Generalità di uno sbaglio

di Raffaele Riba

 

Su un’emittente locale intervistano un sensitivo che dice che una nevicata del genere è già accaduta 5.604 anni fa e che accadrà di nuovo tra altri 20.946 anni. Non racconta queste cose cercando di suscitare stupore o mistero. Sembra piuttosto capitato lì per insistenza altrui, forse nella speranza molto goffa di fare un po’ di clamore con l’assurdo. È seduto con malagrazia su uno sgabello perché non riesce a toccare il pavimento con entrambi i piedi: è troppo basso; per non parlare del fatto che di certo non è un tipo asciutto. Somiglia vagamente allo zio calabrese di un mio compagno delle scuole medie, da cui facevamo i suoi compleanni. Non ci andavo volentieri perché Antonello, così si chiamava il compagno, copiava i miei compiti senza chiedere il permesso; lo zio però era molto simpatico.

Mi sembra di non avere motivo di non credere al sosia dello zio di Antonello: in fondo la sua teoria è semplice. Il caos ha dentro tutte le possibilità, anche la più ordinata e armonica, anche la monotonia della totale uguaglianza di tutte le sue variabili. Solo che sono occorrenze residuali. E irregolari. E poi ne hanno parlato fin troppo di questa nevicata. Per quasi un mese, qui, ci sono stati meteorologi, fisici, statistici, matematici, giornalisti, appassionati di casi televisivi, religiosi, teste di cazzo che vogliono calpestarne il manto. Vogliono rovinare le geometrie che alla luce obliqua del sole emergono in chiaro scuro.

Se dalle altre presenze sono infastidito, come lo ero dopo le violazioni scolastiche di Antonello – in fondo vengono tutti a guardare in questo piccolo pezzo di vallata che è il posto dove abito, il mio – le presenze di quelli che vogliono pestarla mi riempiono di rabbia. Se sulla terra degli altri è permesso camminare, fatelo, ma se la calpestate, gli stessi che vi hanno permesso di arrivare fin qui, devono avere la coerenza di punirvi.

Tutti i cristalli di questa nevicata erano, e lo sono ancora, identici. Ecco l’anomalia. Ormai si è sciolta quasi completamente, i nostalgici delle cose uniche dicono che “si sta estinguendo”. Ma resta il fatto che per circa 21 km quadrati una sola forma, una croce frastagliata a otto punte, ha dato corpo a quella massa di acqua solida e senza sali.

E perciò, ancora una volta, ho pensato a Ilde che per prima mi aveva detto che nella neve non esistono cristalli uguali. Avevamo otto anni ed eravamo compagni di classe. Buoni compagni, nessuna particolare attenzione reciproca, anche se i nostri genitori si era scoperto avessero amici in comune. Poi facemmo tutte le altre scuole divisi, fino a quado non ci rincontrammo all’Università. Cominciò Lettere a Trieste, chissà perché, poi però tornò qui dopo due anni, non appena seppe che la madre aveva un tumore all’intestino. Così mi disse quando iniziammo a frequentarci.

Inizialmente pensavo lo facesse solo per avere un ponte su cui passare per giungere ad altre amicizie. Invece, trascorsi un paio di mesi, mi baciò sulle labbra poco dopo una lezione di uno dei docenti più amati dell’Università, il professor Tiepoli. Credevo, allora, lo avesse fatto sull’onda delle emozioni che, se spiegati bene, Leopardi – e molti altri a dire il vero – sono in grado di suscitare. Ricordo ancora tutto di quel corso.

Quando è cominciata questa nevicata, il 16 dicembre di così tanto tempo dopo, stavo finendo di leggere l’ultimo libro di Ilde. L’ottavo romanzo in quarant’anni, non ha scritto altro. Ma devo dire che mi è sempre piaciuta la sua scrittura: spigliata, precisa, tagliente. Forse sarà anche perché è l’unica scrittrice che conosco. Quindi la leggo con più attenzione. Finito il libro, due giorni dopo, era già evidente a tutti che questa nevicata avesse qualcosa di assurdo. Bastava guardare i prati, o qualsiasi luogo dove la neve avesse potuto fermarsi su un’area ragionevole senza soffocare dossi, pietre o altre irregolarità. Se ci si metteva a fil di manto tutto sembrava normale, ma non appena si alzava lo sguardo, si osservava la superficie dall’alto, nei riflessi comparivano strane geometrie, come celle d’api sotto pelle. Poi, se ci si muoveva, le geometrie ti inseguivano sul posto: gli esagoni montavano diventando poliedri più complessi ma sempre incastrati gli uni gli altri – si modificavano velocemente, come in un caleidoscopio, e velocemente tornavano a posto se lo faceva anche lo sguardo.

La pelle di Ilde, invece. Le guardavo quella limpida del polso mentre giocherellava nervosamente con una tazza di tè e io le dicevo di non voler stare con lei. Che mi era simpatica, che la trovavo attraente, che mi sarebbe dispiaciuto avesse poi deciso di non frequentarmi più, ma che non volevo stare con lei. Me lo aveva chiesto qualche giorno dopo il bacio, non appena aveva perso le speranze che lo facessi io, e qualche giorno dopo ancora le stavo seduto di fronte, nel bar dell’università, per dirle che non volevo andare oltre.

Effettivamente smise di salutarmi. Già allora pensava di essere migliore degli altri solo perché era l’unica studente della facoltà di Lettere e Filosofia ad avere pubblicato un libro. Si vociferava che un paio di professori l’avessero letto solo per dirle che la letteratura è un’altra cosa ma che poi non ebbero nulla da obiettare. Qualcuno giurava di averla sentita nominare da loro come «la nostra allieva». Probabilmente Ilde mi voleva bene. Lo credo oggi, dopo che ho letto tutto quello che ha scritto.

Non l’ho mai più cercata ma una volta penso che abbia scritto di me e del giorno in cui mi raccontò dei cristalli. Non l’ho chiamata neanche quando lessi quel libro – e si parla di una dozzina di anni fa – perché la scena era scritta con distacco, o se non altro con il mestiere di chi sa che il diretto interessano potrebbe non leggere quelle righe. Invece le ho lette. “Dissi a Pietro che ogni cristallo era diverso da tutti gli altri, da quelli caduti in ogni dove e in ogni quando e da quelli che cadranno d’ora in poi. Mi rendo conto adesso che gli stavo dicendo tutto, e che nella vita a venire non avrei più potuto aggiungere altro”. Queste le parole esatte.

In fondo anche quelli che hanno fatto il carotaggio e poi hanno messo la neve in freezer a futura memoria, hanno preso una frase, l’hanno estrapolata dal resto e le hanno dato un’importanza immane. O forse sono uguali a quelli che la vogliono calpestare. Bastavano delle foto o dei video, che è quello che ho fatto io. Ne ho la memoria piena, ma ho comprato una stampante perché voglio esser sicuro che rimanga qualcosa anche dopo che avrò cambiato telefono.

Non ho mai riconsiderato la scelta di quel giorno. Mai ripensato a se avessi sbagliato tutto; se la storia tra me e Ilde avrebbe potuto prendere corpo, un corso lungo o breve, se avrei potuto avere dei figli e una vecchiaia, con lei. Se insomma non l’avessi riconosciuta. Non l’ho mai fatto perché non c’era nulla da immaginare: ho sempre saputo di aver sbagliato, più o meno dal momento in cui ha poggiato la tazza sul tavolino, coperto il polso con un guanto e se n’è andata baciandomi sulla fronte. Ognuno ha fatto la sua vita, la mia è stata anche abbastanza faticosa; riuscita, ma faticosa, fino ad ora.

Ci pensavo ogni tanto a Ilde. Magari una volta l’anno, o una ogni due, ci ho ripensato a quel modo: col rammarico, con la tristezza delle cose mai accadute. Ma non ho giocato coi se, mi sono limitato a quel momento. E poi quando usciva un suo libro andavo a comprarlo. E lo leggevo e mi dicevo che mi piacevano i suoi libri e le sue storie. E la sua scrittura: così spigliata, precisa, tagliente.

E sono certo che anche lei ha fatto la sua vita. Non so dove, non so con chi – se per forza ci deve essere un chi o invece un loro, tutti i suoi uomini, i suoi famigliari, i suoi lettori. Quindi anche io. Ma nelle quarte di copertina i suoi dati anagrafici riportano solo la data di nascita. E poi: vive e lavora a Bologna, punto. E io non ho mai cercato sue notizie su internet o sui giornali.

Il sosia dello zio di Antonello ormai non c’è più; c’è una televendita di mobili con uno sfondo finto. Mi dispiace che Ilde si sia presa anche questo. Pensando a lei non ho più fatto attenzione a quello che il sensitivo diceva. A come poi è sceso dallo sgabello.

Chissà se ha detto come fa a saperlo che questa particolare nevicata c’è stata e ci sarà; e come fa a sapere che tra 20.946 anni il mondo non si sarà estinto. Chissà se ha detto quando finirà di sciogliersi. Chissà se ha detto se prima di allora, Ilde, verrà a bussare a questa porta per ammettere che tanti anni fa si è sbagliata a proposito dei cristalli di neve.

 

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