Giovanissimi – Intervista ad Alessio Forgione

Ci sono scrittori che capisci subito che diventeranno grandi e che non spariranno dopo il primo libro, perché c’è un’urgenza in ciò che raccontano e come lo raccontano. Lo vedi che, per loro, cavar fuori quelle parole, metterle in fila, è una questione di sanità mentale. Che quella storia, così, non avrebbe potuto raccontarla nessun altro. 

Ho incontrato Alessio Forgione a inizio 2019, con il suo primo romanzo Napoli Mon Amour, pubblicato da NN Editore. Era gennaio, ero a Milano, ero sola, e mi sono imbattuta in questo libro dalla copertina azzurra che parlava di Napoli, una città un po’ amata e un po’ odiata. Al centro della storia, Amoresano, un trentenne plurilaureato che non vive ma si trascina, che cerca scuse per continuare a non fare niente. Leggerlo è stato come prendere la scossa, e ho continuato a portarmi dietro quella storia per giorni, mesi. Poi, esattamente un anno dopo da quella lettura, il 23 gennaio 2020 Forgione esce col secondo libro, Giovanissimi, e torna a parlare della sua Napoli con una storia che non t’aspetti. 

Siamo a Soccavo, un quartiere della periferia di Napoli, e incontriamo subito Marocco, un ragazzino quattordicenne che abita con il padre perché la madre li ha abbandonati, e lascia che le giornate passino tra una scuola che non ha scelto, gli allenamenti di calcio in cui sembra non brillare, e i pomeriggi con Lunno, un amico a cui non vuole assomigliare. La vita va avanti, tra giorni uguali e piccoli episodi di violenza quotidiana, e Marocco ci passa in mezzo e non si lascia toccare, sfogliando le riviste di Dylan Dog. Finché non incontra Serena e tutto cambia e, per la prima volta, vive.

Così, per raccontarvi di Giovanissimi e di Marocco, di questo romanzo sulle prime volte, ho intervistato Alessio Forgione, che è stato così gentile da rispondere alle mie domande.

Di solito, si dice che scrivere il secondo romanzo sia molto più difficile del primo. Soprattutto se il primo è andato bene, com’è stato nel tuo caso con Napoli Mon Amour, perché entrano in ballo tutta una serie di cose, tra cui la grande aspettativa. Però, so che tu hai iniziato a scrivere Giovanissimi prima, giusto? Quindi, com’è andata per questo romanzo? Quando hai cominciato a scriverlo e com’è stata l’attesa prima dell’uscita?

Per Giovanissimi sono impazzito, ma sono impazzito anche per Napoli mon amour, ma per Giovanissimi di più. È diventato quello che facevo, tutto il tempo, anche quando non scrivevo ma facevo la spesa o parlavo con un amico. Giorno dopo giorno, ecco, ha conquistato tutta la mia attenzione.

Sì, ho scritto la prima pagina prima di venire ricontattato da NN, il mio editore, per Napoli mon amour. Però ho cominciato davvero subito dopo la firma del contratto per il primo libro. E da lì l’ho scritto, senza pensare ad altro, cercando di scrivere la storia che intendevo raccontare nel modo più adeguato. 

Non è stato semplice; scriverlo e coordinarsi con la vita reale, di fatto non coordinandosi perché la vita reale l’ho riposta in un angolo. E ovviamente, dopo tanto lavoro, il momento per me peggiore è dopo la consegna del libro, quando non puoi più toccarlo e non ti rimane altro da fare che incrociare le dita. 

Per Giovanissimi, come per Napoli mon amour, ho risolto pensando che l’ho scritto con tutta l’onestà di questo mondo, senza preoccuparmi della sua fortuna mondana, e che quindi non aveva senso farlo nemmeno in quel momento.

Partiamo dalla storia: se dovessi riassumere in una frase di cosa parla Giovanissimi, cosa diresti?

Sono le avventure o le disavventure di questa banda di ragazzini, alla ricerca di se stessi, nel percorso che li conduce all’inizio della loro vita.

In Napoli Mon Amour hai raccontato della realtà dei trentenni di oggi, delle loro difficoltà lavorative e delle aspettative sul futuro spesso infrante. Di donne e uomini che hanno accumulato esperienze alle spalle, che fanno di loro ciò che sono. In Giovanissimi, invece, troviamo dei ragazzini per cui è tutto un po’ una prima volta, in un’ambientazione anni ’90. Cosa ti ha portato a raccontare questa storia? Qual è stata l’urgenza?

A prescindere, mi interessano le storie che trattano l’adolescenza. E mi piace anche quando si parla, in un certo modo, diciamo non superficiale, delle periferie. 

Quindi volevo provarci, anche perché, sì, avevo parlato di un trentenne dei nostri tempi e m’interessava provare a capire come si diventa quel siamo.

In più c’è l’amicizia. Nello specifico, l’affetto che si prova per una persona che non ti sembra esser perfetta, e, nonostante questo, decidi di volerle bene.

Il romanzo parte e sembra promettere una storia sul calcio – e sullo sport intenso come possibilità di riscatto – tanto comincia con la descrizione di una partita. Poi, però, man mano che si va avanti, il calcio diventa sempre più marginale, fino a sparire quasi del tutto, spiazzando i lettori. Come mai questa scelta?

Mi è venuta spontanea e non l’ho reputata rischiosa. 
Per esempio, in un film, non ci aspettiamo che il protagonista compaia fin dal primo fotogramma o che tutta la storia si accenda dal secondo zero. E per me così funzionano le storie, per i loro dettagli. Devono fluire, scorrere e vedere dove vanno a parare.

Poi, sì, ho pensato fosse una soluzione pericolosa, quasi respingente, però per me funziona così: quando apro un libro, da lettore, devo fidarmi di quello che c’è dentro e devo lasciarmi condurre. Quindi, se un lettore X dovesse aprire Giovanissimi, leggere la prima pagina e poi riporlo sullo scaffale, in libreria, io non so proprio che farci. Io devo fare solo quello che voglio, nella speranza di pagarci l’affitto, e non pagarci l’affitto facendo un po’ quello che voglio e un po’ quello che sarebbe più furbo fare. 

I furbi mi sono sempre stati molto sulle palle. E continuano a stare lì.

Il mondo in cui Marocco cresce è sicuramente un mondo molto poco gentile. Attorno a lui, accadono cose enormi e terribili, decisamente “troppo” per un adolescente. Eppure, lui sembra quasi non esserne toccato…

“Poco gentile” è una definizione che mi piace; d’altronde qualsiasi forma di violenza diventa una forma di violenza esclusivamente per la sua carenza di gentilezza.

Il mondo di cui parlo è una periferia, e le periferie sono così, poco gentili, ma non poco umane, né troppo umane. Sono semplicemente un posto, non per forza speciale o speciale a priori, e quindi un posto come tutti gli altri posti di questo mondo.

Non so bene che dire al riguardo. Ho sempre vissuto in periferia e quello è il mio mondo e quando vivi immerso in una cosa è quasi impossibile giudicarla. Puoi ritrarla, questo sì, ed è quello che mi sono limitato a fare.

Vorrei passare alla scrittura. Qual è il lavoro che hai fatto su questo romanzo? Quali sono stati i tuoi punti di riferimento?

L’ho scritto, l’ho riscritto due volte e poi l’ho revisionato almeno cinquanta volte, fino allo sfinimento.
I punti di riferimento, non so. Forse tutte le cose che ho letto nella mia vita. E, per certi versi, anche quello che leggerò dopo.

Quando sei venuto a Bologna, alla Confraternita dell’uva, a presentare il tuo libro, hai detto una cosa bellissima: “non scrivo per vanità, ma per vergogna”. Ecco, vorrei che spiegassi questa cosa.

Molto semplicemente, quando scelgo di cosa scrivere scelgo la cosa che più mi mette a disagio. La scrivo tutta e poi spero di non pensarci più.

Il tuo libro è entrato nella dozzina del Premio Strega, che è già un riconoscimento pazzesco. Come stai vivendo questa situazione e, indipendentemente dal risultato, cosa ti auguri per il futuro?

Sono molto soddisfatto per questa cosa dello Strega, davvero, e spero che mi aiuti a crescere, proprio da un punto di vista umano. E per il futuro mi auguro solo di riuscire ancora a scrivere con tutta la sincerità che posseggo.

Se dovessi scegliere una frase chiave del tuo romanzo, quale sceglieresti? La tua preferita, insomma.

“Soprattutto, volevo dire che ogni persona è l’ulteriore possibilità di qualcun altro.”

I tre consigli libreschi di Alessio Forgione per affrontare questo duro periodo di isolamento?

La valle dell’Eden, di John Steinbeck, perché al momento mi è davvero difficile immaginare un romanzo più bello e definitivo.

Furore, sempre di John Steinbeck, perché ci spiega che noi, presi singolarmente, non abbiamo davvero un’anima, ma che ne abbiamo una, grande e bellissima, quando facciamo parte dell’umanità e viaggiamo con essa.

Madrigale senza suono, di Andrea Tarabbia, perché c’è un narratore e c’è uno che legge il romanzo insieme a noi lettori, e lo commenta, divenendo anche egli stesso il narratore, e allora mi sembra che renda palese questa cosa per la quale chi legge è anche egli il narratore di quanto sta leggendo.

Pensai che fosse un peccato, essere così, e i palazzi diventarono un po’ più alti, bianchi, pieni di tende, e provai pena per Lunno. Perché mi sembrò che passasse il tempo sforzandosi di apparire sempre forte e duro. Non mi piaceva questa cosa ed io non volevo essere così. C’avevo provato e avevo capito che non ero così e che invece volevo solo amare ed essere felice e volevo che tutti se ne accorgessero. Volevo fare del mio sorriso un simbolo, uno sfregio permanente che mi rovinava la faccia.

Concludo con una citazione, per farvi entrare ancora di più dentro Giovanissimi, ed è quella sceglierei io se tutto questo non fosse bastato a convincervi a leggerlo.

Infine, ringrazio Alessio e gli auguro buona fortuna per lo Strega. Intanto, qualunque sarà la sua prossima storia, attendiamo, perché “la vita non è altro che un’inconsapevole attesa”.

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