Erranze tra Gadda, Fenoglio e Céline (parte II)

Ecco la seconda parte del saggio sui tre romanzi La cognizione del dolore, Il partigiano Johnny e Voyage au bout de la nuit. In questa seconda sezione proseguo l’analisi di questi libri, studiando in particolare il rapporto dei tre protagonisti con le loro famiglie, il grande tema della guerra e gli scenari che accompagnano le narrazioni delle loro vicende. Come nella prima parte, richiamo l’immagine di Gregor Samsa, che a mio parere simboleggia perfettamente la condizione di Gonzalo, Johnny e Bardamu.

IL MAGNETISMO DELLA CARNE. Attrazione e repulsione tra genitori e figli
I genitori, la casa e in particolare la madre costituiscono, in tutti e tre i romanzi, un polo che attira tensioni contrapposte, in un costante e frustrante bisogno di allontanamento e di avvicinamento. La madre è sia alveo protettivo che animalesca stupidità. Le stesse madri che hanno custodito i propri figli nel grembo li hanno poi piantati su questa terra destinandoli alla sofferenza. Il non senso della vita va di pari passo con il non senso della generazione. Madri e figli spesso non si parlano o non si capiscono, l’incomprensione e l’impossibilità della comunicazione regnano. Gregor Samsa inorridisce sentendo la propria voce distorta e mescolata a uno strano pigolio nel tentativo di rispondere ai famigliari che gli parlano da dietro la porta.
Bardamu è sbigottito dall’idiota cattiveria della madre che lo manda a farsi sventrare come offrendo un giusto tributo alla patria. Il rapporto è caricaturale, stilizzato, distaccato, non ha niente a che vedere con la complessità del rapporto tra madre e figlio che troviamo in Gadda. Il protagonista di Voyage au bout de la nuit si sente superiore alla madre, la prende in giro, ma allo stesso tempo prova un risentimento profondo, incredulo di essere stato gettato così nel mondo famelico.
Sia in Gadda che in Fenoglio è presente un costante terrore e presentimento del femminile, che si concretizza nella madre nel primo caso e nella città da difendere nel secondo. In Gadda ci sono dei segni anticipatori dello scempio del corpo materno che avverrà alla fine del libro.
«Ciò che più la soleva sgomentare fu sempre il malanimo impreveduto di chi non avesse cagione alcuna da odiarla, o da offenderla […]. Allora ogni soccorrevole esperienza e memoria, valore e lavoro, e soccorso della città e della gente, si scancellava a un tratto dalla desolazione dell’istinto mortificato, l’intimo vigore della consapevolezza si smarriva: come di bimba urtata dalla folla, travolta.»
Più volte Gonzalo vede la madre come una bimba o una giovane ragazza, quasi una vergine su cui incombe il pericolo costante della violazione, “ignara come smarrita bimba”.
«Il figlio, nel suo dolore, vide una sposa degli anni del Presidente Uguirre, quando c’era ancora il tram a cavalli, e il marito, con il brillìo de’ presenti, indurla ad arrossire di gioia, a sorridere. Viva delle sue speranze, ella si rivolgeva agli anni della vita, interrogava con il fiore tremante della persona il caldo alito del futuro. Ma le vecchie, nelle buie contrade dell’inverno, gli si strappano i brillanti dai lobi.»
Nonostante Johnny non sia più un adolescente, la sua partenza ha tutte le caratteristiche di un viaggio di iniziazione, in cui la separazione dalla famiglia è condizione necessaria. I genitori non vorrebbero lasciarlo arruolare, Johnny deve contrapporre la fermezza del suo ideale al loro biologico istinto di protezione. Nell’animo di Johnny alberga una pietas che assomiglia molto a quella di Enea per il vecchio Anchise, il partigiano però abbandona la sua casa, non prende il padre stanco sulle spalle.
«[…] colpì Johnny la stanchezza, la non-joy del suo cammino. Lo seguì per tutto il tratto scoperto, il cuore liquefacenteglisi per l’amore e la pietà del vecchio… […] Ogni suo passo parlava di angoscia e di abnegazione […]»
Tuttavia, il materno per il partigiano più ancora che dalla famiglia è rappresentato dalla cittadina d’origine, il caldo grembo lasciato per la ruvida corteccia gelata delle colline. Anche qui vige l’ansia della violazione, egli pensa alla città come un soldato in guerra alla moglie vittima di stupri e una nostalgia cocente lo tormenta. “La nostalgia della città lo travagliava ferocemente.”
L’abnegazione che Johnny distingue nel portamento del padre è fortissima nella madre di Gonzalo, figura, scura, tremante, appiattita in un angolo della cucina in cerca di qualcosa da preparare per la cena. Il rapporto tra Gonzalo è la madre è di una complessità estrema. La madre è una donna istruita, ha insegnato al figlio i nomi delle stelle, nonostante le apparenze non è così lontana da Gonzalo. Essa arriva pian piano a capire il male del figlio, soffre per lui, impotente e sconvolta. Viene rappresentata come anziana, sofferente, povera nel vestire, priva di qualsiasi tipo di comodità; l’unica soddisfazione materiale è stata per lei la costruzione della villa. Il colore della madre è il nero. La madre è in lutto per il marito ma soprattutto per il figlio morto in guerra e per tutti gli altri figli di altre madri morti in guerra. Nera come un cipresso, sola. In sogno, Gonzalo vede la madre ” […] nera, muta, altissima […] altissima, immobile, velata, nera […]”. É nera come la notte assassina che la inghiottirà, nera come il male di Gonzalo che è provocato dall’esistenza, essendo lei stessa causa di quell’esistenza. Il figlio è nero anch’esso, carne della sua carne, nel vano della porta. La madre arriva a vedere qualsiasi madre come un’effige di lutto, fa sedere la madre del peone alla sua tavola in rispetto di quel lutto, come se tutte patissero la sua stessa pena. Gonzalo coltiva un rancore feroce per le restrizioni patite da bambino e detesta le manifestazioni di generosità della madre verso il primo contadino che quadrupeda e zoccola nei pressi della villa. Questa ira non è spiegabile solo con l’avarizia e il rancore, Gonzalo è ferocemente geloso della madre, la vuole tutta per sé, come la villa, tutti gli altri se ne devono andare via! Gonzalo scaccia il bambino che si presenta alla villa per le ripetizioni di francese come un bambino difenderebbe la propria mamma dai coetanei che gliela contendono. Per lo stesso motivo, Gonzalo non tollera le irruzioni nella villa, la villa è sua, la madre è sua, proseguendo questa sineddoche che fa della villa un prolungamento della madre che la abita. La madre ha molto in comune con Gonzalo, innanzitutto la solitudine, in parte inflittale dallo stesso figlio che è via per lavoro: “Vagava, sola, nella casa.” Poi, la disperazione, il dolore, la sofferenza, la disperazione nel non trovare un senso nella vita. Le rare manifestazioni di affetto del figlio (sembra che un eccessivo avvicinamento potrebbe spezzare il cuore di Gonzalo) sono interrotte dallo zoccolare del peone, dall’intrusione di gente pulciosa.

L’INDIVIDUO E LE SUE TRIPPE TRA IRONIA E TRAGICITÁ. Testimonianze e incubi di guerra
La guerra, costante e vorace matrona, non ha senso. Questo non senso produce morte, mutilazioni, esilio, lontananza, malattie, povertà, fame: il dolore in tutte le sue più zoppe e cenciose declinazioni. La guerra è padrona assoluta delle trame dei romanzi, quindi delle vite dei protagonisti, delle relazioni e dei destini. La guerra strappa il figlio e il fratello alle loro famiglie sia ne La cognizione del dolore che ne Il partigiano Johnny e in Voyage au bout de la nuit (sebbene la madre di Bardamu sia favorevole a tributare il proprio figlio al massacro, purché egli non prenda freddo). La guerra lacera i legami e crea antri e baratri di solitudine; la madre di Gonzalo resta nella casa come un fantasma, tutto quello che le rimane è la speranza dell’ombra del figlio nel vano della porta. La guerra prende le fameliche sembianze di Kronos che divora i suoi figli, se gli uomini vogliono sopravvivere meglio che si nascondano sotto terra facendosi simili a vermi. La guerra più è assurda più è vorace: Gadda la rappresenta come un’infantile contesa tra Parapagàl e Maradagàl, similmente idioti e assassini, similmente perdenti. L’umorismo pervade la maggior parte delle sequenze che si riferiscono alla guerra (“Ognuno dei due paesi sostiene di aver vinto la guerra e ne addossa all’altro la terribile responsabilità.”) Oltre a questo c’è però anche una profonda tragicità espressa per lo più con la reticenza (“Non raccontava nulla, mai: non ne parlava ad alcuno[…]”). L’ineffabilità è usata retoricamente per alludere a ciò che è troppo grande o tremendo per essere detto. Il silenzio di Gonzalo fa da contraltare ai racconti di guerra, dove Gadda denuncia ironicamente la pomposa stupidità di chi si vanta di aver combattuto.
«Nel racconto, […] furono introdotte locuzioni veramente soldatesche, e direi maschie, prive affatto d’ogni retorica, come «carnaio», «lasciarci la pelle», «stavano per fregarci», e altrettali: esse diedero ai Lukonesi e ai Serruchonesi, già mezzo convinti dall’afa del novilunio in ritardo, un’idea di quel che sia serietà, semplicità, e del valore vero: il quale, quand’è autentico, e non tirato in ballo con gli argani, è anche circonfuso di modestia e schiva le frasi.»
La guerra in Gadda trascina dietro di sé una penosa schiera di invalidi, di poveri e di mutilati a carico dello Stato e quindi dei cittadini.
«Negli anni seguenti al 1924 vi erano perciò, tanto nel Maradagàl quanto nel Parapagàl, dei reduci di guerra, alcuni dei quali appartenevano e appartengono tutt’ora alla benemerente categoria dei mutilati: e zoppicavano, o avevano sul volto cicatrici, o un arto irrigidito, o erano privi di un piede, o di un occhio.»
Anche in Céline è evidente la natura ridicola, orrendamente bambinesca, della guerra. “On faisait queue pour aller crever”. I comandanti dell’esercito sono grotteschi e spietati, mandano i soldati al macello senza alcuna esitazione: “C’est à partir de ces mois-là qu’on a commencé à fusiller des troupiers pour leur remonter le moral […]”. Riferendosi al capitano Ortolan, Bardamu commenta: “Il collaborait avec la mort. On aurait pu jurer qu’elle avait un contrat avec le capitaine Ortolan.” I soldati sono per lo più sperduti e stremati, del tutto esterni alle ragioni dei combattimenti, trascinati da un posto all’altro da generali che non hanno la minima considerazione per le loro vite; “[…] les Aztèques et leur mépris du corps d’autrui, c’est le même que devait avoir pour mes humbles tripes notre général Céladon des Entrayes […]”. Gli Stati, feroci e lontani, sono macchine che, inceppate nella loro cupidigia, carburano uomini e defecano miseria. La distanza umoristica di Céline dà vita a un orrendo teatrino, in cui i generali e i capitani dell’esercito sono mostruosi burattini di legno, la loro sanguinaria pazzia non ha nulla di umano.
“Heureusement, rien n’est incroyable en matière d’héroïsme. Le public devina le sens de l’offrande artistique et la salle entière tournée alors vers nous, hurlante de joie, transportée, trépignante, réclamait les héros.”
Se ripensiamo alla rappresentazione gaddiana degli improbabili racconti di guerra, il richiamo a Céline risulta evidente. Il senso di fatalità della guerra è fortissimo in Céline, dove però, a differenza del romanzo di Fenoglio, non c’è nessun piacere ma solo una sconfinata disperazione. L’umorismo di Voyage au bout de la nuit raggiunge picchi di lucidità che ci fanno ridere aprendoci la bocca con il coltello. Tutto in Céline è sempre sospeso in questa sorta di atmosfera burattinesca, ma la portata del discorso è evidentemente immensa e immensamente tragica. Per dissipare ogni dubbio in proposito, dietro l’angolo ci aspetta sempre l’immagine che sgomenta (come quella della bambina sadicamente picchiata dai genitori) e che, arrestando d’un colpo la dolorosa tensione, ci fa, senza più speranza, crollare in ginocchio.
In Fenoglio la guerra è tutto, come un manto che ricopre ogni manifestazione dell’esistenza. Ne Il partigiano Johnny si parte dal presupposto di una battaglia utile e necessaria; Johnny ripudia la comodità della sua vita borghese e si lancia nel lento tumulto piovoso delle colline. Il non arruolarsi è vigliaccheria, l’essere fascisti tronfia mostruosità, inaccettabile rovina dell’Italia. C’è in Fenoglio una convinzione, un’adesione reale e sincera alla guerra. La guerra ne Il partigiano Johnny non è cieco appannaggio degli stati e dei loro traffici, ma guerra degli uomini, delle anime; i partigiani combattono per la libertà. Essi sono per Fenoglio esempio massimo di valore e bellezza. Numerose sono le descrizioni degli uomini investiti dell’aura dell’uniforme. Così viene descritto Nord, il capo delle basse Langhe:
«L’uomo era così bello quale mai misura di bellezza aveva gratificato la virilità, ed era così maschio come mai la bellezza aveva tollerato d’esser così maschia. […] L’aurea proporzione del suo fisico si manifestava fin sotto la splendida uniforme, nella perfezione strutturale rivestita di giusta carne e muscolo.»
Johnny segue i valori dell’onestà e del coraggio e di conseguenza non scende a compromessi. Lo statuto del partigiano è uguale a quello della sua stessa definizione, parola che indica tutto o niente, senza sfumature: “Non dico un buon partigiano, perché partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità.” Ancora una volta c’è coincidenza tra la parola e la realtà da essa indicata e nominata, nella logica fenogliana di una lingua creatrice. Il partigiano raggiunge dignità pari a una figura dell’epos. Il valore supremo per cui si è pronti a offrire la vita è la libertà. Il dinamico furore di Achille viene fuori però solo nei radi scontri a viso aperto. L’eroismo dei partigiani consiste per lo più nella resistenza, politica e fisica. Il partigiano è un eroe che si adatta a sopportare per lunghe notti il freddo, la pioggia e il cibo scarso, è un animale delle colline, sopportare l’inerzia fa parte della battaglia.
«Fare il partigiano era tutto qui: sedere, per lo più su terra o pietra, fumare (ad averne), poi vedere un[o] o [più] fascisti, alzarsi senza spazzolarsi il dietro, e muovere a uccidere o essere uccisi, a infliggere o ricevere una tomba mezzostimata, mezzoamata.»
L’operazione letteraria di Fenoglio consiste nell’eroicizzare i partigiani, nel dare loro una dignità epica ma in un contesto in cui le fulgenti imprese degli eroi del mito si alternano a una durissima inedia. Nel momento dello scontro Johnny è animato da un furore degno di un personaggio omerico, altrimenti la sua immagine rimane ombrosa, reticente e selvaggia. Si viene quindi a creare una nuova concezione di combattente, un nuovo gusto epico in cui il valoroso è colui che sopporta l’asperità del clima e del terreno, agile e razionale uomo di fango che imbraccia lo sten sotto la pioggia.
Arruolato nei partigiani, Johnny sublima la propria natura solitaria, sembra essere nato figlio delle colline. La battaglia diventa il momento della massima espressione della vita e della morte insieme e da essa Johnny trae il piacere più grande. Nella guerra più che in qualsiasi altro momento si manifestano la forza e il coraggio di Johnny, in essa risiede l’unico senso della sua vita randagia e sospesa. Non ci sono nel romanzo spiegazioni politiche e storiche, se non a grandi linee, e in questo il romanzo di Fenoglio si avvicina a quelli di Gadda e Céline. L’inizio e la fine del conflitto sono momenti mal definiti, quasi indeterminati, è come se la guerra fosse condizione costante e destinata all’eternità. Tutto il mondo di Johnny si disegna nella perennità dello scontro, nella sua ridondante e plumbea durata.
La situazione, come in Kafka, è solo da accettare, non si può capire molto, si deve sopravvivere nei limiti di ciò che, a un tratto, esiste.

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IL DESERTO, IL BUIO, LA PIOGGIA: TOPOGRAFIA DELL’ESILIO
L’entità del viaggio di Johnny non è da misurare tanto sul piano geografico quanto su quello interiore. Pur trovandosi a pochi chilometri da casa, il protagonista non potrà più tornare indietro. Lasciandosi alle spalle la porta di casa, Johnny inizia un lungo percorso nei più ventosi meandri dell’io che lo porterà verso una nuova identità. Fuori dalla casa borghese che l’ha cresciuto, il protagonista si trova in un ambiente stravolto, dove la natura regna sull’uomo. Lo scenario in cui si combatte la logorante guerra dei partigiani è ostile, brullo, freddo, piovoso. In più, una larghissima parte del romanzo è dedicata alla descrizione dell’inverno, mentre i capitoli sull’estate scivolano via velocemente. In certi punti del libro, l’insistenza sulla durezza delle condizioni atmosferiche è esasperata. Il ventitreesimo capitolo presenta venticinque occorrenze della parola “pioggia”, venti occorrenze della parola “fiume” e quindici di “fango”. Si viene quindi a creare un campo semantico che ruota attorno all’acqua, nutrito anche da altre parole come “corrente”, “flutti”, “diluvio”, “acque”, “alluvione” e “inondazione”. “La pioggia cadeva con una strapotente continuità, concreta come una materia con cui si possa fabbricarsi.” La natura assume caratteri spaventosi, diventa una minaccia per gli uomini:
«[…] una volta tanto la natura stava prendendosi la rivincita sugli uomini per il primato nell’incussione della paura; per ognuno era infinitamente meglio avanzare solo contro un’armata di SS piuttosto di aver a che fare con uno solo di quei flutti fangosi.»
I partigiani devono lottare contro l’uomo e la natura allo stesso tempo, le colline diventano un’invasa trincea da difendere contro una sterminata schiera di nemici. La difficoltà della battaglia e della sopravvivenza aggiunge pathos alla narrazione, serve retoricamente a aumentare l’aura di valore attorno ai partigiani. Il campo semantico dell’acqua si estende fino al ventiquattresimo capitolo, in cui proseguono i combattimenti sotto il diluvio; qui si osservano ventiquattro occorrenze della parola “pioggia”, dieci di “fiume” e trentaquattro di “fango”. Se nel ventitreesimo capitolo sembra che la natura abbia deciso di abbattersi sugli uomini fino a sterminarli, nel ventiquattresimo si attribuisce direttamente a Dio la decisione di flagellarli: “E questa terribile pioggia che cade come un castigo del Signore […]”. É un vero e proprio Diluvio universale voluto da Dio quello che si abbatte sul campo di battaglia di partigiani e fascisti, come a voler fermare l’empietà degli uomini, rivendicando a Dio e alla natura soli il diritto di uccidere.
La città, ne Il partigiano Johnny è lo spazio opposto alle colline perché esposto, accessibile, violabile dai fascisti. Sulle impervie colline i partigiani si nascondono e strisciano come insetti, la natura selvaggia li ostacola ma allo stesso tempo li protegge e li nasconde. L’asperità del territorio fa da barriera, impedisce alla dittatura di attecchire. Le colline sono il baluardo della natura selvaggia che i fascisti non riescono a intaccare. Solo chi conosce lo scosceso fianco di ogni dirupo, l’intricato disegno dei boschi e la remota accoglienza delle fattorie isolate può sopravvivere. Le colline sono quindi il territorio ideale per la ribellione, per l’opposizione al regime costituito. I partigiani diventano uccelli, insetti, lupi, vivono in simbiosi con il terreno, l’erba e le pietre. L’ambientazione ha tutte le caratteristiche di un “paesaggio-stato d’animo”, al carattere truce e schivo di Johnny corrispondono i dirupi, i boschi, l’erba alta, il cielo stravolto e carico di tempesta, il fango, il fiume gonfio e iracondo. Quale definizione sarebbe del resto più calzante per Johnny di “Solo et pensoso”?
In Fenoglio, sia le colline che la città sono femmine. Le colline hanno la femminilità di una madre lupa, che alleva i suoi piccoli sulle pietre, nel freddo buio dei boschi. La città invece è una sposa vergine, indifesa, invitante ed esposta agli stupri. In opposizione alla durezza delle colline, la città viene descritta più volte come fatta di carne, morbida e delicata allo stesso tempo.
«Agli occhi di Johnny aveva una sostanza non petrea, ma carnea, estremamente viva e guizzante come una grossissima bestia incantonata che avanza le sue impari ma ferme zampe contro una giallastra alluvione di pericolo e morte.»
Essa viene definita “disputata”, è sempre quindi lampante la sua natura di oggetto conteso, da conquistare e difendere. “Johnny abbassò gli occhi sulla città sottostante, segnata: stava, cinta dalle acque, in nuda, tremante carne.” I partigiani arroccati sulle colline sono come vigili sposi nascosti tra le canne. La violazione della città da parte dei fascisti provoca in Johnny un impotente dolore: “Ciò che stranamente lo conturbava era l’aspetto violato della città, felicemente e consensualmente, nuzialmente violata, ma violata.”
L’idea della casa come oggetto in perenne rischio di violazione, come ho già accennato, è presente anche in Gadda. Ne La cognizione del dolore la villa è dichiarata più volte il risultato della testardaggine della madre, l’oggetto dei suoi desideri e delle sue cure.
“La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della «sua» villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).”
Scialacquato tutto il patrimonio per la villa e le campane, la casa è di fatto tutto ciò che resta alla madre e a Gonzalo, oltre al fatto che in essa sono racchiusi i ricordi di quando ancora erano vivi il padre e il fratello. Come un arroccato baluardo dei ricordi di infanzia la villa resta esposta a ogni tipo di incursione.
« “…. Il muro è gobbo, lo vedo, e anche le anime dei morti lo scavalcherebbero…. dei poveri morti! per tornare a dormire nel loro letto…. che è lì, bianco…. come lo hanno lasciato al partire…. e par che li aspetti…. dopo tanta guerra!…. È storto, tutte gobbe: lo so: ma il suo segno, il suo significato rimane, e agli onesti gli deve valere, alla gente: deve valere. Per forza. Dacché attesta il possesso: il sacrosanto privato privatissimo mio, mio!…. mio proprio e particolare possesso…. che è possesso delle mie unghie, dieci unghie, delle mie giuste e vere dieci unghie!…” »
Il muro che la circonda, per buonismo e ingenuità del padre, non è alto abbastanza per difenderla dai ladri e presenta dei difetti di costruzione che ne rendono agevole lo scavalcamento. Oltre a questo, la madre di Gonzalo introduce in casa chiunque, con impeti di carità che esasperano il figlio. Ogni cencioso contadino che si trovi a passare davanti alla villa può accedervi e sostarvi nella speranza di un qualche conforto verbale o materiale sempre pronto. In Gonzalo, come ho già osservato, si crea una sorta di sovrapposizione tra la figura della madre e quella della villa e si ha l’impressione che dietro al terrore della violazione della casa Gonzalo viva, ancora più profondamente, quello della violazione della madre. Questa violazione si manifesta all’inizio come invasione della villa da parte di estranei e culmina, alla fine del romanzo, con l’uccisione e lo sfregio della madre. All’invasione estrema della villa, di notte e con la casa sprangata, corrisponde lo scempio e l’assassinio della madre. Il presagio e il terrore della profanazione serpeggiano per tutto il romanzo, ricorrendo più volte, e raggiungono l’apice nel finale. Il tema della violazione della casa e della figura materna che vi abita sembra un’ossessione per Gadda. In Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, al furto nella casa si accompagna l’uccisione di Liliana, simbolo materno.
«La signora Liliana, non potendo scodellare del proprio… Così ogni anno: il cambio della nipote doveva certo valere nel suo inconscio come un simbolo, in sostituzione del mancato scodellamento.»
Il cadavere di Liliana viene ritrovato in una posizione umiliante, con le cosce scoperte, la gonna buttata indietro, la madre di Gonzalo orrendamente sconciata, col viso tumefatto.
In Céline i luoghi sono sempre ostili. L’intero romanzo è il resoconto di una lunga peregrinazione da un continente all’altro, di un vero e proprio esilio esistenziale. Ferdinand è sballottato nella perenne ricerca di una migliore prospettiva di vita che si rivela di fatto irraggiungibile. Ovunque Bardamu è assalito da un angosciante senso di inadeguatezza, di sconforto e di abbandono. L’Europa, l’Africa e l’America sono ugualmente sommerse da una nebbia soffocante di ipocrisia, individualismo e crudeltà. New York e i suoi abitanti (fatta eccezione per Molly) non differiscono troppo da Parigi. Il voyage di Bardamu è opposto a quello di Johnny: nonostante le grandi distanze percorse si rimane sempre impantanati nello stesso punto. La costante presenza di Stevenson assimila i luoghi più disparati. É come se in qualsiasi posto il volto dell’altro fosse sempre lo stesso, quello di Stevenson, che in quanto alter ego del protagonista riflette di fatto sempre Bardamu e la sua sconfinata solitudine. La solitudine, in definitiva, regna ovunque; non c’è una società migliore di un’altra. Le città sono il regno dell’anonimato e dell’indifferenza. Parigi è descritta attraverso le sue folle inumane e le sue puzze atroci. “Les gens riches à Paris demeurent ensemble […] Tout le reste n’est que peine et fumier.” La sporcizia dei luoghi frequentati dalle moltitudini ritorna possente anche in Gadda, dove la gente porta sempre sporcizia, dai “ciaccolosi caffè del Maradagàl” alla villa invasa. Anche in Voyage au bout de la nuit le condizioni atmosferiche e climatiche assumono proporzioni smisurate, più vicine a proiezioni della soggettività che a descrizioni realistiche: “Et puis l’hiver a traîné, s’est étalé pendant des mois et des semaines encore. On n’en sortait plus de la brume et de la pluie, au fond de tout.”. Anche il caldo, come il freddo, è esagerato, totale.
«Irrésistiblement, certain matin au réveil, nous fûmes comme dominés par une ambiance d’étuve infiniment tiède, inquiétante. L’eau dans les verres, la mer, l’air, les draps, notre sueur, tout, tiède, chaud. Désormais impossible la nuit, le jour, d’avoir plus rien de frais sous la main, sous le derrière, dans la gorge, sauf la glace du bar avec le whisky.»
Per non parlare della perenne notte, refrain di tutto il romanzo, che può essere interpretata come metafora della cecità di Bardamu o della sconsolata insensatezza e mancanza di speranza della vita. Bardamu cerca disperatamente un appiglio, un lumicino, un antro caldo dove fermarsi a riposare ma è costantemente ricacciato nella notte, inghiottito da essa. Tutto è buio, infinitamente buio, sempre e ovunque. La guerra e la notte potenze regie tutto inghiottenti.

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IL TERMINE DELLA NOTTE
La cognizione del dolore si arresta bruscamente dopo l’assassinio della madre, Il partigiano Johnny è inconcluso, Voyage au bout de la nuit è una peregrinazione disperata che non porta da nessuna parte. C’è quindi un fine, un termine, un motivo, una soluzione? A volte quando si parla di un romanzo si cerca di riassumere, di raccapezzarsi: “E quindi? Di cosa parla questo libro? Cosa vuole dirci l’autore?” Alcuni sgranano gli occhi, altri scartabellano tra monumentali volumi di critica, altri sbuffano o fanno capire che la cosa non li interessa più di tanto. Non credo che la letteratura sia tenuta a dire altro che la letteratura, il problema è capire cosa essa sia. “Cosa studi?” mi chiedono sull’autobus, alle cene, davanti al bancomat momentaneamente fuori servizio. “Lettere.” rispondo. “Ah!” Alzano le sopracciglia, rovistando nel catalogo delle frasi fatte per trovarne una che non lasci trapelare più di tanto la delusione e il disappunto. “Bello!” aggiungono qualche volta. Altrimenti solo: “Ah sì?” e la conversazione si esaurisce. Altri invece, più sinceri o più arroganti, tirano fuori quella domanda che è sulla bocca di tutti: “E perché? Cioè, voglio dire… Cosa vuoi fare dopo?”. Una di queste volte forse troverò il coraggio, risponderò:
“Vagava, sola, nella casa…

BIBLIOGRAFIA

FONTI PRIMARIE
Céline, Louis-Ferdinand, Voyage au bout de la nuit, Paris, Gallimard, 1962.
Gadda, Carlo Emilio, La cognizione del dolore, Milano, Garzanti, 2011.
Id., Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2002.
Fenoglio, Beppe, Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi, 2005.
Kafka, Franz La metamorfosi e altri racconti, Torino, Einaudi, 1976.

FONTI SECONDARIE
Bertoni, Federico, Il testo a quattro mani. Per una teoria della letteratura, Scandicci: La nuova Italia, 1996.
Id., La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà, Torino, Einaudi, 2001.
Steiner, George, Vere presenze, Milano, Garzanti, 1999.

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