Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli – Quanto è sottile il confine tra normalità e pazzia?

Qual è il confine che non dobbiamo sorpassare per essere considerati sani di mente? Chi stabilisce cosa è folle e cosa non lo è? E cosa ci spinge a superare quel confine?

Daniele ha vent’anni e soffre di depressione. Questa, almeno, è la diagnosi dei medici. La verità è che Daniele soffre di una patologia che ci colpisce tutti. Solo che alcune persone la vivono più intensamente di altri. Daniele vede la realtà per com’è, è terrorizzato dall’enormità di tutto ciò che lo circonda e dalla consapevolezza che tutto intorno a noi è precario: “possibile che nessuno s’accorge che semo come ’na piuma? Basta ’no sputo de vento pe’ portacce via. Possibile cresce un figlio, levasse er pane de bocca pe’ fallo studia’ e ritrovasselo come un bambino de quattr’anni, perché? A che cazzo serve tutto?”.

Tutto chiede salvezza è il secondo romanzo di Daniele Mencarelli, pubblicato il venticinque febbraio da Mondadori. Un romanzo autobiografico che racconta in maniera diretta e intensa l’esperienza dell’autore che, a vent’anni, è stato sottoposto a una settimana di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Un romanzo breve, ma incredibilmente intenso e denso. Denso di domande, di risposte, di vita e di morte allo stesso tempo.

Roma, 27.04.2018. Ospedale Bambin Gesu’. Daniele Mencarelli autore del libro “La casa degli sguardi” tratto dalla sua esperienza lavorativa dentro l’ospedale. Le vetrate dell’ospedale, attraverso di esse farò amicizia con Alfredo, uno dei bambini del romanzo.

È martedì e Daniele si sveglia nel letto di un ospedale, intorpidito e ancora sconvolto. Lentamente le immagini della sera precedente iniziano a prendere forma nella sua testa. La rabbia disumana, suo padre che stramazza al suolo, la paura e lo sconvolgimento della madre.

Nella stanza ci sono altri cinque letti e quattro pazienti: Gianluca, Mario, Madonnina e Alessandro. Cosa ci fa lui in un ospedale psichiatrico? Lui è un bravo ragazzo e quello di ieri sera è stato solo un incidente, non si verificherà mai più. È questo quello che Daniele cerca di spiegare a Pino, l’infermiere, un uomo sulla cinquantina con una pancia che lo precede e che cerca di mettere subito in chiaro le cose: “E bravo Daniele. Io so’ Pino invece, e Pino ama mette subbito le cose in chiaro: se tu stai bòno io so’ bòno, se tu fai er matto cattivo io divento più cattivo de te, chiaro? E credeme, i sani sanno esse più cattivi dei matti, capito?”.

Tutto chiede salvezza non è soltanto il racconto della settimana di TSO a cui Daniele è costretto, è anche un diario di viaggio, che attraversa due mondi tanto lontani quanto vicini tra loro: quello dei matti e quello delle persone “normali”. Il primo è descritto in tutte le sue sfumature dai sei pazienti –al gruppo si aggiungerà anche Giorgio, un omone che ha perso la madre a soli dieci –mentre il secondo dagli infermieri e dai medici.

Ogni tanto entra, come un lampo, un terzo mondo: quello fuori. Il padre di Alessandro, che ogni giorno dà da mangiare al figlio, che la domenica gli rasa la barba e che ogni tanto, sotto le coperte, gli dà un pizzico per cercare di svegliarlo; la madre di Gianluca, le veloci visite del fratello di Daniele e di suo padre, le telefonate a casa. Brevi parentesi per fare entrare il mondo esterno nella realtà ovattata e senza tempo dell’ospedale. Brevi parentesi per presentare la malattia da una prospettiva diversa, a metà tra chi ne è colpito e chi con la studia con occhio clinico e distaccato.

Nel raccontare la propria storia l’autore porta alla luce anche un altro aspetto del proprio rapporto con il sui disturbo, e con il mondo in generale, quello dell’intenso legame con la scrittura.

Quello che voglio per tanto non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Un parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza.

Daniele scrive poesie da sempre. Il foglio bianco è un campo di battaglia e le parole sono l’arma più potente che possiede.

È strana la scrittura, per principiarla occorre prendere una specie di rincorsa, gettarsi a volo d’angelo nel bianco della pagina come i miei amici dalla cabina del papa, quando si è partiti, però non ci si vorrebbe più fermare, almeno sino a quando non finisce quella particolare elettricità che è stabilita con tutto ciò che ti chiede di essere cristallizzato in parole. Interrompere la scrittura fa nascere pensieri storti.

La potenza della parola è proprio ciò che ritroviamo se analizziamo lo stile dell’autore. Una scrittura diretta, fatta di frasi brevi, che dà ampio spazio alla parlata romana, schietta e famigliare, che però non disturba il lettore e non appesantisce il testo. I discorsi tra i sei pazienti sono veloci scambi di battute. Solo Mario si lascia andare a riflessioni più profonde, espresse con un linguaggio curato e delicato, come la sua persona.

Un altro particolare importante del romanzo è il tempo. L’unico indicatore temporale che ci permette un collegamento con la realtà sono i giorni all’inizio di ogni capitolo. All’interno dell’ospedale il tempo di dilata, quasi non esiste. Non ci sono orologi, Daniele e i suoi compagni di stanza scandiscono le giornate in base al movimento del sole, ai cambi di turno degli infermieri, ai pasti. E anche il lettore si immerge in questa dimensione atemporale. Alla fine del romanzo sembra quasi di uscire da un sogno. Daniele prende le sue cose e si prepara a affrontare nuovamente il mondo fuori, e noi lettori insieme a lui.

Tutto chiede salvezza accompagna il lettore in un viaggio all’interno della storia di Daniele, ma anche di Gianluca, di Giorgio, di Mario, di Madonnina e perfino di Alessandro, che passa le giornate immobile a guardare un punto fisso sul muro difronte al proprio letto. Più di tutto, però, Mencarelli ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio che è il nostro. Perché in ognuno di noi abitano fantasmi di cui non riusciamo a liberarci e paure che disturbano le nostre notti.

– Non sto dicendo che non esista la malattia mentale, ci mancherebbe, ho conosciuto squilibrati da mettere i brividi, gente che godeva del dolore altrui. Ma oggi non si cura più solamente la malattia mentale, oggi è l’enormità della vita a dare fastidio, il miracolo dell’unicità dell’individuo, mentre la scienza vorrebbe contenere, catalogare. Ormai tutto è malattia, ma vi siete mai chiesti perché?

Mario ci domanda con gli occhi, nessuno risponde.

– Perché un uomo che s’interroga sulla vita non è più un uomo produttivo, magari inizia a sospettare che l’ultimo paio di scarpe alla moda che tanto desidera non gli toglierà quel malessere, quell’insoddisfazione che lo scava da dentro. Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi.

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