Safir amar Parmigianini Germogli

Una storia che ho sentito

(ovvero il manifesto di Safir Hamar)

di Alessio Parmigiani

Trovarono Safir Hamar appeso al lampadario, con due piedi gonfi come pagnotte, che non era ancora venuto l’autunno e c’erano le mosche a ronzargli addosso. Deve aver dondolato per parecchio, perché gli occhi si erano sciolti per il caldo ed erano colati un po’ qui e un po’ là sulle guance, e dava l’impressione di poter guardare tutta la stanza da lassù. Era così rigido che l’uomo dell’ambulanza, pover’anima, prendendolo per una gamba per tirarlo giù, gliel’aveva staccata e aveva cominciato a saltellare in giro, la gamba, dura com’era, mossa da un ultimo moto di vita e ribellione contro la natura. È una storia che ho sentito.

Io Safir non lo conoscevo, però me lo hanno raccontato per filo e per segno. Era un uomo grande, con le mani ampie e bianche come perle – o come i fogli della mia stampante –, ma con il resto della pelle scura – non nera, ma caffellatte; forse due gocce di latte in un caffè americano, non lo so. Non aveva interessi particolari, né vizi come il gioco, l’alcol, o il bisogno irrefrenabile di tirare su una famiglia di dieci figli, quattro mogli, tutti davanti alla foto dell’ayatollah appesa in cucina, proprio dietro a dove si era appeso lui. Non era nemmeno un gran lavoratore, da quanto so io, perché in città non l’ho mai visto lavorare. Forse in città non l’ho nemmeno incontrato, ed erano solo storie che avevo sentito.

Ad ogni modo, Safir deve essere arrivato quando io avevo diciotto anni, quindi cinque anni fa, e deve essere per forza sceso in stazione, dal treno La Spezia-Genova – perché «quella gente», come diceva il vecchio del bar della stazione, sbarca a La Spezia e mica ci va a Genova, quella gente, nossignore, tira brutta aria lì, non li vogliono. Quindi, ammettiamo che Safir sia sceso d’inverno dal treno, tutto imbacuccato, magari con una coperta sulle spalle – di lana, come quelle che danno alle vittime delle catastrofi nei film; o ancora meglio, con una coperta isotermica, quella che sembra un foglio d’alluminio – e che sia andato verso la stazione, tutto tremante, mentre il mare dietro di lui era dilaniato dallo scirocco e le correnti lo spingevano sulla spiaggia, costringendolo a sputare salsedine su tutta la città. Chissà se lo ha guardato. Un’altra storia che ho sentito è che Safir Hamar lo odiava, il mare. Era la cosa più bella in paese, ma lui non lo degnava di uno sguardo, nemmeno quando lo tentava con suggestivi tramonti viola-porpora sul filo dell’orizzonte. Qualcuno mi ha detto che se faceva il lungomare, quello in cemento costruito nuovo, lui preferiva dare le spalle alla spiaggia e fissare il muro grigio che separava la passeggiata dai binari, paralleli a quella strada. Se lo vedevi da lontano, magari te lo potevi immaginare si suicidasse, prima o poi. Comunque sia, tornando al suo arrivo, diciamo che non aveva nessun posto dove dormire, Safir Hamar, e avesse deciso di farsi un letto lì, nell’anticamera davanti alla biglietteria, con la coperta che teneva sulle spalle.

Poi la mattina dopo, o diverse mattine dopo, c’è chi dice persino un mese e sei mattine dopo, deve essere sbucato qualcuno in stazione a raccogliere il corpo puzzolente di Safir Hamar, un amico o un agente di polizia, e se lo sono portati via, trascinandolo nella vita civilizzata della città e mollandolo in una casa – un appartamento brutto, diciamolo, proprio brutto – in piazza del comune, sopra la fermata dell’autobus. Non dava sulla strada, l’appartamento brutto, perché quel genere di case costano trenta, quaranta euro in più d’affitto, e Safir Hamar non aveva soldi e, chiunque lo avesse preso dalla stazione, mica teneva così tanto a lui da spendere più di duecentoquindici euro al mese. Già lo dovevano sfamare, ho sentito, perché lui non si era mai preoccupato di riempirsi lo stomaco, forse per una personale interpretazione della Shari’ah che lo portava a una lotta ideologia contro la pasta al sugo, la carne battuta, la cotoletta milanese e il riso allo zafferano. Secondo alcuni, Safir Hamar avrebbe preferito essere lapidato vivo piuttosto che mangiare quella roba. Per questo era magro.

Come detto, non lavorava. Secondo la signorina Betta, quella con il bar Quattro Stagioni vicino alla rotonda, che gli offriva sempre il caffè perché lui non se lo poteva permettere, anche se Safir non lavorava, questo mica escludeva l’esistenza, all’interno della sua testa riccioluta, di sogni chiari e precisi. Studiava, Safir Hamar. Studiava alla scuola serale dell’alberghiero, che offriva corsi per stranieri, corsi di lingua italiana e matematica di base perché, si sa, da dove vengono loro non si insegnano queste cose, nossignore – nelle loro scuole di paglia e legno preferiscono istruirli in attività manuali come zappare le terre, costruire mattoni di argilla con l’argilla rossa, pescare, cacciare, sopravvivere; non c’è cultura, lì dove vengono loro, ed era già tanto fossero capaci di scrivere e leggere in arabo. È stupida, diceva il vecchio della stazione, quella gente è stupida, lo si vede dal momento in cui gli parli e non capiscono. Così ho sentito da lui: quella gente era tutta stupida.

Ma lui era fatto di una pasta di diversa da quella gente. Teneva la penna come bisognava tenerla, tra indice e pollice, faceva solo sfiorare la punta sul foglio senza calcare o sporcarsi il mignolo d’inchiostro. All’inizio scriveva sulla destra, in alto, e ogni riga sembrava un esergo di se stesso, un’autocitazione in parole semplici, basilari: Mi chiamo Safir Hamar. Quando aveva cominciato a scrivere i temi, questa volta sulla sinistra, aveva vomitato tutta la sua cultura, lottando con la confusione babilonica della grammatica italiana, producendo frasi sconnesse che tendevano a essere tanto eloquenti e limpide, quanto sintatticamente contorte e sbagliate. Ma quello in cui andava meglio, sicuramente impareggiabile, era la matematica: aveva bruciato moltiplicazioni, divisioni e divisi e dividendi; sorpassato le equazioni di primo e secondo grado; sovrastato, senza nemmeno studiare un giorno, le disequazioni, la trigonometria, le funzioni e persino – dico: persino – gli integrali. Alla professoressa aveva detto, mangiandosi qualche consonante: «Sono laureato». E lei gli aveva pure creduto, sulla laurea in giurisprudenza, e gli aveva detto che non c’era una certificazione equivalente, perché le leggi, quelle italiane, erano completamente diverse da quelle del suo paese. Che in Italia ci si batte per il giusto, non per Dio.

Eppure lui si era convinto, così dicono, che se avesse studiato tanto e se avesse imparato la differenza tra un transitivo e un intransitivo, a dire le cose per come bisognava dirle, allora sarebbe potuto andare all’università e laurearsi, di nuovo. Che fortuna, quel «di nuovo». Lui pensava che l’Italia fosse il paese del «di nuovo», o del «ancora», o del «non è finita». Eppure, quando sentiva le brutte notizie di chi arrivava, tipo di quel bambino morto annegato con la pagella ancora sotto la giacca, perdeva qualche pezzo di speranza per strada, e non riusciva proprio a togliersi dalla testa tutte quelle persone che s’erano infrante sulle coste della Sicilia. Li teneva a mente, Safir Hamar, perché sapeva che la memoria è un po’ come le palline di cotone – basta poco per sfibrarsi in fretta. E quando tutti se ne dimenticarono, del bambino e della pagella, lui invece continuava a spiegare, con le sue parole sgrammaticate, come alcuni sogni mica ci stanno sotto la giacca. E come anche annegando, morendo, questi non spariscano, ma fluttuino verso l’alto e si condensino nel cielo tra l’ozonosfera e l’intero universo – credeva Safir Hamar. Sennò che senso ha guardare le stelle?

E quando lo sentiva parlare così, chi me l’ha raccontato, andava proprio a chiedersi da dove provenisse questo migrante invisibile, come lo chiamano i giornali. Allora glielo domandava, Scusa ma da dove vieni, e in Safir calava un’espressione secca, un muro di cemento con due buchi a fare da occhi e una crepatura a forma di bocca. C’era chi era riuscito a farlo parlare, una volta, e vai a scoprire che arrivava da un paesino in mezzo al nulla, con case grigie a forma di cubo, cubicoli per poveri, senza sbarre ma nemmeno senza porte, con le capre tutte intorno e la sabbia al posto delle strade. E vai anche a scoprire che ce l’aveva una famiglia, Safir Hamar, una moglie e una figlia di quattro anni, stipate in una di quelle celle di calcestruzzo, ad aspettarlo. Secondo alcuni, doveva essere proprio un uomo di merda quello che lasciava la propria figlia da sola, in un posto del genere. Ma il motivo per cui se n’era andato, così ho sentito, erano i soldi. Aveva studiato in capitale ed aveva avuto una carriera breve ma brillante. Poi il lavoro non c’era più, non sapeva dove sbattere la testa. Il resto è abbastanza facile da immaginare, non ci vuole un genio. Tornato a casa, la sua situazione economica era un processo a sottrazione – meno su meno su meno, un minuendo sempre minore, finché non si è arrivato a niente, nulla, il fondo: zero. E nella vita reale, la gente non si fida a sfamarti se sei in negativo, non è una buona valuta il negativo, e per il negativo si muore come mosche ad ottobre con il primo freddo. Così lui aveva preso la sua sacca rammendata con la toppa a forma di faccione di Topolino, era salito sul retro di un camion, quelli verde militare, e aveva fatto ciao con la mano alla moglie e alla figlia di quattro anni. Non avrebbero più rivisto Safir Hamar, poverine.

Aveva viaggiato in mare. Ma proprio viaggiato in quei barconi stretti, stipati di altre persone, con il parabordo arancione gonfio e fosforescente – non con un gommone, Safir non si fidava dei gommoni, non era mica una traversata da dieci minuti. Aveva fatto la stessa rotta delle navi romane, solo al contrario, in salita, fuggendo dalla sua personale Cartagine per raggiungere il paese che gli aveva buttato il sale addosso. Non lo raccontava, ma era facile immaginarselo in quella barca, tutto rannicchiato, con gli occhi chiusi per non guardare il mare – quel mare che gli faceva dispetto con la sua sola presenza. Forse era lì che avevano litigato, quei due.

Se era partito di notte, il Mediterraneo ha questa brutta abitudine d’alzarsi dal suo letto profondo senza avvertire, nossignore, senza nemmeno bussarti sullo scafo e dirti: «Guarda, ti sto per capovolgere». Semplicemente si tira su, con lui il vento e le correnti, e le onde si fanno grosse – non quanto quelle dell’oceano, ma comunque grosse – e schizzi di sale ti entrano in gola a ogni respiro, ti manca l’ossigeno, ti brucia la laringe e non riesci a inalare tutta quell’aria salmastra che ti s’appiccica nel naso. Ed eccolo, Safir Hamar, fissato al gabbiotto della barca, lì dove c’è la plancia, con il pugno vicino alla bocca a bestemmiare il mare, con la stessa tenacia e lo stesso ardore del capitano Achab alla vista del demone bianco che lo trascinerà nel profondo. E il mare rispondeva gonfiando i suoi flutti, spremendo dal cielo una pioggia di fulmini, punendo l’eretico con la stessa insofferenza di Nettuno quando aveva punito Ulisse.

Ma Safir era più un Mersault che un Achab, e magari era partito in un giorno d’estate. Il mare in bonaccia, i venti caldi, un’autostrada azzurra da cui si vedeva la cirenaica allontanarsi, e il paese del «di nuovo» sbucare dall’orizzonte tremolante.

Tutti in città, il giorno dopo averlo trovato, si sono chiesti com’era successo – come c’era arrivato quello straniero e i suoi sogni apolidi al soffitto dell’appartamento brutto, agganciati come carne essiccata in una macelleria Halal?

C’erano diverse risposte.

Mi hanno detto che i sintomi della sua follia erano da ricercare nei suoi comportamenti. Safir Hamar non parlava molto di sé, ma aveva la capacità, così dicono, di nascondere piccole parti di lui in ogni gesto. Tipo quando si piegava sulle gambe, anziché inginocchiarsi, per dare una scatoletta di tonno a un gruppo di gatti randagi che orbitavano vicino alla Piazza del Comune; o nel suo modo di tenere la birra – con la mano sinistra – e di berla sempre accompagnata a pinoli secchi, oppure mischiata con il bianchetto delle cinque; o, ancora, dalla sua postura sull’autobus, con la testa incassata nelle spalle, la gamba sinistra allungata in avanti, quella destra a reggere l’intero corpo, a bilanciarlo nel continuo oscillare del bus sulle strade dissestate del centro storico, quelle piene di buchi neri di asfalto nero. Ecco, se si collezionavano tutti questi tasselli, si potevano posizionare con accuratezza per rendere chiaro, palese, lapalissiano il profilo Safir Hamar all’interno del mosaico della sua vita. Così i più anziani avevano tirato su delle diverse interpretazioni di chi fosse veramente Safir Hamar – distorsioni della sua immagine che riuscissero a incastonarsi perfettamente in cinque anni, dal suo arrivo alla sua ultima partenza. Quindi, riguardo alla sua morte, si andava a pensare che avesse contratto la rabbia da un gatto selvatico nero corvino, chiamato Bussola, a cui nessuno riusciva mai avvicinarsi per via del suo carattere brusco, con gli artigli sempre estratti, perfino quando zampettava allegramente tra un tetto all’altro della città. Che si fosse ammalato, Safir, e quando aveva preso a schiumargli la bocca, allora lui aveva intravisto la figura di un demone, un djinn, possedergli il corpo e, perciò, aveva deciso di estirpare il demone, estirpando il suo ospite. 

Altri invece battevano la mano sui tavolini in plastica del bar della stazione, e indicavano come fossero stati i suoi modi di fare riservati, schivi, a nascondere il motivo della sua salita verso il cielo via corda. Era chiaro: Safir Hamar aveva qualcosa da tenere per sé, da non dire agli altri – una segreta tensione interna che gli annodava lo stomaco e non lo lasciava dormire. Quindi, per le menti più luminari che frequentavano la sala slot del bar della stazione, era ovvio che Safir Hamar si fosse suicidato perché in complotto con forze pericolose, entità maligne superiori, o inferiori, minuscole e umane. In poche parole: trafficava droga, armi, attentatori islamici e, eventualmente, vite umane. Schiacciato da questo senso di colpa, pensavano in molti, si era sollevato dalle responsabilità dei vivi passando dalla parte (quasi sempre pia e intoccabile) dei cadaveri. Pace all’anima sua, pover’anima, sui morti non si scherza.

L’ipotesi più gettonata era, però, quella a sfondo religioso. Che Safir Hamar aveva incontrato Cristo su quella barca in mezzo al mare, avessero chiacchierato e si fossero scambiati il numero di telefono per sentirsi ogni domenica, dalle otto del mattino in poi. E che in cinque anni, Cristo lo avesse sedotto con tutta la benevolente grazia concessa dai vangeli, illustrando i dieci comandamenti e le cruenti storie dell’Antico Testamento – di un padre non gentile, piuttosto rancoroso, ma di un’infinita compassione e bontà. E allora Safir aveva voltato le spalle al suo falso Dio – che, comunque, era lo stesso, ma con un nome diverso – ed era piombato in una crisi religiosa, come si evinceva dal suo bere alcol con la mano del diavolo. All’apice di questa profonda confusione, Safir doveva essere rotolato nel baratro dell’assurdo, non riuscendo più a decidere cosa sia bene, cosa sia male e, infine, avesse risolto il tutto sottraendosi alla scelta. Semplice.

Non si sa quando è successo il tutto, quando Safir Hamar aveva stretto l’ultimo nodo, ma alcuni sono riusciti a collocare con data, orario, presagi e avvenimenti, l’esatto momento in cui il cavo elettrico del lampadario aveva iniziato a scricchiolagli intorno al collo. La signora Germana, l’inquilina dell’appartamento (bello) di sotto, ha detto che una notte, ad agosto, il cielo si era riempito di nuvoloni neri – non da tempesta estiva, come ci si poteva immaginare, ma da temporale invernale, con pioggia sferzante e gelida in sella al maestrale che scendeva da nord. Un fitto diluvio le aveva spazzato via le gerbere sul terrazzo, riempito la cantina con cinque dita di acqua fangosa, e scrostato la facciata dell’intera palazzina. Aveva piovuto solo lì, sostiene la signora Germana, mentre su tutta la città – aveva sentito – il chiarore della sera si era prolungato grazie alla lucentezza della luna estiva. Germana è convinta di aver sentito un pianto, quella notte, e lo avesse scambiato per il ticchettio della pioggia sulla porta a vetro in cucina. E quando poi aveva sentito un fulmine – o quello che le sembrava un fulmine – in realtà era stato il rimbombo sordo del soffitto sopra la testa di Safir Hamar, troppo poco spesso per reggere tutto il peso di quel corpo.

C’era invece la versione di Sandro, un altro del bar, comprendente un’invasione di zolfo, marcia di rane per la via principale, mare maculato di rosso e nero, nero petrolio, mentre dal cielo cadevano code di lucertola un po’ ovunque. Il tutto era successo a luglio, verso la festa della Madonna, quando le persone erano troppo occupate a stare in spiaggia per prestare attenzione alle piaghe divine – oppure, per come la sostiene lui, fossero segnali chiari a lui e lui soltanto, poiché più attento e devoto d’altri. Ma nessuno dà retta a Sandro perché, si sa, non ci sta con la testa.

Però sull’invasione di zolfo aveva ragione – molti dicevano fosse avvenuta a giugno, non luglio. Erano appena diminuite le piogge di maggio e c’erano state due settimane di sole pieno e accecante, si stava bene e i gradi erano statici, fissi a ventotto senza vento e con dodici percento di umidità, pressione atmosferica godibile. Poi un giorno, più o meno alle cinque del mattino, un’aria infusa d’oro era calata sui tetti brillanti della città, aveva invaso i vicoli e le finestre, si era presentata come l’indice di un’apocalisse nel pieno del suo atto, o in preparazione. C’è chi, poi, ha ricondotto quell’aria sabbiosa all’ultimo sospiro di Safir Hamar. Che si fosse librato, quel sospiro, e avesse preso consistenza per riuscirsi a sollevare dalla terra, dal paese del «di nuovo» e scavallare il Mediterraneo ad ampie falcate, serpeggiando fino alle orecchie di sua moglie, di sua figlia, per sussurrare un ultimo addio.

Ci sono tante storie che ho sentito su quell’enciclopedia di misticismi e presunzioni di nome Safir Hamar. E di tutte, nessuna parlava veramente di lui. Così ho provato a metterle insieme, queste storie, e cercare di presumere se non gli ultimi giorni, almeno gli ultimi istanti dello straniero appeso al lampadario.

Safir era sopra la tavolo, con il telefono a qualche metro da lui, lo schermo illuminato. Non importa se fosse giorno o notte – una luce di qualsiasi colore feriva la stanza, entrava dalla finestra e si posava sotto di lui, sul pavimento brutto dell’appartamento brutto. Safir, quindi, staccò prima la lampadina, poi prese delle forbici belle spesse e tagliò i fili che tenevano il lampadario attaccato al soffitto. Lo doveva aver appoggiato, con calma, sulla sedia. Allora ritornò sul tavolo, tirò i cavi con uno strattone facendo cadere pezzi di soffitto qua e là, un po’ ovunque. Non fece un cappio – era troppo corto per fare un nodo complicato, quindi si era accontentato di uno semplice, magari due. Safir Hamar non sapeva come ci si suicida, andava a intuizioni. Poi si mise quella corona di rame, la fece discendere dalla testa riccioluta al collo. Strinse il nodo. E saltò.

No, non si poteva spiegare il perché sia morto, ma era facile ripercorrerne il come. Mi piace presumere che Safir Hamar vivesse in tutte le storie che ho sentito. Vivesse a metà, la metà che si poteva vedere, mentre l’altra rimaneva invisibile a tutti, mentre il signore del bar, la gente ai tavolini di plastica, la signora Germana e Betta – tutti noi, io compreso – eravamo animati da uno spirito mitopoietico, un’arroganza delirante che ci permetteva di poter creare la nostra particolare versione della sua morte. Ma se bisognasse rimanere sui fatti, sulle circostanze, sulla causa-azione-reazione, allora nessuno di noi era, ed è, mai stato vicino alla verità sullo straniero venuto da fuori. Per questo è anche possibile che con il mare, in realtà, non ci avesse mai litigato, e magari lo guardava solo la sera prima di andare a dormire, sperando che un giorno quell’autostrada azzurra diventasse anche un biglietto di ritorno. Se ci basassimo solo su questo, allora potremmo dire che Safir Hamar non sia mai esistito, ma sia esistita, invece, l’immagine che abbiamo di lui. Che quando lo trovarono appeso al lampadario e lo cercarono di tirare giù, staccandogli una gamba salterina, quello non fosse il suo corpo, ma di qualcuno che gli assomigliava parecchio. Sì, potremmo dirla anche così.

Ma ad essere onesti, anche queste sono solo un mucchio di storie che ho sentito sul conto di Safir Hamar. E del suo strano modo di guardare le stelle.

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