Pigiama computer biscotti – Intervista ad Alberto Madrigal

Pigiama computer biscotti: potrebbe sembrare il ritratto di uno studente fuorisede e, invece, è il titolo del nuovo graphic novel di Alberto Madrigal, edito da Bao Publishing. Una storia sincera che parla di lavoro, incertezza, gioia, amicizia e famiglia. Quando stai per diventare papà, tutto cambia. Dubbi e paure ti assalgono e ti fanno pensare inevitabilmente al futuro. E così che Alberto Madrigal trasporta il lettore dentro la sua casa, dentro la sua vita, raccontando il suo lavoro, l’attesa e cosa significhi fare il fumettista.

Fino a quando si deve decidere solo per sé stessi, è tutto molto semplice. Ma quando la famiglia si allarga, occorre pensare anche a chi sta per arrivare. Il fumetto inizia con il racconto di una storia di Bastien Vivès, fumettista francese molto noto oltralpe (ma anche in Italia, portato qui da Bao): nella storia di Vivès, un giovane padre fa il fumettista, ma all’arrivo della figlia rinuncia al suo sogno per cercare una stabilità per la famiglia e cambia lavoro. La figlia, diventata adolescente, si mette a piangere appena scopre che il padre ha rinunciato a tutto per lei. Basta una frase per comprendere il senso di angoscia che assale Madrigal, una paura ancestrale che entra nelle viscere e non ti lascia più. Quanto dobbiamo rinunciare ai nostri progetti di vita se arriva un figlio? È giusto o sbagliato? Come si trova l’equilibrio?
Madrigal racconta la sua quotidianità in maniera semplice e diretta. La divisione dei compiti familiari come fare il bucato, dare una pulita a casa, cambiare il bebè, ma anche svolgere il proprio lavoro, magari di notte, lavorando fino all’alba, mangiando biscotti davanti a un computer per rispettare le consegne lavorative.
È una storia intensa e toccante: per fortuna, Madrigal, al contrario del personaggio di Vivès, non rinuncia al disegno. Cerca di trovare un lavoro che gli permetta di avere un’entrata sicura ma che non esuli dalla sua passione più grande. Il fumettista racconta pezzi di vita, la sua partecipazione al Salone Internazionale del Libro di Torino, la cena con editori e colleghi, un paio di giornate a Roma con Zerocalcare e così via… Mette nero su bianco tutte le sue domande, cercando risposte che non arrivano immediatamente. Per ogni cosa, ci vuole tempo. Quando tutto cambia, occorre fare un esame di coscienza, abituarsi alle situazioni e imparare a gestirle. Insieme è tutto più semplice, ma la notte si è soli con i propri demoni. Pigiama computer biscotti è la storia di una doppia paternità: Madrigal non è solo il padre di suo figlio, ma anche delle sue storie. E, lasciatecelo dire, sembra che il mestiere di papà lo sappia fare davvero bene.
Incuriosite dalla lettura, abbiamo rivolto qualche domanda ad Alberto Madrigal che ringraziamo così come ringraziamo Daniela Mazza, ufficio stampa di Bao: le storie arrivano a noi anche e soprattutto grazie a tutto lo staff che sta nel backstage. È una cosa importante e dobbiamo essere grati a chi, di mestiere, porta le storie nelle nostre vite.

Il titolo ci fa credere che stiamo per leggere un libro leggero, promette qualcosa di rilassante e pigro come una domenica vuota. Invece scopriamo che parli di lavoro, spesso di sacrifici e scelte difficili. Come mai hai scelto questo titolo?
All’inizio, il titolo che avevo pensato per il libro era molto più cupo, una cosa tipo: Promettimi che non diventeremo così. Poi l’editore, leggendo la battuta nel testo, mi ha suggerito che Pigiama computer biscotti sarebbe stato un titolo perfetto per questa storia. Alla fine infatti l’abbiamo scelto e sono contento che prima non mi abbiano dato retta, perché il titolo finale mi rappresenta molto meglio, su come sono fatto. Per me, il libro perfetto è quello che ti invita a entrare e ti porta con la mano intrattenendoti e facendoti divertire. Ma nel processo, senza che tu te ne accorga, ti parla al cuore a ti fa riflettere.

A una prima lettura, il tuo libro sembra parlare dell’esperienza del primo figlio. Appena abbiamo iniziato a leggere abbiamo capito che era così, ma che il figlio di cui stiamo parlando è il libro, non è necessariamente il tuo bambino, più spesso stiamo parlando di un libro nascente. Parlare di un momento così delicato del processo creativo comunica una forte sensazione di familiarità con l’autore. Quanta fiducia hai nel lettore, per essere in grado di raccontargli i dettagli di una cosa intima come lo sviluppo di un libro?
Questa vostra lettura è molto interessante, non avevo mai visto la storia da questa prospettiva. Diciamo che non mi sono fatto troppe domande. Volevo parlare del processo creativo perché è un argomento che mi affascina. Non è sempre stato così. Disegnare mi viene in modo molto naturale, perché lo faccio da sempre. Invece ho cominciato a scrivere storie a quasi trent’anni. È stata una scoperta e visto che mi è successo in età adulta, ho provato a capire il processo razionalmente. Quando ho deciso che avrei parlato di questo argomento avevo paura che fosse noioso per la maggioranza delle persone, ma alla fine mi sono detto che dovevo essere onesto con me stesso e con i lettori e scrivere a proposito di quello che mi appassionava davvero.

Il lavoro dello scrittore spesso non è considerato un lavoro. Dedicare un libro al processo creativo, alla fatica che richiede, alle soddisfazioni e alle delusioni a cui si va incontro, è anche un modo per autodeterminarsi?
Per me, come dicevo, è stato un modo di provare a capire come funzionava il meccanismo. Forse anche per paura di perdere quello stato magico e non saperlo riprodurre di nuovo in futuro.

Quanto ti rendi personaggio quando scrivi di te?
Il mio personaggio è, a volte, me stesso senza filtri. Lascio che i pensieri brutti, sgradevoli o lagnosi fluiscano senza giudicarli. Altre volte, invece, lo stesso personaggio fa o dice cose che non c’entrano con me. Ma tutto questo viene dettato dalla storia. L’importante è che la storia ci guadagni, non importa se ci faccio bella figura o meno.

Scrivere di te ti porta poi a cambiare il tuo modo di vederti e a cambiare?
Credo di sì, ma non volontariamente. Diciamo che da quando scrivo di me, ho più facilità ad accettare le mie contraddizioni oppure quelle parti di me che tendo a evitare.

Come mai per raccontare questa storia hai scelto le tinte di grigio invece che i colori?
Per ogni libro, faccio lo storyboard in grigi, perché mi aiuta a capire il mood di ogni scena con pochi tratti. Poi, quando faccio le stesse tavole a colori, in qualche modo perdono spontaneità. Lo stesso che succede quando passi da uno schizzo a matita alla china.
Per questo libro ho voluto provare a mantenere quella leggerezza iniziale. Ci avevo provato con piccole storie sul mio blog e il risultato mi piaceva molto.
D’altra parte, lavorare in tinte di grigio è molto più veloce che farlo a colori. Volevo finire il libro presto e mi piaceva anche l’idea che quando vai veloce, riesci a rimanere mentalmente nella storia che stai raccontando.

Maria Gaia Belli & Cristina Catanese

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