Linguaggio è/e azione

La lingua è fonte di ricchezza per l’uomo, la parola è lo strumento che gli permette di essere elevato ad un piano superiore nella sfera degli esseri viventi, il parlare lo nobilita. L’apprendimento del linguaggio è risultato essere fondamentale perché permette all’uomo uno sviluppo socio-culturale e l’instaurazione di relazioni con i suoi simili. Vygotskij e Lurija, due psicologi russi, hanno intrapreso uno studio sullo sviluppo del linguaggio nell’infante, la cui etimologia significa colui che non sa parlare, paragonando il comportamento di quest’ultimo a quello animale. A questo proposito, Bühler, psicologo tedesco, ha affermato che il modo di agire di uno scimpanzé è simile a quello di un bambino che non ha ancora imparato a parlare. L’intelligenza pratica del bambino, cioè la capacità di usare degli strumenti durante i primi mesi di vita non si discosta da quella dell’animale ed è indipendente dal linguaggio. Ma è attraverso gli strumenti, la scrittura, la lettura, il calcolo e ovviamente l’uso della parola, che la mente umana progredisce. Il bambino non solo si relaziona con il mondo, ma accresce altre funzioni come l’intelligenza pratica, l’attenzione, la memoria e la percezione. Se prima dell’apprendimento della lingua, le azioni dell’uomo sono sottomesse a questa, dopo la sua assimilazione è la lingua stessa che guida l’azione. Scrive Vygotskij «Il linguaggio solleva ad uno stadio superiore l’azione che prima era indipendente da esso. […] Se all’inizio dello sviluppo vi è l’atto, indipendente dalla parola, alla fine vi è la parola che diviene atto. Vi è la parola che rende libera l’azione dell’uomo.» (Vygotskij, 1997, p. 112)

Se la parola diventa atto, l’atto linguistico può essere considerato azione? Innanzitutto, il concetto di atto e quello di azione non è lo stesso: l’atto è il gesto dell’attività stessa, l’azione, invece, ne costituisce il risultato. Questa differenza è riscontrabi454.jpgle nelle teorie di Austin e Searle, filosofi del linguaggio. Per Austin l’atto linguistico è un’azione, per Searle, invece, che si ispira alla teoria di Chomsky, l’atto linguistico appartiene all’attività linguistica. Searle, nel suo saggio Atti linguistici, non tratta del rapporto fra la teoria del linguaggio e dell’azione, a differenza di Austin che spiega la relazione fra il dire e il fare nel suo saggio How to do things with words, raccolta delle lezioni tenute ad Harvard.

Austin fonda la sua teoria sul fatto che parlando si fa qualcosa. Nella I lezione del suo saggio dice che vi sono asserzioni che possono non essere descrittive e che non possono essere verificabili. Esistono, infatti, frasi che possono esprimere un’emozione o un comportamento: le cosiddette proposizioni etiche, chiamate anche pseudoasserzioni. Austin chiama constativi le asserzioni che descrivono i fatti, mentre chiama performativi (dal verbo inglese perform che significa eseguire) gli enunciati che compiono un’azione: ad esempio, se si dice “mi scuso”, oltre alla frase enunciata, ci si sta realmente scusando. Per i performativi, Austin elabora la teoria della felicità: affinché l’enunciato sia felice la procedura dev’essere stabilita, le persone e le circostanze adeguate. Se la procedura non esiste o non può essere applicata sarà chiamata invocazione indebita. Come secondo punto della teoria, la procedura deve essere eseguita in modo corretto e completo. Se non viene eseguita in modo corretto, si parlerà di difetto. Se non viene eseguita in modo completo, si parlerà di lacuna: si tenta di eseguire la procedura, ma l’atto è vano. Se queste condizioni non sono appagate, si parla di colpi a vuoto. La terza condizione della teoria è basata sulla felicità poiché quest’ultima dipende dall’intenzione e dal comportamento futuro. Se l’intenzione non sarà rispettata, si parlerà di insincerità. Gli abusi della terza condizione possono scaturire da intenzioni, sentimenti e pensieri insinceri. La teoria della felicità si applica a casi ordinari, Austin non prende in considerazione, ad esempio, la recitazione a teatro dove gli attori declamano frasi contenenti promesse o sentimenti fittizi.

Se la felicità di un atto performativo dipende anche dal comportamento futuro, allora non dovrà presupporre anche un’asserzione vera? Vi è un rapporto fra constativo e performativo? Austin risponde di sì. Se l’enunciato performativo è felice, l’asserzione è vera. Ma è possibile riconoscere un performativo da un constativo? Ci si basa spesso sull’aspetto grammaticale che non funziona, però, come criterio assoluto. La prima persona del presente indicativo è il modo verbale più noto di enunciato performativo. È possibile rimarcare la differenza in modo più deciso in lingua inglese che possiede in grammatica due tipi di presente: semplice e progressivo. La differenza consiste nell’uso del presente semplice nelle formule performative che non descrivono un’azione, ma il suo compimento. Se viene usata la seconda o la terza persona e il verbo passivo, l’atto può essere considerato performativo così come quando si usano delle formule solenni come “con ciò”. Tuttavia il criterio grammaticale non è attendibile poiché la prima persona singolare del presente può essere usata per descrivere o come presente storico. Vi sono anche casi in cui la parola è seguita dall’azione come quando si proferisce «io cito» seguito dalla citazione. Inoltre, anche gli enunciati constativi possono indicare un’azione se vi si appone una formula performativa esplicita come “io affermo che la terra ruota intorno al sole” e a loro volta gli enunciati performativi oltre a fare qualcosa, la dicono.
Non riuscendo a trovare un criterio che divida i performativi dai constativi, Austin ritorna all’idea di base e si chiede «Quando proferiamo un qualunque enunciato, non stiamo “facendo qualcosa”?» (Austin, 1987, p. 69).

Così, Austin si allontana dalla distinzione di performativo e constativo e divide l’atto linguistico in tre livelli: atto locutorio, illocutorio e perlocutorio. L’atto locutorio (dal latino loqui: parlare) è diviso in tre sottocategorie: atto fonetico (pronuncia del fonema), atto fatico (pronuncia del fema, unità di linguaggio), atto retico (pronuncia del rema, unità di discorso). Austin sottolinea che se si pronuncia un atto fatico, se ne esegue anche uno fonetico. Essendo il fema un’unità del linguaggio e il rema un’unità del discorso, Austin spiega che è possibile pronunciare un atto fatico senza che sia retico, ma non il contrario. Inoltre, si possono pronunciare fema uguali che hanno rema diversi (casi di omofonia e polisemia).

L’atto illocutorio indica ciò che si fa nel parlare (dal latino inloqui) e quindi lo si può ricollegare anche all’uso di verbi performativi. Austin crea cinque tipi di atto illocutorio:
verdettivi: esprimono un giudizio;
esercitivi: indicano una decisione;
commissivi: impegnano il parlante a fare qualcosa;
comportativi: indicano il comportamento;
espositivi: definiscono ciò che si dice.

L’illocuzione, per essere considerata completa, deve possedere la forza illocutoria che è stabilita da vari indicatori linguistici e paralinguistici: il modo verbale, il tono di voce, gli avverbi e i sintagmi avverbiali, le congiunzioni, gesti o azioni compiuti durante l’atto illocutorio, la situazione in cui è pronunciato l’enunciato. Quest’ultimo indicatore di forza è il contesto, già citato da Frege ne I fondamenti dell’aritmetica. Secondo Frege, le parole hanno un significato soltanto se viene considerato il contesto di un’enunciazione. Austin, si ricollega a Frege, perché quando si parla, si agisce su uno sfondo. La forza illocutoria può essere diretta o indiretta: è diretta se vengono usati degli indicatori di forza nell’enunciato, è indiretta quando la forza illocutoria viene suggerita, ad esempio se si pronuncia in una sala “È freddo” e la finestra è aperta, ciò potrebbe indurre qualcuno a chiuderla. È interessante notare la divisione che M. Sbisà dà dell’atto illocutorio: istituzionale e non istituzionale. L’atto illocutorio istituzionale è dato da regole convenzionali precise – ad esempio, l’atto matrimoniale è valido se celebrato dal prete se religioso o dal Sindaco o da un suo delegato se civile – l’illocuzione non istituzionale dipende da come sono usati gli indicatori di forza illocutoria.
Il terzo livello dell’atto linguistico è contraddistinto dall’atto perlocutorio (dal latino perloqui) che indica ciò che si fa con il parlare ovvero precisa gli effetti che si ripercuotono sull’interlocutore. Il parlante, attraverso ciò che dice, si prefigge un obiettivo che può essere soddisfatto o meno. Infatti gli effetti dell’atto illocutorio possono essere definiti voluti e non voluti in quanto l’interlocutore potrà dare importanza ad una frase detta piuttosto che a un’altra, fulcro dell’obiettivo del parlante.

I tre atti linguistici sono legati fra loro. Per prima cosa bisogna sottolineare che l’atto illocutorio non è una conseguenza della locuzione, ma avviene con essa. Per quanto riguarda il rapporto tra atto illocutorio e atto perlocutorio è necessario fare delle distinzioni. L’atto illocutorio, per raggiungere la piena realizzazione, consta di tre effetti: la recezione affinché il messaggio venga recepito: ad esempio quando si dice «Buonasera», il parlante non richiede per forza una risposta al suo saluto, ma per far sì che venga compreso da qualcuno la recezione è fondamentale; la convenzionalità; – Austin, nel suo saggio, cita l’esempio di una barca che viene battezzata con il nome di Queen Elizabeth, per far sì che l’illocuzione sia felice si dovrà chiamare quella barca con il suo vero nome (Austin, 1989, p. 87) – come ultimo effetto si ha la sollecitazione di risposta che sfocia successivamente nell’atto perlocutorio. L’atto illocutorio e l’atto perlocutorio hanno la seguente differenza: il primo è convenzionale, il secondo è consequenziale. L’illocuzione, infatti, è ritenuta felice se gli effetti illocutori risultano soddisfatti, cioè se le regole convenzionali sono eseguite in modo corretto e completo e in adeguate circostanze. Il risultato della perlocuzione, invece, non dipende dalle regole convenzionali, ma essa è contrassegnata da effetti fisici o psicologici. L’atto illocutorio può essere reso esplicito dall’uso del performativo – ad esempio “ti ordino di” – a differenza della perlocuzione. Parlando di performativo esplicito, ci si può ricollegare ai performativi espliciti e primitivi di cui Austin parla nella sua VI lezione. A differenza del performativo esplicito, quello primario può essere ambiguo e dare origine all’equivocità degli atti illocutori. C’è differenza nel dire «Io ci sarò» (performativo primario) e «Prometto che ci sarò» (performativo esplicito). Nel performativo primario la forza illocutoria non è esplicitata. Tuttavia, si nota un’ambiguità anche nel performativo esplicito: il verbo promettere alla prima persona attiva del presente può essere sia un performativo esplicito che un’asserzione se considerato un presente abituale. A proposito dell’asserzione, si ritorna sulla contrapposizione fra performativo e constativo. L’asserzione è un atto illocutorio? Può essere sottoposta al criterio della felicità? Tornando all’esempio precedente (Prometto che io ci sarò), il parlante presuppone la sua presenza ad un appuntamento futuro: se tale asserzione non sarà realizzata, verrà considerata insincera e quindi appartenente alla sfera dell’infelicità. Austin denota l’asserzione come caso paradigmatico poiché i verdettivi e gli espositivi sono asserzioni, anche se non eseguono un atto fisico a parte quello dato dagli organi vocali. Ciò che bisogna puntualizzare è che l’enunciato e l’asserzione non sono equivalenti poiché l’enunciato è contraddistinto dal predicato è vero, l’asserzione, invece, inserisce il suo indicatore in un campo semantico differente. Austin suggerisce di non rifarsi a esempi della teoria, ma di “considerare la situazione linguistica nella sua totalità”. (Austin, 1989, p.101)

Austin ha arricchito la filosofia del linguaggio e influenzato i suoi successori che hanno preso spunti dalle sue idee di base, talvolta discostandosi per sviluppare altre teorie o concentrarsi su altre relazioni. Tuttavia, ciò che viene riconosciuto ad Austin è l’aver dimostrato, attraverso la sua teoria, la dicotomia esistente fra linguaggio e azione.

 

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