del Novecento il passo è breve.  La disumanizzazione si lega ovviamente al problema del male. Sono presenti diversi studi sulla disumanizzazione esplicita operata per consumare genocidi, non è un caso che in essi il male intenzionale preceda l’atto stesso. Altri studi in materia sono dedicati alla disumanizzazione come immaginario costruito e diffuso dai mass media occidentali che hanno contribuito a rappresentare – attraverso una comunicazione intrisa di metafore ed immagini –  concetti degradanti deformati e declinati come demonizzazioni, biologizzazioni o animalizzazioni. L’uso improprio e reiterato di specifiche metafore alimenta e rafforza un consenso diffuso verso certe politiche che puntano ad incrementare gli atti bellici nonostante i limiti normativi e comunitari imposti dal diritto internazionale; tema quantomai attuale se si pensa alla esasperata retorica della paura e della minaccia a supporto della campagna bellica intrapresa per la cosiddetta lotta al terrorismo. I mass media statunitensi – è stato dimostrato – adoperano questa strategia sin dal  periodo del post Guerra Fredda. Il ricorso alla violenza viene giustificato – e quindi assunto come legittimo – come necessario al fine del ripristino dello status quo dopo gli attentati del 2001.

Ma ci sono meccanismi psicologici che ci portano direttamente al male? Nella nostra cultura c’è una caratteristica socializzazione che porta a sostenere che l’uomo non si fa del male gratuitamente, tuttavia nel passaggio allo stato di società viene trasmesso come codice collettivo il sentimento che alcune cose vanno fatte perché inserite in un quadro di consuetudini culturali cristallizzate, come andare in guerra e uccidere quando viene impartito l’ordine da un’autorità riconosciuta. I meccanismi da implementare perché la persona possa fare del bene e interrogarsi su cosa significhi fare del bene e su cosa significhi fare del male possono costituirsi come ristrutturazioni cognitive che inducano il soggetto a pensare alla proprie azioni come necessità consustanziale all’essere umano contro le zone di anonimità della coscienza facilmente sfruttabili dalle ideologie e dai sistemi di potere.

Un altro tipo di meccanismo psico-sociale è la cosiddetta minimizzazione del ruolo dell’agente davanti ad un ordine ricevuto in un sistema gerarchico e di servizio: l’autorità legittima infatti può dare ordini pretesi inappellabili che instaurano, psicologicamente e normativamente, dei processi di deresponsabilità dell’individuo.  Conseguentemente si attiva il processo della minimizzazione delle conseguenze, nonché il tentativo di colpevolizzare le vittime per non affrontare colpe e traumi. Per compiere il male bisogna delegittimare l’altro attraverso tutta una serie di strategie che ritroviamo nella propaganda politica, soprattutto caricaturale, del ‘900. Una delle opere più compiute in questo senso è “Mein Kampf” stilato da A. Hitler, il suo manifesto politico, regalato persino il giorno delle nozze delle coppie tedesche per rafforzare lo spirito nazionalista e xenofobo di governamentalizzazione statale. La strategia di delegittimazione in relazione allo studio della “difesa della razza” è apparsa anche in Italia durante gli ultimi anni del fascismo, incitando la popolazione a sentimenti d’odio, razzismo e antisemitismo.

rivista-la-difesa-della-razzaTanto che durante il fascismo appunto, la rivista “La difesa della razza”, voluta e finanziata dal regime, venne diffusa nelle scuole per l’indottrinamento precoce e omologante della cittadinanza. Propongo qui a fianco una delle copertine della rivista che riassume lo scopo della sua attività editoriale: la distinzione dei popoli considerati inferiori dai popoli ariani.

La deumanizzazione implicita e sottile invece è stata studiata negli ultimi dieci anni. Si distingue da quella esplicita per il fatto di essere un’operazione di sottrazione di libertà e dignità non diretta, piuttosto realizzata attraverso discriminazioni mirate ed al contempo nascoste per poter privilegiare un gruppo sociale ad un altro, gradualmente ma inesorabilmente fino ad escludere dalla realtà quotidiana il gruppo-bersaglio. L’aspetto più importante di questa pratica surrettizia è che la manovra avviene senza che l’attore sociale da escludere ne abbia consapevolezza o ne possa percepire immediatamente e chiaramente l’aggressività e la pericolosità, fino a sentirsi degradare nella passività e nell’impotenza dell’isolamento. La forma implicita più studiata è oggi la cosiddetta infra-umanizzazione. Si contrappongono in essa la capacità di provare sentimenti primari e non umani e la capacità di provare anche emozioni secondarie tipicamente umane e più sociali, un’oscillazione che porta alla dissociazione degli individui che eticamente si sentiranno di fare capo solo al gruppo sociale di appartenenza, coltivando il senso di dover procedere ad eliminare infidamente l’estraneo. Uno dei metodi discorsivi attraverso cui si tenta di realizzare questo tipo di violenza è l’oggettivazione di alcuni individui o generi o gruppi sociali meno protetti socialmente come le donne o gli immigrati. Lo stesso vale per le attività sociali come alcuni processi lavorativi che ne devono sottolineare la fragilità o l’inadeguatezza secondo una nozione meccanicistica dell’esistenza e delle persone valutate in termini di utilità produttive.

Altro intervento significativo è stato quello di Marcella Ravenna – professore ordinario di Psicologia Sociale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara – la quale, in linea con il precedente intervento, ha riportato esemplificativamente un modello storico di costruzione del consenso: la realizzazione dell’Aktion T4 nella Germania nazista, un piano che venne legittimato da medici e scienziati. Alcuni studi storici hanno evidenziato che il consenso dei medici era integrato con l’elaborazione di studi clinici e neurologici che avrebbero dovuto spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dalla disfatta riportata nella Prima Guerra Mondiale, sconfitta che in Germania aveva ingenerato forti sentimenti di frustrazione. Così le azioni sociali messe a punto per realizzare lo sterminio di chi era considerato imperfetto furono legittimate e giustificate dai principi di eugenetica, finalizzati alla purificazione intesa come eliminazione di individui considerati meno adatti alla vita. Ecco, quindi la disposizione della sterilizzazione coatta dei cosiddetti minorati e questo provvedimento riguardò persone cieche o sorde, ma anche malati di mente e alcolisti così come coinvolse i loro parenti poiché sospetti portatori di tare trasmissibili. L’intento era quello di far estinguere i disabili eliminandoli, ma ovviamente l’eliminazione fisica non avrebbe posto fine all’eventualità che nascessero altri individui “difettosi”. Allora, per convincere la popolazione che questi soggetti procuravano reali e seri problemi agli individui ‘sani’, fu messa a punto una macchina della propaganda che poco a poco convinse anche il personale medico e specializzato attraverso l’idealizzazione e la consacrazione ideologico-narcisistica: fu propugnata l’idea che il medico sarebbe diventato il difensore della razza assolvendo a compiti di eugenetica volti al fine superiore dello sviluppo della patria e della sua possibilità di dominazione oltre i confini nazionali. Insomma, i medici divennero la caricatura sacra dei salvatori dell’umanità. La sterilizzazione fu una pratica portata avanti nell’arco temporale che copre gli anni dal  ‘34 al ‘39. L’eutanasia, invece, iniziò ad essere praticata come strategia di profilassi sociale a tappe successive. L’Aktion T4 durò complessivamente dal ‘39 e il ’41, quando Hitler ordinò la sospensione ufficiale del programma, che in realtà continuò clandestinamente fino al ‘45. Si iniziò dai bambini (dal 1938 al 1941) – uccisi per abuso di barbiturici o per denutrizione – i quali venivano considerati meno umani perché meno sviluppati. Per gli adulti (dal 1939 al 1941) si usò il gas. Morirono più di circa 200.000 persone.

Per una delle più grandi pensatrici del Novecento, Hannah Arendt, lo sterminio è il fulcro del dominio totalitario, perché è in quell’ambito estremo ed irreversibile che si materializza la pretesa di un potere assoluto e annichilente sull’umanità imponendo il male radicale senza limiti. Nel saggio “Le figure del maleSimona Forti spiega che il campo di concentramento, ossia l’universo concentrazionario «serve a dimostrare che l’essere umano, annientato prima come persona giuridica, poi come persona morale, e infine come individualità unica e singolare, è riducibile ad un fascio di reazioni animali che cancellano ogni traccia di libertà e spontaneità».

Tornando ad Arendt, ne “Le origini del totalitarismo” si legge: «è come se le tendenze, politiche, sociali ed economiche dell’epoca congiurassero segretamente con gli strumenti escogitati per maneggiare gli uomini come cose superflue». Il fatto è che il mostruoso può celarsi dietro la banalità di una terribile normalità.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.