Senza rinunciare al vero dietro a “Eredità” di Vigdis Hjorth

Eredità è «la più grande storia letteraria scandinava degli ultimi vent’anni» secondo il The New Yorker. L’autrice norvegese Vigdis Hjorth riesce a tracciare una vita tormentata da problemi a seguito di un’esperienza personale traumatica, il benevolo amour de soi della protagonista subisce i peggiori mali dalle figure familiari da cui avrebbe dovuto ricevere affetto e stabilità. La prosa ritmica e ripetitiva rotola sulle pagine, i ricordi acquistano un flow poetico, portando con sé pensieri generati dall’intelletto e dall’emozione, lasciando dietro di sé detriti di devastazione e disperazione di un passato con cui la protagonista ha deciso di troncare.

La copertina del libro nella traduzione italiana

Il libro, uscito il 21 maggio in Italia per Fazi Editore, pubblicato in Norvegia nel 2016, è stato tradotto da Margherita Podestà Heir, una delle più importanti traduttrici italiane di autori scandinavi. Hjorth ha venduto 150.000 copie in norvegese, ricevendo molte ottime recensione dalla critica e vincendo il Norwegian Critics Prize per la letteratura e il Norwegian Booksellers’ Prize, oltre ad essere stata nominata per il Premio letterario del Consiglio Nordico (Nordic Council Literature Prize).

«Mio padre è mancato cinque mesi fa, in un momento che potrebbe definirsi più o meno opportuno a seconda dei punti di vista. Personalmente ritengo che non avrebbe avuto nulla in contrario a morire proprio in quell’istante e in maniera tanto improvvisa, avevo  pensato addirittura che si fosse procurato da solo la caduta, quando sono venuta a saperlo, prima di conoscere i dettagli. Assomigliava troppo a quello che si legge nei romanzi per poter essere qualcosa di casuale».

Così si apre il romanzo, con i pensieri della protagonista, Bergljot, una donna sulla cinquantina, redattrice di una rivista a Oslo. Era venuta a conoscenza dell’evento in modo strano, da una telefonata della sorella Astrid «un sabato mattina che pregustavo da tempo, perché non dovevo far altro che preparare un intervento che avrei tenuto a Fredrikstad, quella sera stessa, a un seminario sul teatro contemporaneo. Era una bella mattinata di fine novembre, tersa, fuori c’era il sole, sarebbe sembrata quasi primavera se non avessi saputo che non era così, se non fosse stato per gli alberi spogli che tendevano i loro rami divaricati verso il cielo, per il terreno rosso di foglie. Ero contenta, mi ero preparata il caffè, ero felice all’idea di recarmi a Fredrikstad, vagabondare per la città vecchia dopo l’evento, passeggiare sulle fortificazioni e guardare il fiume in compagnia del cane che avrei portato con me. Ero entrata nella doccia e, quando ne ero uscita, avevo visto che Astrid mi aveva telefonato più volte. Doveva trattarsi della raccolta di articoli che la stavo aiutando a redigere».

Al momento di leggere il testamento e trattare di eredità fra i quattro figli, Bård e Bergljot, il fratello e la sorella maggiori, vengono tagliati fuori. Se Bård vive questo gesto come un’ultima ingiustizia, Bergljot aveva già messo una croce sull’idea di una possibile eredità, avendo troncato i rapporti con la famiglia dopo un breve periodo in cui si era sforzata di mantenere un minimo di contatti. Bård e Bergljot non hanno avuto la stessa infanzia delle loro sorelle minori, condividendo il più doloroso dei segreti. Il confronto sulla divisione di un’eredità di famiglia diventa l’occasione per raccontare la storia dei membri di una famiglia che per anni hanno preferito il silenzio alla denuncia di un dramma familiare. Un romanzo denso, di colpe e silenzi, di cosa vuol dire non essere creduti e ascoltati, di verità rimosse e dolorose ma che vanno dette, testimoniate e gridate, per il proprio sé e per il mondo, ma soprattutto per voltare pagina.

Le Lofoten Islands in Norvegia, dove si ambienta il libro. Photo credit: Anton Petrus/Getty Images

Bergljot subisce un abuso dal padre da bambina, una verità che né i suoi genitori né le sue sorelle più piccole hanno mai accettato o per la quale hanno provato a chiedere ammenda. Il trauma in Bergljot riemerge da ventenne. La sua famiglia si rifiuta categoricamente di ascoltarla, ad eccezione del fratello Bård che ha le sue ragioni per credere alle accuse di abuso di Bergljot da parte del padre. Hjorth rivela strati su strati di conflitto, delusione familiare, recupero del trauma in una serie di brevi narrazioni non lineari, dettagli sovrapposti e informazioni ripetitive che espongono bugie, recriminazioni e intricate interconnessioni di una famiglia gravemente disfunzionale. Questo intenzionale effetto di distanziamento è un trofeo che l’autrice usa con grande efficacia nei suoi romanzi. Nessuno crede alle accuse contro suo padre, a cominciare dalla madre di Bergljot, una madre bella, inesperta, angosciata e ingenua che non aveva studiato, non aveva soldi, di proprietà del marito. Nel giorno del funerale del padre Bergljot sente dentro di sé oscurità:

«Era un’oscurità che non arrivava dall’alto, dal cielo, ma dal basso, che si levava dalla terra fredda dove i morti marcivano soli, avvolti dalle tenebre, un’oscurità che fluiva dai rami neri e rigidi degli alberi gelati e tremanti di freddo, dai cespugli piccoli e brutti, un’oscurità satura di coltelli, un’oscurità che recideva corpo e anima, un’oscurità che non lasciava ferite visibili, ma cicatrici ruvide e rugose, noduli che impedivano al sangue, alla linfa e ai pensieri di scorrere, quell’oscurità procedeva a singhiozzo, si fermava e si accumulava in grovigli rigidi e insolubili».

Dopo la morte di suo padre, che in vita aveva costretto i suoi familiari a rinnegarla, e l’emergere di una nuova volontà, Bergljot è nuovamente costretta ad affrontare i fatti inquietanti delle sue esperienze infantili, la spaccatura in corso nella famiglia apre un nuovo abisso, forse un nuovo ostacolo insormontabile. La fenditura è ovvia quando diventa chiaro che non ci sarà né un’equa distribuzione dell’eredità ai quattro fratelli né una redenzione.

Alla lettura della volontà di suo padre, Bergljot fornisce il proprio di testamento, perché vuole che la sua storia esista, con un confronto sui dettagli grafici dell’abuso infantile con sua madre che «Non era in grado di rendersi conto e di accettare che quella famiglia, che lei aveva contribuito a creare, non era così, normale, ma anormale, distrutta».

Non c’è spazio per il perdono, Bergljot non è in grado di perdonare fin dall’inizio, quando decide di allontanarsi:

«Non sono trattative di pace, ma una lotta all’ultimo sangue per difendere l’onore e la reputazione. Dovevo smetterla di credere che mia madre mi avrebbe capito. Dovevo smettere di credere che mia madre mi avrebbe accolta. Non avrei ricevuto nulla dai miei genitori, senza rinunciare alla mia verità. Mio padre e mia madre avrebbero preferito vedermi morta che venirmi incontro, mi avrebbero immolato in nome del loro onore. Questa è guerra, ripeté, e io dovevo diventare una guerriera».

I personaggi si aggrappano alla propria “questa è la verità“, ma è chiaro che ognuno intenda “la verità per me“. Non si lascia spazio per spingere al cambiamento chi non cambierà forse mai, chi è destinato a comprendere gli altri con la stessa profondità con la quale comprende sé stesso. Nel romanzo sia filosofia che psicoanalisi si intrecciano nella narrazione:

«Non si diventa buoni quando si soffre. Di norma, quando si soffre, si diventa cattivi. La discussione su chi abbia sofferto di più è puerile».

Vigdis Hjorth condivide con la narratrice Bergljot molti elementi della stessa autobiografia, innescando una controversia in corso in Norvegia sulla finzione della realtà e l’etica dell’uso dei dettagli della storia familiare nei romanzi. Il The Guardian lo ha definito «Un romanzo che può essere apprezzato come alta letteratura così come bieco strumento di vendetta. I tabloid lo hanno amato quanto le testate più autorevoli, ed è diventato il bestseller dell’anno».

La scrittrice Vigdis Hjorth

Per Hjorth ogni famiglia ha una sorta di storia ufficiale, con tradizioni e storie che si tramandano. Se un membro non dovesse condividere questa bella storia ufficiale, emergerebbe una grande tensione. L’autrice ha voluto dare voce a un personaggio che ha una storia più complessa e che non è disposta a far parte di una famiglia che non la ascolta. Il libro stesso ha avuto una storia editoriale a sé stante, nel 2016 quando venne pubblicato, la famiglia di Hjorth dichiarò che il romanzo era troppo vicino alla vita reale e che i componenti ne erano stati ingiustamente rappresentati. Con tutta l’attenzione dei media, una delle sorelle di Hjorth, scrisse un suo proprio libro, una revenge novel, in cui la famiglia è dipinta sotto tutt’altra immagine, comparendo su vari giornali e contattando avvocati contro la casa editrice di Vigdis Hjorth con l’accusa di aver usato modelli viventi, persone viventi e non dipingerne una bella foto. Da faida familiare la questione è diventata una polemica culturale che ha scosso la Norvegia sulla possibile conciliazione tra privacy e necessità letteraria di scrivere su spunti autobiografici.

Altro dettaglio rispetto alla pubblicazione, con l’insorgere del movimento #MeToo ci sono state molte più discussioni sulle narrazioni di abusi sessuali. L’autrice ha più volte ribadito che il libro più che sugli abusi sessuali, riguarda il non essere ascoltati. Questa è la lotta di Bergljot, essere qualcuno che non è stato ascoltato.

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