Senti che vento

Di spazi e metamorfosi. Intervista a Eleonora Sottili

Se ci sono due cose che colpiscono di Eleonora Sottili, autrice di Senti che vento edito recentemente tra i Coralli Einaudi, sono la sensibilità e il modo peculiare, tutto suo, con cui questa sensibilità permea le sue parole, a voce o sulle pagine.

Senti che vento è ambientato a Bocca di Magra, a cavallo tra le cinque terre e la costa toscana. Un luogo idilliaco, certo, che vediamo però sconvolto dall’alluvione, che si porta via le case, la quotidianità degli abitanti e le sicurezze della protagonista di questo libro, Agata, che vive con la nonna Fulvia e la mamma Cè, come il rivoluzionario cubano. L’aspetta un matrimonio, una vita nuova fatta di tranquillità, ma l’acqua e la burrasca mettono in discussione ogni cosa.

Ci aspetteremmo una classica storia d’amore a distanza, la corrente che si ritira pian piano per far tornare il sereno. Non è così: Sottili ci stupisce con una storia di segreti e distanze, di inquietudini che dialogano fra loro, di specchi distorti.

Senti che vento è una storia di scelte coraggiose. Nonna Fulvia e mamma Cè sono donne forti, intrepide, con un’attitudine all’avventura e all’azione. Anche Agata, nel corso del romanzo, passa dall’essere un “nientino” a capire finalmente il suo posto nel micromondo di Bocca di Magra e trovare una sua strada per l’emancipazione. 

Ne parliamo con Eleonora Sottili, che ringraziamo per l’intervista.

Come nasce Senti che vento?

Nasce da una fotografia che trovai molti anni fa. Nell’immagine c’era mia nonna con le sorelle. Io avevo già dodici anni e fino a quel momento avevo sempre saputo che nella famiglia di mia nonna erano quattro femmine. In quella fotografia però le ragazze che si tenevano strette una accanto all’altra erano cinque e quando chiesi a mia nonna chi fosse la quinta, lei restò in silenzio, non mi rispose. Fu mia madre a svelarmi ch’era un’altra sorella di mia nonna, ma nessuno ne parlava, quasi non fosse mai esistita perché aveva abbandonato il marito per un altro uomo. Mi sembrò una cosa terribile e insieme intrigante, come in effetti sono sempre i segreti di famiglia. Un altro spunto poi è stata la chiave di una camera d’albergo, saltata fuori anche quella da una scatola di mia nonna. Probabilmente i miei nonni l’avevano rubata per ricordo e già questo, conoscendoli, era piuttosto sorprendente. E poi era di un hotel di Parigi, mi sembrava molto romantico e romanzesco. Me l’ero fatta regalare e ce l’ho ancora. Chissà che prima o poi faccia anch’io come Agata…

Eleonora Sottili

Le donne della famiglia rappresentano tre tipi diversi di inquietudini a confronto. Vorresti raccontarcele?

Quando inizia la storia la nonna di Agata più che un’inquietudine ha una scontentezza generale, una specie di durezza nel carattere che la fa andare contro le cose. Detesta la casa in cui abitano, detesta il fiume e il suo odore e non risparmia critiche e commenti alla figlia e alla nipote.
Dal canto suo Agata ha perso l’equilibrio. Si deve sposare tra meno di una settimana, ma forse non è più così sicura di farlo. Non è soprattutto più sicura di chi vuole essere.
L’inquietudine è però soprattutto il tratto della madre di Agata. È lei che ha un continuo desiderio di andare oltre, che guarda dove sono le città e i posti sugli Atlanti e sogna di partire. E però se all’inizio questo tratto fa paura ad Agata, è proprio sua madre che le insegnerà il desiderio, l’immaginazione e perché no, anche l’arte della fuga.

Personalmente, sono sempre stato appassionato dei luoghi che diventano non solo parte integrante di un romanzo, ma veri e propri protagonisti. Penso alla casa dei Ramsey in Gita al faro, che abbandonata dai proprietari sembra quasi vivere di vita propria. In Senti che vento abbiamo Bocca di Magra e la casa di Agata, di mamma Cè e di nonna Fulvia, preda del vento e della tempesta. Ci fai sentire gli odori, i movimenti di entrambi i luoghi, della casa e del mondo circostante, come fossero un contrappunto per le vicende di Agata. Che rapporto c’è fra i luoghi e le donne del romanzo?

C’è un rapporto molto profondo, essenziale. Quando il fiume esonda, la casa in cui abitano le tre donne inizia a trasformarsi, l’acqua entra nelle stanze, la luce va via, la penombra umida e i riflessi del fiume cambiano il colore e la consistenza delle pareti. E la casa ben presto trasmette questa metamorfosi agli oggetti, che iniziano a galleggiare, si capovolgono, affondano, riaffiorano e cambiano funzione: il mezzo marinaio serve per raccogliere la verdura nell’orto, il balcone diventa un ormeggio, la scrivania un tavolo da pranzo. E quando lo spazio intorno a loro e le cose subiscono questa graduale metamorfosi, anche le tre donne non possono fare a meno di mutare. Lo spazio che abitiamo decide il nostro modo di vivere, decide chi siamo. 

Senti che vento è un romanzo di resistenze. Di figlie che non vogliono assomigliare alle donne della famiglia. Di persone che dicono di no, che scelgono di rimanere nella loro casa, malgrado l’alluvione. Di segreti che non vogliono essere svelati, fino all’ultimo. Di persone che si dicono “mai più”. Cosa ci dicono le tre protagoniste con i loro no?

Ci dicono prima di tutto che c’è la possibilità di fermarsi. Quando diciamo di no, diciamo quello che non vogliamo e diciamo quello che non siamo, o non siamo più. Nella letteratura sono molti i personaggi indimenticabili che dicono di no, Bartleby primo tra tutti, ma anche il barone rampante di Calvino che decide di non scendere dall’albero. Quando diciamo di no, la nostra storia cambia, andiamo in un’altra direzione, e questo è quello che mi interessa, quante direzioni si possono prendere nel corso di una vita, quante possibilità diverse ci sono dentro di noi.

Domanda quasi obbligatoria. Senti che vento parla anche di isolamento, di una famiglia chiusa in casa per colpa dell’alluvione, a fare i conti con se stessa e i propri segreti. Impossibile non fare un paragone con l’assurda situazione che stiamo vivendo in tutta Italia. Descrivere una situazione come questa ti ha insegnato qualcosa che può esserci utile oggi?

È stato per me molto strano immaginarmi, mentre scrivevo questo romanzo, chiusa nella grande casa di Bocca di Magra coi miei personaggi e poi trovarmi improvvisamente a vivere nella realtà una situazione simile, e però mi sono trovata a fare proprio le stesse cose delle mie donne di fiume: con le persone che amo e con cui trascorro questi giorni in casa leggo, gioco a carte, sfoglio vecchi album di fotografie, guardo cosa accade fuori dalle nostre finestre e alla fine in questo tempo sospeso mi conosco meglio e conosco meglio chi ho accanto, le ore diventano più lente e più preziose. Mangiare insieme, parlare, tutto diventa più indispensabile. Magari non si dice “più indispensabile”, ma lo dico lo stesso, perché è proprio quello che sento. Questo tempo ci riporta all’essenziale e spero che ce ne ricorderemo anche quando sarà passato. E un’altra cosa che ci restituisce è il desiderio e l’immaginazione. Sono cose importanti.

Qualcosa mi dice che Agata ha ancora qualcosa da dirci… Potremmo rivederla in un prossimo romanzo?

Chissà, magari con un’altra forma, un altro nome e un’altra storia. Lo spero, ho sempre voglia di una storia nuova da scrivere e in cui vivere per un po’.

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