Petrolio da sabbie bituminose – Il lato oscuro dell’oro nero

Attualmente tutto ciò che si trova sul nostro pianeta è creato, alimentato e distrutto dallo stesso elemento: il petrolio. La plastica è petrolio, l’asfalto dei manti stradali è petrolio, i concimi chimici e i fertilizzanti sono prodotti di sintesi del petrolio, la paraffina liquida ampiamente usata nell’industria cosmetica è un olio ottenuto dalla distillazione del petrolio. Naturalmente l’elenco potrebbe continuare: c’è addirittura chi si spinge oltre affermando che ciò che mangiamo è essenzialmente petrolio.
È innegabile infatti che l’odierna catena di produzione, distribuzione e consumo alimentare è dipendente dall’oro nero. Macchine agricole sempre più “meccanizzate”, trasporti a migliaia di km di distanza ed eccessivi imballaggi fanno sì che l’intero processo che porta il cibo sulle nostre tavole sia regolato dalla disponibilità di questo liquido organico dall’utilizzo tanto necessario quanto abusato.

Il petrolio altro non è che un’emulsione di idrocarburi con acqua ed altre impurità e in natura ne esistono più di cento tipi differenti per composizione e rendimento. A partire dagli anni ’50 il mondo alle prese con un crescente livello di industrializzazione è diventato sempre più dipendente da quella che, forse in maniera poco realistica, veniva considerata una risorsa illimitata.
Negli ultimi anni infatti, complice una maggior consapevolezza dettata da migliori conoscenze scientifiche, la tendenza è la ricerca di giacimenti di idrocarburi “non convenzionali” proprio per far fronte ad un ipotetico esaurimento delle riserve di petrolio. Tra questi l’opzione principale è rappresentata dalle sabbie bituminose, chiamate così poiché costituite da una miscela di sabbia, argilla e acqua satura di bitume, cioè petrolio allo stato solido o semi-solido. Queste riserve costituiscono circa i due terzi di quelle mondiali e ciò che colpisce è il fatto che si trovino concentrate in gran quantità in due vaste aree terrestri: l’Alberta, provincia del Canada occidentale, e il Venezuela, dove troviamo il più grande accumulo di idrocarburi al mondo. È da qui che, grazie alle nuove tecnologie, per i prossimi decenni verrà ricavato il petrolio necessario a soddisfare la domanda mondiale, ma ad un prezzo molto alto per la salute umana e per l’ambiente. Se si analizzano le modalità di estrazione di queste sabbie appare immediatamente chiaro quanto appena detto. Le tecniche estrattive sono essenzialmente due: se si tratta di un giacimento a cielo aperto, cioè a meno di 75 metri di profondità, si utilizza il metodo a miniera che consiste nello sradicamento degli alberi presenti sull’area interessata e nel drenaggio del suolo per recuperare le sabbie bituminose, a loro volta caricate sui camion e trasportate in un impianto di estrazione. Qui, mescolato ad acqua e soda caustica, il bitume viene separato dalla sabbia. Se al contrario il giacimento è sotterraneo, il bitume viene estratto pompando vapore attraverso condutture sotterranee: una volta rilasciato il vapore, il bitume presente nelle sabbie circostanti viene liquefatto e reso utilizzabile. Ciò che emerge già ad una prima, rapida lettura è la necessità di utilizzare acqua: l’uso che se ne fa è però smisurato se pensiamo che, stando ai dati forniti da Greenpeace Canada, ogni anno al fiume Athabasca (Alberta) vengono sottratti 370 milioni di metri cubi di acqua, pari al doppio della domanda dell’intera Calgary, città di circa 1.300.000 abitanti.http://www.greenreport.it/news/inquinamenti/sabbie-bituminose-in-canada-record-di-inquinamento-come-a-pechino-e-citta-del-messico/
Tuttavia l’abuso di acqua non è il solo aspetto negativo. Le ragioni che classificano questo di tipo di petrolio come “altamente inquinante” sono molte: in particolar modo si annoverano la maggiore energia impiegata per l’estrazione e la lavorazione, il disboscamento che ne consegue e l’impiego di numerosi solventi. Inoltre nell’area prossima al giacimento vengono liberati gas ad effetto serra (la quantità di anidride carbonica ammonta a più del 20% rispetto a quella prodotta dall’estrazione del petrolio tradizionale) e metalli pesanti come piombo, nichel e mercurio che contaminano acque, aria e suolo.

Le problematiche relative all’estrazione petrolifera, specialmente legate a quella non convenzionale, costituiscono una tematica delicata, la cui analisi non può essere condotta in maniera approssimativa: il petrolio estratto dalle sabbie bituminose, definito dal quotidiano online Greenreport come la «tempesta perfetta per flora, fauna e uomini», rappresenta una fonte di danni e controversie, questa volta inesauribile. L’oro nero si trova da sempre al centro del dibattito politico e della sfera economico-sociale causando spesso conflittualità più o meno accese tra i vari Stati o scatenando reazioni da parte di un popolo sempre più informato circa i costi reali da pagare per lo sfruttamento dell’energia fossile. Un prezzo quantificabile non solo da un punto di vista meramente economico; altrettanti, e forse ben più negativi, sono gli effetti a livello ambientale ed umano: peggiori proprio perché senza conseguenze visibili ed immediate. Di modo che, una volta scoperte, sarà certamente troppo tardi. È questa la sensazione che si ha osservando le vaste terre canadesi, distrutte per far spazio all’uomo e alla sua avidità. Lo studio Environmental and Human Health Implications of the Athabasca Oil Sands, risultato di una stretta collaborazione tra i capi delle comunità pellerossa (Athabasca Chipewyan First Nation, Mikisew Cree First Nation) e le università del Manitoba e del Saskatchewan ha rivelato la presenza di un drammatico scenario. L’esito poco rassicurante testimonia la presenza eccessiva di metalli quali arsenico, mercurio, cadmio e selenio nei campioni di reni e fegato di alci, anatre e castori e di certo si fa difficoltà a credere che l’inequivocabile declino della salute delle comunità indigene sia accidentale. L’aumento di disturbi come ansia e stress è allarmante, così come il fatto che circa il 23% dei membri di questi gruppi è colpito da vari tipi di cancro. Le comunità indigene sono non a caso le più vulnerabili proprio per il loro tradizionale modo di vivere, così strettamente legato all’ambiente circostante: l’inquinamento minaccia la caccia, la pesca e la raccolta, secolari pratiche di sostentamento. La vita quotidiana è stravolta da una selvaggia industrializzazione che si preoccupa esclusivamente del profitto. È vero, la prosperità economica generata dallo sviluppo di questa industria non è messa in discussione, ma la domanda che sorge spontanea è: qual è il prezzo da pagare per questa ricchezza? O anche, di chi è realmente questa ricchezza? Come spesso accade, dopo aver sfruttato i più deboli, essa si concentra nelle mani dei pochi potenti che si limitano ad illustrare i dati positivi e a celare tutto il resto. Il problema come si può notare esiste ed assume dimensioni sempre maggiori: l’errore da non commettere in questi casi è sottovalutarlo, evitando così di reagire. A tal proposito, nonostante i 7000 km che ci separano dalle terre canadesi, la questione ci riguarda da vicino più di quanto sembri. È infatti dello scorso dicembre la decisione, da parte di Bruxelles, di cancellare la terza direttiva europea in materia ambientale circa la qualità dei carburanti. Niente più obbligo di etichettare il petrolio da sabbie bituminose come altamente inquinante: anche in seguito alle pressioni del governo e dell’industria canadesi, le porte del vecchio continente si spalancano di fronte a quello che viene considerato uno dei carburanti a più alto impatto ambientale con una conseguente minor tutela per i cittadini, il più delle volte ignari di ciò che accade sopra le loro teste. L’Italia in particolar modo è il terreno favorito: attraverso l’Atlantico e il Mediterraneo, la petroliera Minerva Gloria ha raggiunto le raffinerie di Sarroch, in provincia di Cagliari, la cui principale attività economica è rappresentata dall’industria petrolchimica. Qui, in una terra già altamente provata, Canada ed Europa hanno deciso di installare il porto del primo vero e proprio carico di petrolio canadese, scrive il sito Comune-info: petrolio poco controllato, sporco e di bassa qualità. Di rimando dal continente americano fanno sapere che il carico di 700 mila barili di greggio giunto in Sardegna non è sabbia (tar sands), ma comune petrolio, annuncio confermato dalla compagnia italiana Saras responsabile della raffineria. La verità, spesso nel mezzo, resta difficile da scoprire; ma che si tratti o no di bitume, il problema tangibile è un altro: l’aria satura di anidride carbonica, le piccole ma ripetute fuoriuscite di petrolio, gli incidenti sul lavoro e i tassi di tumore alle stelle. Grazie però ad un crescente livello di informazione è sempre più difficile http://www.rinnovabili.it/ambiente/sabbie-bituminose-proteste-333/nascondere quelli che possono essere considerati veri e proprio crimini (anche se giustificati dalla legge). Sempre meno salvaguardata, la popolazione civile assistita dalle associazioni ambientaliste, fa sentire la propria voce: le manifestazioni di protesta sono migliaia in tutto il mondo, la costruzione dell’oleodotto Keystone XL in Canada e Stati Uniti è ferma da mesi per la mobilitazione degli attivisti e solo nel 2014 le grandi compagnie petrolifere hanno subìto perdite per un totale di 17 miliardi di dollari. In una realtà in cui l’opposizione pubblica diventa sempre più potente, l’ulteriore passo da compiere sarebbe trasformare questa efficiente opposizione in una forza capace di creare qualcosa di nuovo in linea con le odierne necessità. Dal basso il desiderio c’è, ora resta da capire quali siano le intenzioni di chi detiene il potere…di decidere.

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