Talento, curiosità e pezzi di esperienza. I Capolavori di Mauro Berruto

L’errore comune che facciamo con lo sport è considerarlo come qualcosa che sta a latere della realtà, un grande teatro a cielo aperto con leggi proprie e vita propria, dove noi tifosi possiamo cercare una bella catarsi a buon mercato.

Lo sport, come l’arte e il mito, veicola modelli di vita, pezzi di mondo, grandi allegorie dove alla fine, in fondo, ci siamo noi stessi. E non solo: Muhammad Alì, Maradona, Bolt hanno avuto un impatto sulla vita di tutti noi superiore a quelli di tanta classe politica.

Mauro Berruto, nel suo Capolavori (add editore), ha provato a sintetizzare cosa vuol dire essere un campione, come nasce e come si allena il talento. Arte, sport, cultura dialogano e ci aiutano a comprendere le nostre difficoltà, il nostro modo di approcciare la nostra quotianità. In mezzo, a fare da collante, la storia di un coach che ha saputo reinventarsi continuamente, la curiosità di chi è sempre pronto a mettersi in gioco.

Abbiamo intervistato Mauro Berruto, che ringraziamo per la disponibilità.

Capolavori è un libro difficilmente catalogabile. Può essere letto come un saggio, come un’autobiografia, persino come un romanzo di formazione o un’opera di self help. Cosa significa per te questo libro?
Sì, è vero. Mi diverto a vedere dove viene collocato in libreria. Posso dire che l’obiettivo è stato raggiunto: volevo scrivere un libro difficile da catalogare, il prodotto finale di una serie di contaminazioni.
Non volevo scrivere un’autobiografia e non ho la pretesa di voler produrre un saggio, non volevo fare critica d’arte né scrivere un romanzo. Volevo trovare un filo che unisse queste cose e le facesse dialogare, così come accade nella mia carriera. C’è un termine che utilizzo nel libro e che riprendo dall’antropologia, il giro lungo, che è quella cosa per cui studi una determinata etnia e poi scopri che in realtà sei alle prese con qualcosa che parla di te. Scoprendo così che qualcosa di apparentemente molto lontano nel tempo e nello spazio ti riguarda da molto più vicino di quanto credi.

La storica medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Londra

La storica medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Londra

Quando hai deciso di scriverlo, e di scriverlo in questo modo?
Il libro è nato con due sezioni, una autobiografica e l’altra più ispirazionale, che ho cercato di mescolare il più possibile. Il risultato e la forma di queste due sezioni, intrecciate tra loro, è il motivo per cui ho scritto questo libro e per cui l’ho scritto proprio adesso. Nulla accade per caso, neanche il fatto che sia uscito il giorno del mio cinquantesimo compleanno. Capolavori è certamente una riflessione fatta guardando indietro, verso una serie di situazioni più o meno personali, che mi hanno fatto vivere lo sport in questo modo. La prima delle due sezioni si chiamava discontinuità, poi con l’editor ci abbiamo ragionato ed abbiamo optato per somiglianze, che rende meglio l’idea di quello che ho cercato di fare: mettere insieme pezzi di esperienza, dalla filosofia all’antropologia, dai primi passi nella pallavolo al percorso olimpico, dalla Scuola Holden al tiro con l’arco, è un’operazione che mi ha portato a trovare molti punti di contatto tra questi diversi tipi di contaminazione, ed era questo il prodotto che cercavo.

A proposito di somiglianze e discontinuità. Hai vinto medaglie nella pallavolo e più recentemente nel tiro con l’arco, senza essere mai stato un atleta di una di queste due discipline. A quale ti senti più vicino come indole?
Bella domanda. Sono stato un pessimo pallavolista e non mi sono mai cimentato come arciere. La differenza più grande tra questi due sport sta nella relazione. La pallavolo è uno sport di relazione totale, continua, fra tutti i compagni di squadra. Non parlo banalmente di amicizia: ogni gesto tecnico deve essere in relazione

Un tiro che varrà una medaglia

con quello dei tuoi compagni, e persino dei tuoi avversari.
Il tiro con l’arco è esattamente contrario: non esiste alcun tipo di relazione, né tra compagni di squadra né con l’avversario, non è possibile fare tatticamente qualcosa per indurlo a tirare peggio.
Questa polarità tra relazione e solitudine pone queste due discipline agli antipodi. Per quanto mi riguarda, ho esercitato per tanti anni un ruolo di staff nella pallavolo che mi portava a confrontarmi continuamente con i miei colleghi, ma la mia lunga esperienza come capo-allenatore mi ha messo alle prese con decisioni da prendere in solitudine. Certo, qualunque dinamica di staff fa sì che ci siano una serie di contributi da parte di tante persone che fanno dal punto di vista analitico il meglio del loro lavoro, ma alla fine le decisioni le prende l’allenatore in una solitudine simile a quella dell’arciere. C’è un passo nel libro dedicato alla più grande delle decisioni che ho preso, a Rio de Janeiro nel luglio nel 2015. Per prenderla sono andato in una favela, a vedere il mondo sotto un altro punto di vista. Ecco, come avrai capito, probabilmente mi sento più simile all’arciere. Peraltro, se non ti piace la solitudine, se non ti fa sentire a tuo agio, non puoi fare questo mestiere. La solitudine ti aiuta a prenderti la responsabilità di ogni tuo gesto.

Yuri Chechi

Yuri Chechi

In Capolavori citi campioni straordinari, esempi di eccellenza e di tutti quei valori che descrivi e analizzi. Muhammad Ali, Yuri Chechi, Diego Armando Maradona. Viene facile il paragone con i tanti pseudocampioni di oggi, umorali, vittime del loro carattere e del mondo che li circonda. Penso a Icardi, per citare il caso più eclatante degli ultimi anni, ma potremmo fare una lista lunghissima. Cosa manca a questi atleti?
I campioni, come quelli che hai citato, li definiamo tali perché sono stati capaci di cambiare dei paradigmi. Muhammad Alì ha cambiato il mondo, non solo la boxe. Oggi è più difficile, perché la fruizione dello spettacolo sportivo ha una velocità e un ricambio estremamente più rapidi. È la dinamica di Twitter, in un certo senso: ogni gesto esiste in un tempo molto breve, e se lo perdi è difficile recuperarlo. I grandi sportivi di oggi magari riescono ad avere un impatto mediatico, ma dura pochissimo. Sono pochissimi i campioni che riescono ad attraversare il tempo.
Per essere un campione bisogna avere una certa consapevolezza della propria responsabilità. Spesso, nei miei speech, faccio vedere le foto dalle zone più povere del pianeta dove vediamo i bambini che vestono una maglia di calcio, con un cognome sulle spalle. Un tipo di linguaggio, questo, che è superiore persino ai fondamentali religiosi. Al giorno d’oggi, sono pochissimi i giocatori che sanno interpretare questo ruolo.

Che tipo di lavoro dovrebbe fare un bravo coach su di loro?
I grandi talenti sono tali in quanto individui unici. Come racconto nel finale del libro, l’allenatore ha il compito di creare le condizioni affinché il loro talento possa esplodere. La scienza ci insegna come non esista un processo di motivazione dall’esterno verso l’interno. La pillola della motivazione non esiste, e non esisterà mai. Qualunque processo di motivazione parte dall’interno ed esplode a seconda delle condizioni che l’allenatore riesce a ricreare. Un po’ come nella scultura. Secondo un maestro come Michelangelo, nella scultura bisogna semplicemente togliere quello che c’è di troppo, il suo famoso David era già all’interno della materia grezza su cui ha cominciato a lavorare. L’allenatore realizza il suo compito quando non serve più, e questo è un fatto terribile ed emozionante.

Leggendo le tue pagine mi sono venute in mente le storie di altri due campioni. Penso a Federica Pellegrini, vittima di tremendi attacchi d’ansia che non le hanno comunque impedito di diventare una delle nuotatrici più forti di sempre. E penso all’incredibile storia di Leo Messi, che malgrado i suoi problemi di salute e il fisico mingherlino riesce a diventare il giocatore più forte di tutti. Cosa è scattato, a tuo parere, per superare questi problemi?
Messi e la Pellegrini hanno saputo nutrirsi delle loro difficoltà. C’è chi davanti alle grandi difficoltà si sfalda, non resiste all’impatto, ci sono i resilienti che sono coloro che riescono a superare le difficoltà rimanendo se stessi. Messi e la Pellegrini sono campioni che hanno superato le difficoltà migliorandosi ulteriormente. Recentemente sto approfondendo con grande interesse il tema dell’antifragilità, l’idea che più ti esponi alle difficoltà da superare più ti modifichi aggiornando il tuo software. È come la metafora dell’Idra, a cui se tagli una delle sue teste, dal moncherino ne escono due.

Messi e Federica Pellegrini hanno incontrato difficoltà di vario genere. Messi da ragazzino doveva assumere l’ormone della crescita, mentre Federica Pellegrini è stata affetta da crisi d’ansia. Sono riusciti a superarsi e interpretare le difficoltà come strumento di evoluzione. Con l’unica grande mancanza di un successo di Messi con la maglia albiceleste.

Messi croce e delizia, tanto forte nel Barcelona quanto mai decisivo nella sua Argentina, spaesato, fuori luogo. Cosa non è scattato in nazionale? Forse manca quell’egoismo di gruppo di cui ci parli in Capolavori?
Se prendi dieci giocatori dell’Argentina potrebbero giocare tutti nelle più forti squadre del mondo. La nazionale argentina dimostra come le squadre composte dai migliori atleti non diventino automaticamente le migliori squadre.

Quando hai un sistema in cui tutti quelli che ne fanno parte stanno facendo ciò per cui li hai chiamati, la dinamica di squadra è molto più fluida.

Facendo il commissario tecnico per molti anni, avevo la possibilità di selezionare molti giocatori. Le mie squadre nazionali, la Finlandia e l’Italia, non sono mai state una collezione dei migliori giocatori. Alle Olimpiadi di Londra ho portato alcuni atleti che hanno suscitato l’ilarità di certa stampa sportiva, ma per me erano funzionali a uno scopo molto preciso. Come Samuele Papi, che aveva lasciato la nazionale da alcuni anni. Io gli dissi molto francamente che sarebbe rimasto in panchina per il 95% del tempo, ma che ci sarebbe stata un’occasione in cui gli avrei chiesto di entrare in campo, e questo ci avrebbe fatto vincere una medaglia. Lui accettò con serenità e la consapevolezza di essere un campione che probabilmente sarebbe entrato per fare una sola ricezione. Ero riuscito a trasmettergli una condivisione d’intenti, il fatto che quella ricezione poteva essere utile tanto quanto fare 35 punti a partita. Ed è successa una cosa simile nella finale che ci ha portato la medaglia di bronzo. Questo lo chiamo egoismo di gruppo.

Mauro Berruto

Italy coach Mauro Berruto

Qual è la cosa più bella che ti è capitata dopo l’uscita di Capolavori?
Una cosa bella che mi è capitata subito dopo l’uscita del libro è l’entusiasmo di tanti allenatori, inteso nel senso più ampio: allenatori sportivi, manager, imprenditori, insegnanti, educatori. Chiunque abbia a che fare insomma della gestione del talento.

Avrai letto di bruttissimi episodi nelle scuole calcio, nelle palestre. Posti dove i bambini hanno l’opportunità di imparare non soltanto una disciplina ma una cultura sportiva, trovandosi invece a che fare con tecnici miopi, genitori attenti solo al risultato, scene di razzismo inqualificabili. Come siamo arrivati a tutto questo?
Quello che dici accade purtroppo in tanti sport, non solo nel calcio. Molto spesso è una proiezione distorta delle famiglie rispetto a  ciò che stanno facendo i loro figli. Quando vedi un ragazzo che insulta l’arbitro o si distingue per frasi razziste, è quasi sempre una proiezione dei genitori. E, a maggior ragione, quando vedi in tribuna dei genitori che insultano l’arbitro o l’allenatore dei figli perché non sta giocando, stanno sfogando la loro frustrazione: sono loro che si sentono messi in panchina, penalizzati da un arbitro che ha preso decisioni diverse.
Fra ragazzi queste dinamiche non nascono mai, queste situazioni riescono a risolverle in modo molto più brillante dei loro genitori.

Come possiamo tornare ad insegnare ai bambini la bellezza di un gesto?
Prendendo esempio dalla pallavolo. Nella pallavolo questi fenomeni accadono molto di rado, e questo per un motivo molto semplice: il suo pubblico coincide per la quasi totalità con persone che hanno praticato questo sport. Hanno quindi un codice di lettura molto raffinato, come andare a vedere una mostra dopo aver studiato la storia dell’arte e la vita dell’artista. Nel calcio fioccano affermazioni sciocche, tipo “Come ha fatto a sbagliare il rigore con tutti i soldi che guadagna”. Quelle stesse persone, se mettessero il pallone sul dischetto, non centrerebbero neanche la porta. Non sanno che, a seconda del momento, la porta diventa larga o strettissima, il portiere può diventare un gigante.
Non avendo questa consapevolezza, godono dello sport solo come spettacolo emozionale: vittoria o sconfitta. Tutto o niente. Se vinco sono felice, se perdo me la prendo con qualcuno.
Siamo un popolo di molti tifosi e pochi sportivi. L’unica soluzione che io conosco è la pratica sportiva vera. È l’unico modo per imparare a godere dello sport.
Questo dovrebbe essere compito della scuola, che però ha smesso di credere nello sport, e lo considera una disciplina con una dignità inferiore. Tutta l’agenzia educativa sportiva è nelle mani dei club. Non c’è un altro paese in Europa che abbia un numero così grande di club, e questo perché il lavoro dei club negli altri stati è demandato alla scuola.

Sono tante, tantissime le opere d’arte che citi in Capolavori. Dal blu inseguito da Klein per tutta la vita allo splendido Pugile in riposo, uno dei passi più belli del libro. L’accostamento tra capolavori artistici e sportivi, il loro modo di veicolare emozioni e di mettersi in relazione ci fa capire in controluce come lo sport sia ormai l’epica dei nostri giorni, uno dei pochi motori di storie e di bellezza rimasti. Come avviene tutto questo?
Lo sport è un motore inesauribile di storie. Sono metafore di ognuno di noi, riescono a trascendere il semplice gesto sportivo. Ogni manifestazione sportiva, dai mondiali ai Giochi Olimpici, genera continuamente storie nuove. Non ci sono tante altre discipline che riescono a mantenere un serbatoio di storie sempre pieno, senza interruzione. Queste storie hanno un impatto molto più profondo della fiction sportiva. Ci sono state grandissime penne del passato che hanno scritto romanzi sportivi, ma non arrivano al livello delle biografie o autobiografie di certi giganti, che sono i nuovi Achille ed Ettore. Tra un anno, a Tokyo, ci saranno decine di nuovi personaggi, scenari, dinamiche.

Filosofia, antropologia, pallavolo, tiro con l’arco. La televisione, i libri, la Scuola Holden. E la sensazione di essere già pronto per rimettersi in viaggio. Ma verso dove stavolta?
Verso i Giochi Olimpici di Tokyo. Mi è stato dato un obiettivo, e per me agosto 2020 sarà un momento cruciale. Non escludo neanche di tornare alla pallavolo, ma la possibilità di cambiare il campo di gioco è stata una fortuna, un valore aggiunto. Non so cosa farò tra un anno, ci sono tantissime possibilità e sono orgoglioso di poterlo dire, a cinquant’anni.

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