Qualcosa, là fuori – Il romanzo di Bruno Arpaia che ci racconta la (futura) catastrofe climatica

Ho terminato da poco Qualcosa, là fuori di Bruno Arpaia (Guanda, 2018) e ammetto che l’effetto collaterale dell’insonnia non l’avevo proprio calcolato. Eppure, quello di Arpaia, è proprio uno di quei romanzi che ti tengono sveglio con gli occhi sbarrati perché sai bene che quello che c’è scritto non è fantascienza, ma una possibile realtà neanche tanto lontana.
Siamo nel 2100, i cambiamenti climatici di cui tanto si parlava e si discuteva agli inizi degli anni duemila, si sono rivelati in tutta la loro forza devastatrice e la fuga da territori inabitabili è rimasta l’unica opzione per chi ne ha l’opportunità. O la fuga, o la morte. Ormai le traversate di centinaia di migliaia di persone nel Mediterraneo, che tanto avevano tenuto banco nei tg e nei discorsi da bar dei primi anni duemila, sono un lontano ricordo. I migranti di fine secolo sono quegli stessi italiani che anni prima avevano respinto coloro che chiedevano aiuto. La situazione si è capovolta. Le temperature globali hanno raggiunto i sei gradi di aumento e i livelli delle acque si sono alzati di dodici metri sommergendo gran parte delle terre emerse e rendendo i territori inospitali. L’acqua potabile scarseggia, i conflitti per quel poco che rimane sono all’ordine del giorno, le città deserte e ridotte a cumuli di macerie. I Paesi nordici, grazie alle temperature più miti, sono divenuti la nuova terra promessa per milioni di persone. Sono questi gli scenari di quella guerra climatica che gli scienziati avevano previsto a inizio secolo, sottostimandone l’intensità e la violenza che avrebbe portato con sé. Il punto di non ritorno di cui tanto si era discusso nei rapporti pubblicati dall’IPCC è arrivato senza far troppo rumore.
Anche Livio, un passato da ambientalista convinto e uno da professore di neuroscienze, non ha avuto altra scelta se non quella di recuperare i quattro soldi rimasti e le poche forze che ancora lo tengono in piedi e partire, condividendo la marcia tra stenti e dolorose privazioni con un gruppo di disperati che sarebbero diventati la sua nuova famiglia. Livio, infatti, di famiglia ne aveva già avuta una con Leila, conosciuta a Napoli anni prima. Donna forte, determinata e brillante, Leila aveva dedicato i suoi anni di gioventù alla fisica e allo studio delle dimensioni extra giungendo all’ottenimento di una cattedra a Stanford, California, proprio insieme a Livio. Un nuovo inizio sebbene Leila sapesse già cosa voleva dire dover ricominciare da capo. L’aveva già fatto una volta, a quattro anni, dopo che con i suoi genitori e suo fratello aveva trovato rifugio a Napoli dalla Siria.
«Erano arrivati su un barcone, quando ancora la Marina italiana cercava di raccogliere quei disperati. Leila aveva quattro anni e il fratello Ahmed sei. Avevano vissuto per un anno e mezzo in uno squallido campo di accoglienza»
La voglia di lasciarsi tutto alle spalle era grande così come l’incoscienza di due giovani innamorati che non desideravano altro che costruire la loro vita insieme. E così avevano fatto, tra una lezione e l’altra, fino all’arrivo di Matías, il loro primo figlio. È a quel punto che tutto quello che fino a quel momento sembrava in equilibrio, aveva cominciato a precipitare.
«Il periodo più felice della loro vita era passato, ma Livio e Leila, naturalmente, non se ne accorsero subito. Nessuno di accorge mai dei punti di svolta della propria esistenza, nessuno li avvista in tempo e ci si prepara, ammesso che sia possibile prepararsi, ammesso che la vita non sia sempre una battaglia persa»
Gli Stati Uniti, divenuti una teocrazia, avevano cominciato a vietare voli aerei e l’accesso a internet, iniziando a mettere in atto gravi restrizioni ai cittadini americani di origine centro e sudamericana, araba o asiatica, o di religione non cristiana, fino a vietare i matrimoni misti. Anche a Napoli il caos regnava sovrano. Gli ospedali erano al collasso, il caldo era insopportabile e la fame si faceva sentire, gli scontri etnico-religiosi avevano preso il sopravvento. Il fratello di Leila, Ahmed, era uno dei tanti che aveva deciso di andarsene, su, verso nord, in Svezia, Finlandia o Islanda. Tutto sarebbe stato meglio che rimanere in quell’inferno. Ma negli USA, Leila era stata denunciata come cittadina di origini siriane e attivista islamica e il passaporto italiano non contava più nulla. Non rimaneva che catapultarsi in quello stesso inferno da cui migliaia di italiani stavano scappando. Livio e Leila, però, non potevano immaginare che quella decisione avrebbe sconvolto le loro vite per sempre.
«Alla fine di novembre del 2056, Livio, Leila e Matias salirono su un treno diretto a New York. In tasca, avevano già i biglietti della nave che, dopo diciotto anni, li avrebbe riportati in Italia»
Trent’anni dopo Livio, stanco, provato e soprattutto solo, si trova in un limbo: come affrontare la voglia di vivere che non c’è più quando il coraggio di farla finita non è abbastanza? L’unica cosa che rimane da fare è avanzare, proseguire su una strada che non assicura nessun approdo. Camminare, per Livio e gli altri, significa avere la prova di essere ancora vivi.
«Quel loro viaggio era un’impresa quasi disperata, eppure l’unica possibilità era continuare a marciare verso nord»
Il percorso attraverso l’Europa, però, è un continuo susseguirsi di orrori: lande desolate ricoperte da polveri giallastre e impregnate da odori nauseabondi, fiumi scomparsi e terre sterili, paesi abbandonati sono tutti pezzi di quel triste puzzle apocalittico di cui anche Livio, Marta, Miguel, Sara e centinaia di migliaia di altri migranti fanno parte. Nessuno sa dove quella strada li avrebbe portati, ma tutto è meglio di ciò che resta alle loro spalle. Il futuro è minaccioso, certo, ma il passato terrorizza, pietrifica. Ancora una volta, il cammino è l’unico appiglio a cui aggrapparsi.
«L’agitazione attorno al mutamento climatico recupera l’esercizio – disprezzato, rifiutato – di pensare al futuro: anche se, in questo caso, il futuro è pura minaccia. Rimette sul tavolo la variabile fondamentale del tempo: l’idea di finitezza».
Il romanzo di Bruno Arpaia è un libro che ciascuno di noi dovrebbe tenere a portata di mano. Raccontare il cambiamento climatico è ormai divenuta una parte fondamentale di quella presa di coscienza collettiva fondamentale all’inversione di rotta di cui abbiamo bisogno (La Grande Cecità – Neri Pozza, 2017 – di Amitav Ghosh è un altro interessante esempio). E anche se gli scenari dipinti da Arpaia possono risultare estremi, lontani, frutto di una qualche eccessiva fantasia, la verità è che tutto quello che c’è in questo romanzo potrebbe concretizzarsi entro la fine di questo secolo. Per la prima volta ci troviamo a confrontarci in maniera cruda e brutale, senza filtri, con quello che potrebbe essere il nostro futuro. Per la prima volta, almeno in Italia, un romanzo ci dipinge come coloro che saranno costretti a migrare per sopravvivere, a chiedere aiuto e a dover pagare per essere accolti, a doversi accontentare di lavori miseri e mal pagati pur di avere una seconda chance. Vi ricorda qualcosa? Secondo me sì, anche se per ora – per noi – si tratta ancora di un lontano e indistinto qualcosa, là fuori.
«La minaccia del cambiamento climatico si inscrive nello spirito dell’epoca e lo perfeziona: ci troviamo in uno di quei momenti noiosi della storia in cui nessuno ha una buona idea su cosa aspettarsi dal futuro, e allora ci dedichiamo a temerlo. Il presente è sempre scontentezza garantita; mi piacerebbe allora sapere perché certi presenti producono futuri di speranza e altri futuri di terrore. Qualcuno potrebbe leggere la storia del mondo a partire da questa dicotomia: le epoche che aspettano il loro futuro, quelle che lo guardano con paura»
Photocredit: www.ilfattoquotidiano.it, www.cmcc.it, lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it

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