Monica Acito Luigi Germogli

Luigi

di Monica Acito

Luigi salì in macchina, erano le quattro del mattino.
Era appena emerso da un sogno in cui suo padre lo picchiava con la cinghia, e si era svegliato sentendo il morso di quello stesso laccio antico che gli aveva lasciato una striscia viola sulla schiena quando aveva nove anni. .
Quella mattina si buttò un po’ d’acqua in faccia, prese la roba da mangiare che sua moglie Felicia gli aveva lasciato sul tavolo e partì.
Si lasciò alle spalle la strada di quella campagna di un Cilento che sapeva di provincia e entroterra, dove la quotidianità era crocifissa col filo spinato.
La campagna lunare gli si aprì a ventaglio di fronte, e si lasciò alle spalle il suo casolare: abitava lì da quando s’era sposato, e al piano di sopra c’era Nilde, la madre di Felicia.
Luigi era diventato l’unico uomo di quel casolare da quando suo suocero era morto.
Tra una cosa e l’altra, di solito Luigi arrivava sul luogo di lavoro alle cinque del mattino, e non aveva mai un posto fisso dove andare: a volte andava a raccogliere castagne, lavorava negli orti, potava le viti o curava gli ulivi.
“Ti devi riposare un po’, Luì! Non puoi fare sempre il ciuccio!”, gli diceva spesso Felicia.
Ma come i ciucci, Luigi aveva il dorso elastico, la pelle dura e gli occhi bassi e calmi di chi incassa, incassa per una vita intera e non pretende nulla.
Era ancora lo stesso bambino di nove anni che per la vergogna della cinghia sulla schiena si era pisciato addosso davanti a suo padre; non era un tipo di molte parole, aveva il silenzio di certi pesci che giacciono sul fondo del mare; per lui parlavano le sue mani come edere rampicanti, mani callose e fatte di sale che si inerpicavano sulla vegetazione, sugli attrezzi di campagna e sullo sterzo del trattore, quelle mani che avevano il palmo tratteggiato di foglie e linee che ricordavano i cerchi degli alberi.
Arrivava alle cinque al lavoro, faceva ‘a jurnata insieme ai suoi compagni, e a ora di pranzo si sedevano a consumare la roba che s’erano portati da casa.
 Era stato molto bello da giovane, ma la gioventù gli aveva lasciato in eredità soltanto la rudezza e la spontaneità primordiale con cui si approcciava alla campagna, nonché uno sbuffo di giallo negli occhi marroni da mulo quasi cinquantenne.
Si avvicinava alla campagna con lo stesso ardore con cui s’era avvicinato tanti anni prima a Felicia durante la loro prima notte di nozze, e ogni suo passo tra le tamerici e i crochi selvatici aveva la sacralità di un amplesso: rude, quando strappava la vegetazione con la falce o quando faceva stridere il motosega, lento e amorevole quando raccoglieva i fichi d’india.
Di sentimenti complessi non ne era capace, s’era inselvatichito con gli anni, diventando un prolungamento ritmico della campagna, un braccio pensante.
Carmine, suo cognato, spesso parlava di politica paesana e Luigi annuiva senza capirci molto, e fissava il suo pane e salame: affondava il bianco degli occhi nel bianco delle macchioline di grasso dell’insaccato, che come buchi neri lo trascinavano in un fondo di vergogna. 
Luigi aveva sempre fame, la bestia che gli si sprigionava dal ventre lo manovrava del tutto: lui non parlava mai, la tavola era il suo santuario e quei piatti strabordanti di pasta e carne erano il pane e il vino sulla mensa di Cristo.
Immerso nel suo appetito ancestrale, diveniva d’un tratto sordo ai rumori circostanti e s’immergeva nell’ebbrezza della masticazione, della deglutizione velocissima e del respiro corto.       
“Ma prendi fiato ogni tanto!”
Sua moglie lo incalzava, impressionata dall’appetito di quell’uomo che sembrava rosicchiare l’ombelico della terra.
Lei, Felicia, aveva gli occhi grigi, come certe donne del ramo della sua famiglia paterna. Somigliava a una gatta selvatica, non aveva il grigio solo negli occhi, ma ce l’aveva spalmato su tutto il corpo: aveva la pelle color cenere e madreperla, e portava sempre con sé una scia di fumo tra le stanze e l’orto.
Usciva pochissimo, a stento si recava in chiesa la domenica.
Amava sedersi di pomeriggio al fresco della sua stanza, sul lettone matrimoniale, e si metteva a sgranare la sua collana di perle come se fosse un rosario o una moltitudine di piselli acerbi: sognava di indossarle, così come desiderava mani che la toccassero con la stessa delicatezza di quelle perle che le solleticavano il collo e la peluria sottile della nuca.
Il grigio della perla e il diafano della sua carnagione aderivano come ragnatele al suo corpo, tessendo i suoi lineamenti diversi da tutte le donne che si erano avvicendate nella sua famiglia, era molto diversa da sua sorella Carmela che abitava in paese, che era pragmatica e forte.
Felicia aveva conosciuto la forma del sesso di un uomo la sera della sua prima notte di nozze: mentre lei tremava come le fronde che sfioravano la sua finestra al chiarore della luna, Luigi l’aveva spogliata e aveva baciato quei due nei gemelli che le punteggiavano il fianco destro.
Lei aveva preso a scolorire tra le lenzuola e la seta, e le era sembrato che quei due nei, che l’avevano accompagnata sin da quando era uscita da sua madre, fossero diventati due sanguisughe che le scarnificavano l’inguine.
Luigi era nudo e aveva i peli del petto folti come quegli uomini che lei aveva visto una volta in televisione ed emetteva gli stessi sospiri delle mucche quando il padre di Felicia le picchiava con il bastone.
Ed era stato proprio quel bastone che Felicia aveva sentito d’un tratto invaderla fino all’ultima corda delle viscere, ed era rimasta con gli occhi aperti nel buio mentre cercava invano lo sguardo di quel crocifisso ai piedi del letto: d’un tratto si sentì morire della più dolce delle morti, e immaginò di chiedere a Cristo di liberarla da quel bastone che la stava serrando a colpi continui e dolorosi. Si sentì come il fiume, quando viene aperto dai ciottoli levigati e aguzzi: chiuse gli occhi e immaginò l’acqua.
Si fece acqua e iniziò a fluire e scorrere in quel marasma di rantoli di bestiame, colpi ritmici e lenzuola bagnate.
Aveva avuto appena il tempo di affidare la sua ultima preghiera a quel Cristo perduto, prima di farsi liquida ed esplodere nella più disperata e tenera delle tempeste marine: ancora oggi, Felicia, aveva l’impressione che quei suoi due nei sull’anca trasudassero ancora l’acqua di tante notti fa.
 Amava quel marito che si spaccava le nocche, anche se non era capace di dimostrarglielo.
Felicia aveva la stessa forza di un uccellino, e solo Luigi la faceva sentire al sicuro.
Ultimamente, Luigi aveva spesso mal di schiena e si faceva male quando si chinava per innaffiare le rose. Padroni ne aveva sempre meno, nessuno lo chiamava più come prima, perché ormai aveva cinquant’anni anni.

Era un novembre soleggiato, e quel giorno a pranzo Felicia provò qualcosa di molto vicino alla paura. Luigi aveva mangiato in piedi; non riusciva a sedersi e s’era messo a piangere: le sue lacrime sapevano di guaiti di cane, o lamenti di donna.
Felicia si misea piangere appresso al marito.
“Mamma, ti prego, fai qualcosa! Hai guarito tanta gente!” 
Nilde era famosa per la sua bravura nel togliere il malocchio, ma in quel caso non sapeva cosa fare. Chiese a Carmela, l’altra figlia, di chiamare il dottore.
Uscì fuori che Luigi si doveva operare di ernia al disco: entro qualche giorno sarebbe dovuto andare a Salerno.
Felicia, che già aveva paura di tutto, non venne informata: Nilde e Carmela le dissero che Luigi aveva solo mangiato troppo e s’era preso un brutto mal di stomaco! Inoltre, presto sarebbe tornato a lavoro, le dissero, perché un certo Don Alfredo, un signore della Basilicata, l’aveva chiamato a lavorare nella sua campagna.
Dopo qualche giorno, Luigi venne accompagnato in ospedale a Salerno, da Carmela e dal marito.
Dopo due giorni, Carmela chiamò Nilde.
“Mà, l’operazione di Luigi è andata bene. Già cammina da solo, tra qualche giorno lo dimettono”.
Dopo due giorni Carmela e il marito andarono a prendere Luigi in ospedale.
“Forza Luì, andiamo, che non sappiamo più cosa dire a Felicia, quella tra poco ci muore in mano!”, scherzò Carmela.
Il viaggio fu tranquillo, Luigi parlò poco, ma nessuno ci fece caso.
Arrivati in località “Acqua delle donne”, alle porte del loro paese, Carmela chiese a Luigi di parlarle un po’ dei giorni appena trascorsi, dato che finora non aveva fiatato neppure per sbaglio.
“Luì! Allora? Ne Luì!”
Carmela fece per scuoterlo e toccarlo, e sembrava che Luigi avesse messo le mani in un catino di acqua ghiacciata.           
“Luì?”
Luigi non rispose.
“Luì! Carmine fermati!”
Luigi aveva preso a respirare affannosamente, a bere l’aria a sorsi e a emettere fischi e sibili come un miagolio spezzato, a dire che aveva un peso allo stomaco e che doveva tornare in ospedale. Carmine fece inversione bruscamente, e Carmela scavalcò il sedile e si gettò sul corpo del cognato, lo toccò e sentì il peso dell’acqua fredda e del ghiaccio. Ebbe una paura fredda e appiccicosa, e desiderò che suo marito arrivasse subito in ospedale.
“Luì siamo arrivati, Carmine muoviti! Luì siamo arrivati!”
Erano nei pressi del Santuario della Madonna di Costantinopoli, che stava molto fuori al paese, dove tanti anni prima Luigi aveva sposato Felicia indossando il vestito del padre, quello buono.
Luigi era sommerso dai colpi di coda di quelle onde gelide che lo stavano affogando. Riuscì a chiedere solo “Dove siamo?”
Poi, emise un rantolo, un ultimo sputo di vocali e acqua, prima che lo risacca lo travolgesse.
Svuotò gli occhi e riversò il suo peso d’onda morta su Carmela.
Rimase con la testa sul grembo della cognata e gli occhi aperti che fissavano il santuario di Costantinopoli dal finestrino. Sembravano gli occhi dei pesci sul banco dei pescatori, e anche la pagliuzza di frumento dei suoi occhi marroni era sparita. Era annegato il bambino di nove anni che viveva nella pupilla, mentre guardava impaurito la schiuma nera di quell’onda che gli aveva coperto l’iride.
Luigi fu bambino di nove anni, fu uomo, fu sposo e fu anche suo padre, in quel mezzo secondo fatale.
Poi, d’un tratto, non fu più nulla.     
I funerali si svolsero il giorno dopo, Nilde non ci andò. Carmela e il marito andarono, con ancora il peso morto del cognato addosso. Davanti alla chiesa si formò un capannello di gente, e tutti presero a esporre le proprie teorie su quella morte così strana.
“Eppure l’intervento era andato bene!”
“Vabbè, ma a quell’età gli uomini sono soggetti a problemi al cuore, vedi quel mio collega!”
“Ma gliele hanno fatte le punture? Quelle per l’embolo?”
“L’embolo o l’infarto? Ah povero Luigi. Un ciuccio di fatica per tutta la vita e ora? Si è messo le quattro tavole in faccia. Andava a destra e manca, usciva col buio!”
Mazziato dal padre fin da piccolo! La moglie poi, mezza esaurita e non usciva mai. Povero Luigino!”

Nilde era rimasta con Felicia, che continuava ad avere mal di testa e a stare a letto, senza muoversi se non per andare al bagno .
“Tanto meglio”, pensò la vecchia, a cui nessun sortilegio o malocchio poteva accorrere in aiuto per mascherare il dolore che provava per quell’uomo che era stato per lei come un figlio.
Felicia si svegliò verso sera.
“Ma Luigi allora? Che gli ha detto Don Alfredo? Sono passati tanti giorni”,
Nilde concentrò tutti i suoi sforzi da vecchia per bloccare una vampata di vergogna che le avrebbe sicuramente preso tutte le rughe, e le disse che voleva dirle proprio quello: sì, aveva visto la sorella di Don Alfredo, e le aveva detto che Luigi si stava trovando davvero bene!
“Sicuramente lo prende con lui, però per un periodo si deve stare là, Felì. Non può fare avanti e indietro, il tempo che si assesta e si abitua, dagli tempo!”
“E qua come facciamo?”
Nilde era pronta a cercare una formula, ma non ne seppe rintracciare nemmeno una nell’inventario della memoria. Fece appello a quegli ultimi scampoli di convinzione, la magia forse più difficile da compiere.
“C’è Nicola che ogni tanto viene a dare una mano, il figlio di Gilda che sta al casolare qua, ma guarda che c’è poco da fare, Luigi ha già lasciato tutto pronto, che ti pensi?”
“Ma che deve fare tutto quel tempo da Don Alfredo? Ma dove poi?”
“Lontano, nelle sue campagne; avanti e indietro non può fare, almeno per il periodo iniziale, poi dopo vediamo, Felì”.
Felicia guardò il quadro di Cristo, muta come una conchiglia, e la madre la lasciò da sola.
Come una conchiglia era anche Luigi, ormai, e lei non lo sapeva. Era una conchiglia senza volto né nome, una crisalide senza odore e spessore. Era già stato sigillato in una cassa di silenzio oceanico, da dove non avrebbe più potuto sentire nulla, e le sue grandi mani nodose che erano disegnate coi cerchi degli alberi, erano serrate in un buio umido. Forse era tornato bambino, forse stava correndo verso suo padre per dirgli che non importava, che non faceva nulla, perché Luigi conosceva solo sentimenti puri e semplici che potevano essere espressi senza difficoltà, forse era libero da quel mal di schiena e poteva innaffiare tutte le rose che voleva.
I giorni passavano, Felicia continuava a stare a letto e Nilde, disperata, sentì l’urgenza di addomesticare il dolore di sua figlia con la più potente delle magie: la menzogna.
“Toh, una lettera di Don Alfredo. Lui ha studiato a Napoli quando era giovane, sa scrivere benino, guarda un po’. Luigi non sa tanto scrivere, quindi lo fa Don Alfredo per lui. Ricordi che Luigi sapeva fare solo la firma? Alfredo Dice che Luigi sta bene. Gli vuoi dire qualcosa?”
“Sì, fagli scrivere che le rose stanno appassendo tutte, chiedigli come sta e quanto ci vuole per tornare”.
E fu così che la messinscena iniziò, architettata da Nilde con l’aiuto di Carmela e del marito.
 La vecchia non sapeva più come combattere Carmela e Carmine, che aveva preso molto male l’idea di quelle lettere, ma non c’era altro da fare. Andarono avanti così per settimane.
Luigi, sulla carta, coltivava nuovi terreni, era rinato e stava benissimo.
Sarebbe tornato presto da lei e avrebbe aggiustato anche le sue rose, il gruppo di rose bianche che aveva piantato per Felicia per farla contenta in un periodo in cui lei non parlava.
Le risposte di Felicia erano affidate a Nilde, che le dava a Carmela che si occupava di mandarle a Don Alfredo, e poi scriveva anche la controrisposta, ricacciando indietro lacrime, perché lei aveva visto, sapeva, sapeva tutto e si violentava per partecipare a quella farsa.
Un giorno Felicia si alzò e chiese a Nilde di poter parlare con la sorella di Don Alfredo, che in paese. Nilde dovette seppellire gli ultimi brandelli di dignità dei suoi settant’anni, prostrarsi di fronte a quella signora e chiederle se poteva partecipare a quella finta.
“Per favore, mia figlia non lo deve sapere, non sta bene. Poi vediamo più in là come fare, ma per ora facciamo così”.
E fu così che donna Antonietta, ingioiellata e contrariata, ma piegata dalla pietà per quel morso di donna che a stento si reggeva in piedi, si rese complice di ciò che le era stato chiesto.
Si mise, un pomeriggio, con la sedia vicino al letto di Felicia e le tenne un po’ la mano, parlando in un italiano migliore delle persone del paese.
“Mio fratello è entusiasta di Luigi! Fa tutto, è davvero bravissimo coi lavori in campagna, e in tutti i casolari di Alfredo mancava qualcuno che sapesse occuparsi di tutto così bene, ha proprio la mano esperta, è nato per stare in campagna!”
Felicia ricambiò la stretta di mano, mentre quella sconosciuta le diceva quanto suo marito fosse bravo nel compiere tutte le mansioni di cui i possedimenti di suo fratello avevano bisogno. Anche tutte le altre persone che venivano a trovarla, venivano preparate adeguatamente da Nilde, e tutto ciò assumeva i contorni di una messinscena grottesca.
La notte Felicia dormiva poco e male, il materasso era gonfio e turgido sotto i suoi quaranta chili di tristezza ossuta, non c’era nessun contrappeso che schiacciasse le molle del letto, e Felicia si sentiva orfana del peso del marito.

A inizio dicembre, Felicia prese a svenire molto spesso e a vomitare, ma Nilde e Carmela erano abituate a quella salute da uccellino e ai suoi mancanti.
“Dobbiamo dire a Luigi che non stai bene, Felicia, lo deve sapere”, incalzava Nilde, e subito a marchiare parole bugiarde sulla carta, a spedirle verso il nulla e a ingrossare quella menzogna.
Il giorno dell’ Immacolata Concezione, Felicia rimase tutto il tempo a letto.
Non aveva sonno, nemmeno fame.
Rimase avvolta nelle sue lenzuola candide, e ricordò delle mani nodose che profumavano di foresta, uno sguardo giallo come il frumento, una rosa rossa, il contrappeso di uomo sul letto e un figlio che non era mai arrivato.
Fuori c’era il sole, bisognava aprire un po’ la finestra: l’odore di chiuso era fortissimo.    
Nilde entrò.                                                                                                                         
“ Vediamo se oggi è arrivato qualcosa, vado a vedere, Felì!”
La figlia le sorrise, sembrava una colomba bianca.
Sorrise, quando già Nilde s’era avviata in corridoio e non poteva sentirla, sussurrò:
”Siete stati tutti così bravi con me. Grazie”.
Felicia si coprì un po’ con le lenzuola.
Davanti ai suoi occhi si parò un velo bianco, bianchissimo, come quello del suo abito bianco al Santuario della Madonna di Costantinopoli.
Si annullò nel bianco di quel velo, e rivide in quel bianco l’immagine di lei stessa, bambina, vergine e sposa, che la fissava nel fondo di una rosa bianca.           
Nilde aprì la porta per portare la lettera di Luigi a Felicia.
La finestra era spalancata e i roseti di Luigi erano più odorosi del solito.
Nel bianco delle lenzuola, c’era Felicia, con gli occhi leggermente chiusi, come quelli di una neonata nel suo liquido amniotico.
Nilde si avvicinò, e osservò il viso di Felicia, che forse, ora, felice lo era un po’ di più, e il suo unico pensiero fu quello di andare a chiamare Carmela a casa, per dirle di scrivere immediatamente una lettera a Luigi per dirgli che Felicia l’aveva raggiunto.

Foto in copertina di Monica Acito.

1 comment

  1. Pingback: “LUIGI”, racconto pubblicato sulla rivista letteraria TROPISMI – The Wall

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.