Oro grigio

di Alessia Siciliano

Una delle cose che mi hanno colpito di più è il fatto che le persone abbiano iniziato a fare scorte di lievito, a un certo punto. Come in tempo di guerra. All’inizio la cosa non mi ha preoccupata: è un prodotto che non compare mai nella mia lista della spesa. La pizza la ordino sempre in pizzeria. Se non posso farlo, esiste l’impasto già pronto, comodo e veloce, di mille marche diverse. Dopo un po’ di giorni, però, anche quello è sparito. Il Piemonte è diventato zona rossa. Ordinare in pizzeria non è stato più possibile.
Qualche tempo fa ho iniziato la ricerca spasmodica del lievito anch’io. Non so perché. Forse con tanto tempo a disposizione, tutte le challenge e le foto sui social, e persino mio nipote di sette anni che, racconta mio fratello, prepara dolci, ho iniziato a provare lo stesso desiderio: una pizza, una pizza realizzata da me. Ora o mai più: a quarantena finita, i miei ritmi lavorativi non me lo permetteranno. Nonostante le promesse che mi sto facendo ora a proposito della moderazione, della gestione del tempo, è probabile che non saprò mantenerle. Non potrò.

Ho iniziato a chiedere al mio compagno, quindi, unico delegato a uscire di casa per la spesa, di cercare il lievito. È stato un periodo duro: ogni volta che tornava dalla ricognizione quindicinale al supermercato, alla domanda hai trovato il lievito? la sua risposta era sempre una grassa risata. Poi un giorno è successo. Armato di mascherina, guanti, sciarpa e gel igienizzante, è uscito e, al rientro, la prima cosa che mi ha detto è stata: “È l’ultima confezione di lievito, mezzo chilo, siamo a posto!” Mi ha raccontato che improvvisamente la voce in filodiffusione nel supermercato, tra un Mantenete le distanze di sicurezza e Indossate i guanti prima di toccare frutta e verdura, ha avvisato che il lievito era di nuovo disponibile nel banco frigo. Stupito del fatto che ci tenessi tanto ad averlo, ma determinatissimo a evitarmi la delusione, aveva fatto uno slalom tra tutti gli altri uomini/mariti/compagni che si contendevano lo stesso trofeo per donne/mogli/compagne disperate a casa ed era riuscito ad afferrarne una confezione. La scena me la sono immaginata un po’ come la Battaglia dei Bastardi in Game of Thrones.

Esattamente come un novello, fortunato Jon Snow, quando è tornato a casa mi ha detto qualcosa che suonava come: “I know everything, my Khaleesi: per far risorgere tutti i draghi che vorrai, ecco il tuo tanto agognato oro grigio”.

È che a casa nostra ogni venerdì c’è un rito: si mangia la pizza e si guarda Propaganda Live. In tempi di pace si arriva a casa alle sette e mezzo di sera quando va bene, devastati dall’ennesima giornata di lavoro; mentre ci si butta sotto la doccia, si ordina la pizza che arriva già pronta per essere gustata davanti alla tv. Niente piatti da lavare, nessuno sforzo: la giusta ricompensa dopo una settimana in ufficio.

Ma nella mia famiglia la pizza del venerdì è un rito molto più antico. Già quando eravamo bambini io e mio fratello avevamo questa certezza: ogni venerdì, qualunque fosse l’umore, il grado di stanchezza o la voglia, mia madre faceva la pizza. Naturalmente in una famiglia del sud, negli anni Ottanta, la pizza non si ordinava. Si preparava in casa. Mia madre la impastava nel pomeriggio e poi a una certa ora ci chiamava e noi dovevamo darle una mano. Io ero addetta al taglio del caciocavallo: avevamo un vecchio tritacarne di plastica rossa che veniva utilizzato a questo scopo. La cosa meravigliosa era che introducendo le fettine di formaggio e girando la manovella, ne venivano fuori dei vermetti di pasta di caciocavallo che si scioglievano a perfezione. Quando si ruppe, ricordo, fu un piccolo dramma: era un oggetto talmente vintage che era impossibile da sostituire. Da allora ho iniziato a sminuzzare il caciocavallo con il coltello, ma la resa non è la stessa.

Soltanto una volta ho saltato la pizza del venerdì sera. Avevo dieci anni. Stavo male da giorni. Avevo uno strano dolore di pancia e siccome ero piegata in due dalle fitte il medico si rese conto che stava per scoppiarmi l’appendice. Dovevo essere operata. Mi portarono in clinica. Ricordo che non si trovava un anestesista e quindi dovetti aspettare molte ore. Quel dolore lancinante non lo dimenticherò mai. Forse è questo uno dei motivi per i quali ho deciso che affrontare i dolori del parto non sarebbe stata cosa da me.

Fui operata al mattino e mi dissero che sarei dovuta restare la notte. Mia madre mi tranquillizzò dicendomi che non mi avrebbe lasciata da sola. Mio padre e mio fratello avevano passato più o meno l’intera giornata ad attendere il mio risveglio, ma intorno alle sei del pomeriggio un’infermiera era venuta a dire che i visitatori dovevano uscire. Mio fratello si lagnava che, dato che mia madre non sarebbe tornata a casa, quella sera non ci sarebbe stata la pizza. Così mio padre, che era un tipo dalla battuta pronta, disse che non era un problema. La pizza l’avrebbe fatta lui. Mia madre rideva, ma lui tranquillizzò mio fratello dicendogli che in gioventù aveva fatto il pizzaiolo: una volta, mentì, aveva persino vinto il premio per la miglior pizza di Cosenza. Nonostante il dolore per la ferita, risi parecchio anch’io. Mio fratello era raggiante perché avrebbe mangiato la premiatissima pizza di papà. Mentre uscivano, ricordo di averli guardati provando una fitta che non c’entrava nulla con l’appendicite.

Fu quella una delle prime notti in cui ho sperimentato la doppia nostalgia.

Certo, ero felicissima di avere mia madre con me: dormire fuori ma al sicuro, con lei che si prendeva cura di me, in attesa dei prevedibili doni per essere stata così forte e coraggiosa. Mi pareva un’avventura. Un privilegio sebbene non fossi nella mia stanzetta, di cui sentivo la mancanza. Ma c’era qualcos’altro. Pensavo alla cucina di casa, pensavo a mio padre che si destreggiava a fare la pizza, pensavo ai suoi borbottii diretti a mia nonna, che allora viveva con noi e che sicuramente avrebbe cercato di dargli dei consigli sulla preparazione dell’impasto. Me lo stavo perdendo. Pensavo alla luce che ci sarebbe stata in quel momento, al profumo degli ingredienti e a mio fratello che, al posto mio, tagliava il caciocavallo e lo trasformava in vermetti — il tritacarne ancora funzionava, all’epoca. Quella notte non riuscii a dormire bene, non solo per il dolore dei punti.

Ieri sera ho fatto la pizza: ho chiesto la ricetta a mia madre, seguito le istruzioni e impastato l’oro grigio con acqua, farina e sale. Mentre la preparavo ho realizzato che stavo facendo per la prima volta un gesto che è allo stesso tempo di famiglia e di altri. Per la prima volta le mani in pasta, letteralmente, erano le mie e non quelle di mia madre — né quelle di mio padre, che non ho mai visto all’opera e non ho potuto vedere mai.

Eccola, la doppia nostalgia: a casa mia, a Torino, al sicuro, davanti a un impasto riuscito. E contemporaneamente a Cosenza, a casa di mia madre, con la luce che è la luce della cucina quando lei è lì dentro e le sue mani che impastano gli stessi ingredienti. Di nuovo me lo sto perdendo, ho pensato. Di nuovo mi chiedo quand’è che potrò tornare a tagliare il caciocavallo in pezzettini piccoli piccoli, perché così si squaglia meglio, e a metterlo sull’impasto giusto, quello fatto da lei.

La mia prima pizza, comunque, è venuta buona. Non ai livelli di quella di mia madre, naturalmente: ma buona. E ho ancora una buona scorta di lievito. Mi sono messa a cercare online un tritacarne di plastica rossa che sappia produrre vermetti di formaggio: vorrei regalarlo a mia madre e portarglielo non appena potrò tornare in Calabria. Ma è un regalo da doppia nostalgia, e quelli non sono così facili da trovare.

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