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Richards Yates – Undici storie di solitudine

Yates, invece, è uno che ti tratta male. Di solito comincia presentandoti un personaggio emarginato, vittima di esclusione sociale o affettiva, pieno di speranze e di voglia di cambiamento. Ti lascia immedesimare con lui quel tanto che basta, e ti offre anche un nemico su cui riversare la rabbia sua e tua. Subito dopo, quando il racconto sembra avere imboccato il classico sentiero accidentato dell’eroe, il punto di vista comincia a cambiare. Un po’ alla volta il buono non sembra più così buono.

È così che Paolo Cognetti descrive la scrittura di Yates. Ed è questo l’unico e il miglior modo in cui la si potrebbe descrivere. Le Undici solitudini appaiono per la prima volta in rivista negli anni Cinquanta. Siamo nell’America del dopoguerra, dove gli intellettuali fanno sentire forte la propria voce e la città stessa diventa portavoce di una nuova era. I racconti verranno raccolti e pubblicati solo una decina di anni dopo, nel 1962, e dovrebbero rappresentare l’esordio dell’autore.Yates, come altri autori suoi contemporanei, sente forte il richiamo a raccontare, descrivere, la società americana così com’è realmente, senza filtri né mezze misure. Molti dei suoi racconti sono di natura autobiografica. Alcuni raccolgono i https://bit.ly/2KPEaONricordi di momenti passati, altri invece sono dei ritratti perfetti della società contemporanea e di quello che si appresta a diventare e rappresentare.

Troviamo, allora, la storia di un bambino che non riesce ad inserirsi nella sua nuova classe, “Il dottor Geco”, e della sua maestra che cerca in tutti i modi di aiutarlo finendo solo per peggiorare le cose. O ancora, in “Il regalo della maestra”, la scena riprende l’ambientazione scolastica, ma la prospettiva cambia spostandosi dagli alunni all’insegnante.

E così anche per gli altri racconti. Cambiano i protagonisti, ma le ambientazioni si ripetono: l’ufficio, la scuola, il servizio militare, il sanatorio. Tutti sono posti della vita di Yates e allo stesso tempo luoghi di ogni americano che ha vissuto gli anni appena dopo la fine della guerra. Ma se le ambientazioni si ripetono, e anche le storie sembrano avere molto in comune a livello di trama, le prospettive da cui vengono analizzate e descritte cambiano. Così, ogni luogo e ogni storia vengono esaminati da punti vista differenti e ci svelano qualcosa in più che nel racconto precedente non avevamo notato.

Eppure, nonostante la varietà di voci e di prospettiva che popolano la raccolta, arrivati alla fine di Undici solitudini si ha come l’impressione di aver letto un unico grande racconto: quello della solitudine. Ogni personaggio, infatti, che sia il protagonista o semplicemente una comparsa, si presenta come una delle declinazioni del termine. Solitudine è il ragazzino incompreso tra i banchi di scuola, è lo scrittore fallito che rincorre il suo sogno di gloria, è chi perde il lavoro e non ha il coraggio di ammetterlo o una moglie che aspetta in casa inconsapevole di ciò che sta per accadere.

Come molte storie newyorkesi, quelle di Yates sono storie in movimento. Ogni racconto è un pendolo tra la giovinezza e l’età adulta, la vita coniugale e l’avventura sessuale, la reclusione e la liberazione: è un moto di andata e ritorno tra due stati opposti dell’anima che prende spesso la forma di un pendolarismo geografico tra città e periferia.

Ed è forse proprio per questo suo carattere un po’ vago, per questo suo raccontare storie che sono di tutti e di nessuno, che Undici solitudini descrive un mondo senza tempo, una realtà che era quella dell’America del dopoguerra, ma che potrebbe benissimo essere quella contemporanea.

I personaggi di Yates sono uomini immobili nella massa fluttuante, illuminati dall’occhio di bue della scrittura, colti nel momento in cui la solitudine provoca in loro uno scatto: desiderio, violenza, commozione, o solo un piccolo spostamento vitale dopo il quale, probabilmente, torneranno mansueti a occupare il loro posto.

Immagini: https://bit.ly/2XiTIkE, https://bit.ly/2KPEaON

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