Se la De Lellis scrive un libro: esegesi di un fenomeno editoriale

 

“Allora Maria plasmò il tronista con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di Fitvia e il tronista divenne un influencer”.

Se ci fosse una Genesi della starlette italiana, probabilmente, questo sarebbe l’incipit. Tale destino è toccato a Giulia De Lellis, la bella mora di Pomezia che nel 2016 scese le scale per il dj veronese Andrea Damante. Una storia d’amore con tutti i crismi: scenate di gelosia, uscite dallo studio e graffi con la matrona Tina Cipollari. Tutto da copione. E, come da copione, l’epilogo si è risolto in petali rossi, viaggi, convivenza e…tette nuove “che abbiamo scelto insieme” ha commentato entusiasta la De Lellis da Barbara D’urso. Un iter che ha portato prima lui poi lei a varcare le porte dorate del Grande Fratello Vip, a fare business e aumentare vertiginosamente di follower. I due poi si sono lasciati, con sgomento delle “bimbe di Giulia”, ma i seguaci sono continuati a crescere. L’impero dell’ “esperta di tendenze” conta ad oggi più di 4 milioni di fan su Instagram e cachet da fare invidia a illustri pilastri della televisione italiana.

È facile, a questo punto, immaginare l’amministratore delegato di Mondadori scorrere il profilo Instagram della De Lellis sul suo cellulare con gli occhi a forma di dollaro e sentirlo esclamare: “A questa le facciamo scrivere un libro”. Eh sì, perché la De Lellis, che vanta tra le cit. espressioni come “L’Egitto è la capitale dell’Africa” e “Io in libreria mi sento persa. Non ho mai letto un libro in vita mia è una sorta di re Mida del social. E allora, appiccichiamo la sua faccia su un pezzo di cartone e inseriamo dentro dei fogli impressi a stampa. Facciamoli riempire a Memorie di una vagina alias Stella Pulpo. Mischiamo il tutto con il pruriginoso interesse delle bimbe a scoprire i misteri che si celano dietro al tradimento del Dama e la merda d’editore è servita.

Il gadget cartaceo, dall’inoppugnabile titolo Le corna stanno bene su tutto. Ma io stavo meglio senza” uscirà il 17 settembre ed è già presentissimo nelle IG stories della De Lellis. Mentre si riprende filtrata da brillantini e ciglia svolazzanti, l’influencer annuncia tronfia “Sì ragazze, ho scritto un libro. Mondadori mi ha chiamato e io ho capito che era arrivato il momento di raccontare la mia storia. E dunque, se è prematuro affrontare un’analisi dei contenuti visto che il libro non è ancora disponibile, è di sicuro interesse capirne il ruolo editoriale, ed è legittimo chiedersi se questo che ha tutti i presupposti per essere il nuovo bestseller 2019-20 possa effettivamente essere considerato un libro o forse dovremmo coniare un altro termine. E, nel caso, quale sarebbe?

 

“Mondadori mi ha chiamato”. È questa la frase che segna l’inversione di processo. Non è più lo scrittore a proporre il manoscritto all’editore, saggio giudice che dall’alto seleziona e conferisce dignità di pubblicazione. Qui è lui, l’editore, a procacciarsi il cliente. A chiedergli di scrivere un libro, di produrre l’oggetto-lettura. Questa inversione, che potrebbe sembrare un piccolo dettaglio nel processo di creazione, produzione e distribuzione del libro, è invece nodo fondamentale per comprenderne la natura. Esso non nasce come conseguenza di un’urgenza di narrazione, bensì si fa causa di un bisogno. E dunque il libro passa da contenitore a contenuto, da opera a gadget, da simulacro a feticcio. Fenomeno peraltro non nuovo e non prerogativa del solo Mondadori. La leggenda narra che i grandi editori utilizzino questi libri-specchiettoperleallodole per attirare pubblico e tirar su i soldi necessari a finanziare la “vera letteratura”. Il pubblico vuole Barabba e loro glielo danno, con un occhio sempre attento a Gesù.

Ma siamo davvero sicuri che sia così? Che il modo per continuare a produrre i “libri veri” sia spacciare come tali impostori cartacei? E se fosse il contrario? E se non avesse più motivo di esistere una distinzione tra libri “veri” e “fake”?

Potrebbe semplicemente trattarsi di due caselle diverse di mercato, due porzioni differenti di significato. E ancora, le case editrici hanno dei doveri morali in quanto veicoli e selezionatori della produzione letteraria o sono da considerarsi imprenditori al pari di produttori vinicoli?

La De Lellis parla di “raccontare la mia storia”. Il vissuto a cui l’influencer fa riferimento sono, per citare il titolo, le “corna” di Damante. L’argomento è caro alla letteratura. Basti pensare alle tragedie greche, all’epica latina e a scrittori come Flaubert, Goethe e Tolstoj. Quindi il tema di per sé, che che se ne dica, ha una sua dignità. Certo, tentare di far vestire alla De Lellis i panni di una Didone social è un po’ troppo. E dunque, la domanda da porsi non è perché scrivere un libro sulle corna?, bensì

Il semplice fatto di aver vissuto qualcosa ci dà il diritto di raccontarla?

Se assumiamo che la componente esperienziale sia condizione sufficiente e necessaria per poter produrre un libro, creiamo un precedente pericoloso. Stiamo dicendo che la scrittura non è altro che reportage empirico dell’esistenza. Dimenticando cioè che lo scrittore è prima di tutto un filtro sulla realtà, un occhio che plasma anche ciò che non gli appartiene, distorce, piega a servizio della narrazione. L’opera letteraria ha una funzione catartica, non informativa o documentaria, o almeno non solo. E tale catarsi deve coinvolgere scrittore e lettore all’unisono. Non può ridursi a sfogo personale, altrimenti, sempre estremizzando, si finirà per trasformare il panorama letterario in un diario segreto adolescenziale, o peggio in un grande social network.

La De Lellis continua: “Ho scritto il libro così potrò piangere un morto che non ho mai pianto”. Perché il libro diventa in questo senso sfogo personale, bollettino di sventura. Talmente intimo da essere stato scritto a quattro mani con una persona conosciuta appositamente come scribacchina per mettere in italiano l’esperienza adultera dell’influencer. Anche qui torna il carattere esperienziale. Il libro come condivisione di se stessi. La De Lellis usa impropriamente il verbo “ho scritto. Come se scrivere significasse dare l’idea, metterci la materia, e poi darle una forma potesse essere delegato a un semplice artigiano della parola. Come se Michelangelo avesse messo il marmo e il disegno e poi qualcun altro avesse fatto il resto. In sintesi, come se si potesse definire scrittore chi il libro non lo ha scritto.

E dunque, non si può fare una recensione del libro, poiché non è ancora uscito, e questo, seppur allettante, sarebbe prevenuto e pregiudizievole. Ciò che si può e si deve anzi analizzare è però il processo che sta a monte di tale produzione e il significato che questo libro et similia (la triade delle Chiare –Ferragni, Biasi, Nasti-, Iris Ferrari, Favij, Francesco Sole ecc.) assume nel panorama editoriale italiano. Le corna stanno bene su tutto è la spia di qualcosa che nel processo non ha funzionato. Di un’inversione di rotta che depaupera il profondo senso letterario dell’opera scritta. Un libro che nasce con tutti i presupposti sbagliati. A meno che non lo si consideri qualcosa d’altro. Qualcosa che ha la forma, il packaging, persino l’odore di un libro, ma non è un libro. E neanche il target è lo stesso. Il cosiddetto “lettore forte” (quello cioè che legge almeno 1 libro al mese) non va in libreria per comprare “Le corna stanno bene su tutto”. Quello è un libro confezionato per chi non legge. Ciò non significa che non abbia una sua dignità o un suo diritto di esistere nel panorama del consumo dove trovano spazio i prodotti più disparati. Significa però che non è di un libro che si tratta. Quello è fatto per chi legge.

Forse, sarebbe il caso di definirlo “libroide”, con un termine coniato da Michela Murgia per definire ironicamente A cosa servono i desideri”, il romanzo di Fabio Volo edito sempre Mondadori nel 2016. Lo stesso anno in cui la De Lellis scese le scale per Damante. Coincidenze?

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.