Come una famiglia Giovanna Martiniello Tropismi

Come una famiglia

di Giovanna Martiniello

Quando apro la porta, li vedo. Sono a letto insieme e no, non stanno scopando. Peggio. Sono sotto le coperte e guardano la tv. La luce è spenta. A rischiarare la stanza sono i fotogrammi intermittenti dello schermo e l’abat-jour sul comodino. Giulia indossa il suo pigiama a righe panna e azzurre. Come tutte le sere, ha i capelli tirati indietro dalla fascia, per non ungerli con la crema idratante. Davide ha una gamba che gli penzola, nuda, fuori dal letto. Indosserà uno degli esemplari della sua collezione di camicie da notte maschili. Prima di conoscerlo non sapevo nemmeno che esistessero, le camicie da notte da uomo. Si vede che al nord vanno di moda. Stringe tra le braccia la borsa dell’acqua calda di Giulia, quella di gomma, che in alcuni punti è diventata più chiara. Dovrà decidersi a buttarla via, prima che si buchi. Non reggo. [Come hai potuto farmi questo?]. Dico solo buonanotte. Loro rispondono in coro – in coro! – buonanotte. Esco chiudendo la porta.

Davide l’ho portato in casa io. Da circa sei mesi vado a studiare quasi ogni giorno alla Biblioteca Nazionale. Mi sembra che essere circondata da altre persone che si concentrano sui loro libri, in silenzio, mi aiuti a essere più focalizzata. Mi piacciono i soffitti alti e le sale ariose di Palazzo Reale. Mi rassicura ritrovare, giorno dopo giorno, gli stessi nasi ficcati nei libri. Davide è uno degli habitué. Scegliamo sempre la stessa sala lettura e abbiamo iniziato a salutarci. Non avevamo mai scambiato due parole, fino al giorno in cui l’ho visto sfogliare Bric à Brac e cerchiare con la penna rossa gli annunci di stanze in affitto. «Stai cercando casa?», gli chiedo senza pensarci troppo. Lui mi guarda con quell’espressione da snob, del genere guai-a-te-se-mi-rivolgi-la-parola, che sfoggia tutti i santi giorni. «In casa mia si è liberata una stanza», mi affretto ad aggiungere.

Ci presentiamo, mi dice che è di Milano – San Donato Milanese, per l’esattezza -, che sta studiando veterinaria, che deve lasciare la casa in cui si trova. Mi ringrazia per l’offerta ma preferisce non condividere un appartamento con ragazze. Si creerebbero situazioni promiscue e poi lui non ha voglia di sorbirsi le paturnie femminili. «Ok, io ti lascio il numero, se per caso cambi idea.». Poi gli scrivo su un biglietto il recapito telefonico dell’appartamento di piazzetta Sedil Capuano, al secondo piano, sopra Giggino il bombolaio. Quando si trasferisce, la prima sera Davide deve condividere la doppia con Mariangela, che in una staffetta quasi perfetta gli avrebbe lasciato la stanza il giorno dopo. Quella notte scopano e, a sentir lei, è un’esperienza deludente.

Torno in camera mia e la testa mi scoppia. [Come hai potuto farmi questo?] Provo a mettermi a letto, mi rigiro. [Come hai potuto farmi questo?] Accendo la luce e fisso la crepa sulla parete, rimasta a imperitura memoria del terremoto dell’Ottanta. Carlo, che abita al quarto piano e studia ingegneria, mi ha detto che non è un danno strutturale, posso dormire sonni tranquilli. Forse è per questo che morire si dice anche crepare. A un certo punto ti si apre da qualche parte uno sbrego, ma tu quasi non ci fai caso. Ti dici che è solo una lesione senza importanza. E invece lei si espande, rendendoti sempre più sgarrupata, fino a quando crolla tutto. E diventi un cumulo di macerie, fluidi corporei e ricordi incustoditi.

[Come hai potuto farmi questo?] La mia mente ripercorre gli ultimi giorni in cerca di indizi. C’erano stati segnali che non avevo colto? Davide è con noi già da qualche mese. Quando si è trasferito, ho scommesso che si sarebbe fatto ammaliare dal fascino di Elisa, una venere tascabile e senza tette, che piace un casino agli uomini, chissà perché. Ma cosa ne voglio sapere io, che a ventiquattro anni ho l’imene ancora integro. Da Davide mi sarei fatta sverginare, però. Siamo molto uniti, o così mi sembra. Ogni tanto mi dà un passaggio in biblioteca con la moto e lascia a me il suo casco. Giulia diceva che non si spiegava cosa ci trovassi in lui. Insomma, un milanese con la puzza sotto il naso, che non è manco tutta ‘sta bellezza. Davide mi tratta bene. Mi chiede cosa penso delle cose, mi fa sentire importante. Negli ultimi tempi, con Elisa sempre in giro a cantare nei locali col suo nuovo fidanzato, noi tre passiamo molto tempo insieme. Una volta a settimana facciamo una spedizione fino al Borgo per comprare le verdure dai contadini e Davide si carica le buste più pesanti. Quando Giulia ha una consegna, ci mettiamo a studiare tutti e tre fino a notte fonda. La mattina, chi si alza per primo prepara il caffè anche per gli altri. Le volte che vado dai miei e torno carica di leccornie, imbandiamo la tavola, compriamo il vino, facciamo festa brindando alla salute di mia madre, che ci ha fatto dono dei suoi manicaretti. Elisa se ne frega di partecipare ai nostri riti. Anche quando è in casa e la invitiamo a cenare con noi, storce il naso, perché è sempre a dieta, agguanta uno yogurt light e sparisce risucchiata dal buio perenne della sua stanza. Noi la chiamiamo “la star”: le rare volte che si trova nelle zone comuni della casa, fa allusioni grandiose ai suoi concerti negli scantinati lugubri e maleodoranti di via Sedile di Porto, oppure passa il tempo a parlar male di qualcuno. Io, Giulia e Davide ormai la conosciamo e aspettiamo che faccia la sua breve e insignificante apparizione mentre continuiamo a chiacchierare delle nostre cose. Prepariamo la cena a turno, poi andiamo in camera di Giulia a guardare la tv oppure giochiamo a Trivial Pursuit. Quella sera era stata una sera come tante. Dopo aver guardato una puntata di Six Feet Under, io e Davide abbiamo salutato Giulia e poi ci siamo rintanati ognuno nella propria camera. Dopo una mezz’ora ho sentito un rumore strano che proveniva dalla stanza di Giulia, come una risata sommessa. E sono andata a bussare.

Giulia è fantastica. Cioè, da quando la conosco è il mio modello femminile di riferimento. È divertente, colta, profonda. Sa sempre cosa dire, in qualunque circostanza. E poi è bellissima, nonostante il nasone, con il suo corpo che sembra un giunco, la pelle diafana e lo stile alla Audrey Hepburn. Io non potrei mai competere con lei. Quando sono arrivata in questa casa, mi sentivo molto smarrita. Venivo da un paesino di provincia e Napoli mi sembrava un mostro caotico pieno di tentacoli. Uscivo pochissimo, solo se non potevo farne a meno. Il resto del tempo lo passavo barricata nella mia stanza spoglia e impersonale. Dopo che avevo trascorso qualche settimana in una clausura volontaria, Giulia è venuta a bussarmi e io l’ho lasciata entrare. Ha iniziato a leggere i titoli dei libri che avevo portato con me per sentirmi meno sola. Mi ha raccontato di quanto anche a lei piacessero i romanzi di Tondelli e i film di Buñuel. Siamo diventate subito inseparabili. Giulia mi dava ospitalità in camera sua. Mi piaceva aiutarla con i plastici e osservarla mentre rifiniva a china le planimetrie. Quando ero triste, Giulia mi preparava la sua mozzarella in carrozza, che era una bomba. Oppure mi portava a mangiare la pizza da Ernestina Sorbillo, in via dei Tribunali, con i tavoli di marmo e il forno a legna che ci costringeva a una sauna che ci faceva diventare tutte rosse. Ridevamo in modo bonario di Elisa, che cambiava fidanzato con una frequenza tale che non facevamo in tempo a impararne i nomi. Giulia mi ha fatto bere il mio primo bicchiere di Porto, mi ha fatto conoscere la Chiesa di San Giorgio Maggiore a Forcella, mi ha insegnato che gli uomini bisogna tenerli un po’ sulle spine, sennò credono di avere campo facile e poi non ti cagano manco di striscio.

Dopo la notte insonne, passata con la luce accesa a fissare la crepa, mi alzo alle sei, mi preparo, e alle sette sono già fuori di casa. Non ho voglia di vedere i piccioncini, non ce la posso fare. Prendo via dei Tribunali [come hai potuto farmi questo?]. I negozi sono ancora chiusi ma c’è già movimento in questa città che non si ferma mai. In piazza Bellini tiro dritto verso Port’Alba [come hai potuto farmi questo?] e i piedi vanno da soli, sanno la strada. Quando sono in via Roma [come hai potuto farmi questo?] ho un momento di lucidità: Davide potrebbe andare in biblioteca. Disinnesco il pilota automatico dei miei piedi [come hai potuto farmi questo?] e devio verso Spaccanapoli. Davanti alla chiesa del Gesù  [come hai potuto farmi questo?] decido al volo di andare in facoltà. Trovo una cabina in piazza Miraglia, nei pressi del conservatorio, e telefono a Rosaria.

– Che grande zoccola.

– Ma secondo te perché non me l’ha detto?

– E che ti doveva dire? “Senti Tizià, da granda zoccola quale sono mi voglio trombare il milanese, perché io faccio il cazzo che mi pare e non guardo in faccia a nessuno”.

– Lei non è così. [Come hai potuto farmi questo?]

– Ma la vuoi smettere di giustificarla sempre? Si è comportata come quella granda cessa che è e tu ancora che la difendi!

– E ora che faccio?

– E che vuoi fare? Torni a casa e l’affronti, chella figlia ‘e bucchina. Il milanese nun ‘o penzà proprio ma con lei ti devi chiarire.

– Secondo me lei gliel’ha detto che mi piace. [Come hai potuto farmi questo?]

– Non ne sono sicura. Quella è furba. Non so se avrebbe ammesso col suo nuovo amichetto di essere una stronza. Perché solo una stronza aprirebbe le gambe con il ragazzo che piace alla sua amica.

– Non so se ce la faccio a tornare là e a fare come se niente fosse. [Come hai potuto farmi questo?]

Quando rientro, sono passate le cinque e la casa è tranquilla. Busso alla stessa porta della sera prima. Avanti! Giulia è da sola. Mi siedo sul letto, restiamo in silenzio per un po’.

– Non sapevo come dirtelo.

[E quindi ho dovuto scoprirlo così. Bella amica!]

– Avresti dovuto dirmelo [stronza].

– Lo so. Ti chiedo scusa.

[Sai dove te le devi ficcare le scuse?]

– Non sono così fragile. E poi non mi sembra di essere una con cui non si può parlare.

– Hai ragione. Non dovevi scoprirlo così.

[La ragione è dei fessi e tu sei una stronza. Come hai potuto farmi questo?]

– Gliel’hai detto? Che mi piace, dico.

[Come hai potuto farmi questo?]

– No, non gli ho detto niente.

[Sì, ti credo proprio!]

– Ma da quanto tempo…? Come…? Cioè, io non mi sono accorta di niente.

[Perché sono una povera idiota]

– Non lo so. È successo.

[Perdere un guanto è una cosa che succede, scopare col ragazzo che piace alla tua migliore amica è una scelta. Come hai potuto farmi questo?]

– Giulia, non me ne frega niente di Davide, per me l’importante è la nostra amicizia. Non voglio che vada a puttane.

[Non posso perderti. Come faccio a vivere in questa città, in questo mondo senza di te?]

– Anche per me. Se sei arrabbiata, lo capisco ma tu sei più importante di tutto, lo sai.

[Quello che so è che sei l’unica cosa che ho. E mo’ m’attacco]

– Promettimi che non lo farai più. Che se ci sarà qualcosa, qualsiasi cosa, me ne parlerai.

[Puoi promettermi di non essere più stronza? Puoi farlo? Eh?]

– Te lo prometto. Quindi…è tutto a posto?

[E niente in ordine]

Ci abbracciamo. Forte.

[Come. Hai. Potuto. Fare. Questo. A. Me?]

Siamo andati a vedere l’appartamento in gran segreto. Elisa non deve sapere niente, almeno fino a quando non firmeremo il contratto. Giulia e Davide dicono che è meglio così, che se poi si conclude con un nulla di fatto evitiamo di agitare le acque inutilmente. L’appartamento è carino. È al quarto piano, c’è l’ascensore e ha un terrazzo enorme. Giulia ha saputo che lo affittavano dal suo collega Massimiliano, che abita nell’appartamento a fianco. Il palazzo è di proprietà di un barone decaduto che, per non avere grane con gli inquilini, affitta solo a studenti. Se andiamo a stare lì, cambieremo quartiere, da Forcella alla Sanità. Non che cambi molto.

Ci scegliamo le stanze. Giulia prende la più grande, per via del tecnigrafo, e anche perché sarà lei a intestarsi il contratto. Davide tiene per sé la stanza più piccola. Ora che si è laureato, tornerà a Milano e, almeno per il primo periodo, farà avanti e indietro. Non capisco perché non abbiano scelto di condividere la stanza, visto che ormai stanno insieme da un annetto. Forse tira una brutta aria. Devo parlare con Giulia, appena siamo un attimo tranquille. Le altre due stanze hanno più o meno la stessa dimensione. Io scelgo quella di fronte alla porta di ingresso, tra il cucinino e la stanza di Giulia. Per la camera sfitta, abbiamo sparso la voce ma è sicuro che troveremo subito qualcuno: la casa è bella e il prezzo è ottimo. Mi metto al centro della mia nuova stanza, che è ancora vuota. Davide entra con me e la osserviamo insieme, in silenzio.

«Tiziana, ti sei scelta una stanza con una crepa». E indica una linea diagonale e frastagliata, che si vede appena sulla parete, nascosta dalla carta da parati bianca. 

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