Tra provocazione, arte e vanità: i cadaveri di plastica di Gunther Von Hagens

Non c’è immagine al mondo che scuota gli animi come la trasformazione degli schemi che siamo soliti conoscere.

Se pensiamo a quanto scandalo provocò la Morte della vergine di Caravaggio, non dovremmo meravigliarci molto se gli artisti contemporanei fanno dello scandalo e della provocazione il principio fondamentale delle loro creazioni. Nella grafica pubblicitaria siamo pieni di immagini o testi provocanti, basti pensare alle campagne curate da Oliviero Toscani, efficaci perché colpiscono immediatamente lo spettatore, creano imbarazzo, rompono i tabù. L’immagine del bacio tra la suora ed il prete, in una pubblicità della Benetton, è un ottimo esempio di come la provocazione non sia universale: in paesi dove non esiste l’ordine del sacerdozio ad esempio, una scena simile non toccherebbe nessuno, questo perché non andremmo a infrangere un tabù della loro cultura.

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La provocazione, come i valori estetici, vanno di pari passo con gli usi e i costumi di un popolo.

Un viaggio nell’arte contemporanea mostra come gli artisti di rottura siano sempre in aumento, mercato li chiama a sé e alza sempre di più il tiro. Ormai l’arte deve essere provocatoria per vendere e ogni provocazione può diventare arte.

Ricordo, qualche anno fa, lo scandalo mosso da un artista costaricano, Guillermo Habacus Vargas, il quale aveva esposto come un’opera d’arte un cane legato a una corda e lasciato a morire di fame. Ovviamente non mancarono le proteste dalle associazioni di animalisti e l’indignazione di molti si espresse anche una petizione on-line per far annullare la mostra. Per mesi la questione fu sulla bocca di molti.

Reazioni simili hanno spesso suscitato le opere di artisti contemporanei come Damien Hirst, Maurizio Cattelan o Marina Abramovic, tanto da mettere in forte risalto il fatto che l’opera non sia solo l’oggetto artistico, ma che insieme ad esso l’opera sia costituita anche da tutto il mormorio che vi gravita intorno.

Se l’arte deve scuotere, risvegliare le menti e i sensi, creare una frattura con la vita reale, allora uno degli artisti contemporanei, le cui opere tendono ad abbattere le barriere tra arte e vita, tra macabro e bello, è senza dubbio Gunther Von Hagens (in foto).

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Anatomopatologo e inventore della plastinazione, ha fatto del suo lavoro un’arte, girando il mondo con le sue mostre. Ad oggi queste, intitolate BodyWorld, hanno raggiunto i 38 milioni di visitatori, e sono state allestite in ben 80 città del mondo, tra cui Roma, Napoli e Milano. Adesso è la volta di Bologna, che dal 6 novembre sta ospitando la mostra nei locali della Sala Maggiore (Ex GAM).

Da mesi, infatti, un enorme cartellone sovrasta piazza piazza del Nettuno, pubblicizzando quella che viene definita come la mostra su “il vero mondo del corpo umano”. Proprio il capoluogo Emiliano aveva in passato manifestato un interesse ad ospitare BodyWorld, vista la tradizione storica bolognese negli studi anatomici e la cui Università ospita uno dei più famosi musei dell’anatomia, Palazzo Poggi.

L’esposizione di Von Hagens si propone, appunto, come un viaggio alla scoperta dell’anatomia umana, una mostra istruttiva per grandi e piccoli. L’accento cade sull’aspetto educativo e didattico, ma anche sull’utilità di poter conoscere meglio il corpo umano.

La tecnica brevettata e utilizzata dal dottor Von Hagens consiste nella sostituzione dei liquidi con polimeri di silicone, il che rende i tessuti rigidi e inodore, lasciando intatti i colori. In pratica, dopo aver preparato il cadavere, si dispone il corpo nelle pose desiderate, fino a che il composto si solidifica, immortalandolo in quella postura.

Dopo aver vissuto i primi anni nella Germania dell’est, Von Hagens ha lavorato per 22 anni come lettore all’Istituto di Anatomia e Patologia dell’Università di Heidelberg, città in cui ha fondato, nel 1993, il suo Istituto di Plastinazione. Nonostante il suo sistema di conservazione dei corpi sia stato brevettato nel 1977, per i primi 20 anni è stato applicato solo a piccoli campioni di reperti organici, risale, infatti, al 1990 la prima plastinazione di un intero corpo.

La prima mostra con corpi interi è stata organizzata in Giappone nel 1995, paese in cui il dottor Von Hagens ha creato un secondo centro di ricerca dove lavarono numerose persone per la produzione dei campioni plastinati.

Il lavoro del medico tedesco è tutt’altro che semplice: la lavorazione di un corpo richiede, infatti, circa 1500 ore di lavoro, ampi spazi e costosi macchinari, ma in alcuni casi sono stati necessari anche 3 anni, come per la plastinazione del corpo di una giraffa. Molte università nel mondo, circa una quarantina, hanno riconosciuto l’importanza del suo metodo a fini di studio, in quanto evita agli studenti di medicina di sezionare cadaveri umani e rende i reperti fruibili nel tempo.

Al di la del valore scientifico, l’anatomopatologo tedesco, ha impiegato i suoi studi anche per democraticizzare -a suo dire- l’anatomia, cioè renderla accessibile anche al grande pubblico e istruirlo sul funzionamento del corpo umano.

Sicuramente il suo approccio modifica l’impatto della gente con la vista di un corpo morto -perchè è di questo che si tratta- , eliminando le sensazioni negative e di rifiuto che un tale incontro può provocare. Un vasto pubblico sembra, anzi, attratto da questa esposizione di cadaveri plastificati, senza pelle, ritratti in posizioni prese da opere famose o semplicemente in atteggiamenti che ritraggono la quotidianità. Ma c’è solo questo? È solo la curiosità di osservare come siamo fatti che attrae così tanta gente?

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Secondo me, il fattore pulp esiste, inutile negarlo.

Entrare in una sala con decine di corpi scorticati sortisce un effetto di turbamento e sgomento che non è certo uguale a quello che si prova davanti la Gioconda. Forse perché in gioco vi è anche il confronto con quello che sta diventando il nuovo tabù delle società contemporanee: la morte. Se, da una parte, viviamo in un contesto in cui i fatti di cronaca diventano pretesto per esporre ogni particolare più macabro e inquietante, per metterci davanti l’immagine di una morte sempre presente, ma inopportuna; dall’altra evitiamo di rapportarci ad essa con naturalità, pensandola per ciò che è, ovvero un evento biologico, parte inevitabile del ciclo vitale.

Oggi l’uomo contemporaneo aspira sempre più ad esistere oltre il tempo, a infrangere questo limite. Ne sono testimonianza tutti i tentativi dell’estetica e della medicina di allontanare la vecchiaia e di ritenere il corpo come un involucro da esibire.

Oltre la nudità e la pornografia, oltre la chirurgia plastica, si situa dunque la volontà di poter conservare il proprio corpo, come una bambola di plastica nuda persino della pelle, ed essere esposto allo sguardo curioso di migliaia di persone. Il fenomeno di cui stiamo parlando non ha precedenti, ad oggi sono 13.000 le donazioni registrate. Lo spettatore viene coinvolto direttamente: alla fine della mostra vengono consegnati i moduli per chi volesse donare il proprio corpo alla fondazione di Gunther Von Hagens. In pratica: donati e diventerai anche tu un’opera come quelle che hai appena visto!

Tutto questo non riguarda solo la medicina, né l’arte, ma ha a che fare con tutta una cultura della visibilità in cui siamo immersi, che si rivela con l’oggettificazione e la mercificazione del corpo, e azzarderei quasi con una sorta di vanità che si manifesta nell’autocompiacimento di far diventare il proprio corpo un’opera d’arte per l’eternità.

 

461(3)Ma credo che ci sia anche di più.

Dalla parte del semplice spettatore, fermarsi davanti a un corpo senza vita e osservarlo è un po’ come familiarizzare con la morte, guardarla e conoscerla senza essere un voyeur. Essa si spoglia così della sacralità, ma, al contempo, si fa vicina e spezza l’alone di disagio oltre la quale la società contemporanea l’ha relegata; la plastinazione spoglia il cadavere di ogni orrore putrefattivo, rendendo un senso di rassicurazione.

L’opera di Von Hagens, in fondo, sospende il confine tra il vivente e l’oggetto, mette la vita difronte alla possibilità di diventare immagine, scuote gli schemi a cui siamo abituati.

E, al di la di tutti gli interrogativi etici, questo è ciò che ogni arte è chiamata a fare.

 

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