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Pop Corno: Pane e Tulipani


Il 28 dicembre 2020 il cinema ha compiuto 125 anni: in quello stesso giorno del 1895, infatti, venivano proiettati pubblicamente i 46 secondi di quello che è considerato il primo film della storia, creato dai fratelli Lumiére. Io invece, di anni ne sto per compiere trenta e ho visto pochissimi film: Pop Corno è il mio pubblico tentativo di fare ammenda.


Tutto inizia con la mia stramba idea di vedere (almeno) un film al mese e parlarne qui, su Tropismi, passando quindi da… zero a uno. Volevo dare il via a Pop Corno con un film italiano, non uno troppo recente né un grande classico, non un cinepanettone (ma chissà, a dicembre potrebbe succedere) e non un Novecento di Bertolucci (che ho trovato googlando “film lunghissimi italiani”). Non so come, ma mi è venuto in mente Pane e Tulipani: del 2000, nel catalogo di RaiPlay, ma soprattutto con quella giusta dose di evasione di cui sentivo di aver bisogno in questo inizio di 2021 tra zone rosse e crisi di stato.

Ci siamo approcciati a questo film di soppiatto, delicatamente, e ne siamo usciti dall’altra parte innamorati. Per la delicatezza stessa e costitutiva di Pane e Tulipani, il suo tratto più prezioso: nei toni, sia di voce che di colore, nel raccontare e nello svolgere la storia, nel portarci dai templi alle calli, dalle ceramiche alle fisarmoniche.

La storia è semplice: una donna in fuga dalla routine quotidiana incontra un uomo che vuole fuggire dalla vita. Si salveranno a vicenda, ma senza eroismi, senza gesti plateali, anzi: sono proprio i gesti più minuti, quasi impercettibili ma essenziali, a tenerli a galla, a guidarli, a trarli in salvo.

Di Licia Maglietta ci innamoriamo subito, è inevitabile: la bellezza fisica è striking, ma ancora di più quella che traspare dai gesti e dagli sguardi. È una Rosalba perfetta, con questo sguardo aperto e incantato, «pieno di stupore e meraviglia» come ha detto il regista Silvio Soldini. Ha un viso pulito, senza un segno, quasi da bambina: racconta una storia di cui riusciamo a leggere ogni parola. All’opposto, il volto di Fernando (Bruno Ganz) è solcato da rughe, ha forme e infinite memorie impresse: le parole con cui si esprime sono quelle di una lingua acquisita attraverso la quale crea, pone e mantiene una distanza. Rosalba è educata, ma è diretta e risoluta: Fernando cura i dettagli e la disposizione ai limiti della minuzia, ma non riesce a vedere il quadro più ampio, chiude tutto ciò che non può vedere in una stanza o sul fondo dell’armadio.

A proposito di dettagli: il mondo in cui si muovono Rosalba e Fernando è altrettanto curato fin nei più piccoli particolari, e per questo è funzionante. Ogni personaggio è funzionale alla storia ma ha una sua prepotente autonomia. Il fioraio anarchico Fermo (Felice Andreasi) non è solo un escamotage per dare un lavoro a Rosalba (il cui padre faceva il giardiniere alla Reggia di Caserta), ma serve a inserire una figura parallela a quella di Fernando, un altro eremita, senza troppi contatti con il mondo esterno, un solitario, un incompreso, un burbero. E Rosalba conquista anche lui, a suo modo, e apprende la lezione più importante: «Le cose belle sono lente».*

E, ancora, Grazia Reginella (interpretata da Marina Massironi) è ingenua, fresca e multidimensionale: è una spalla ma anche un braccio, una figura intera di grande forza. È a lei che, per la prima volta, Rosalba suona la fisarmonica: è con lei che può mostrarsi per quella che è, una donna sognante, che sente una musica dentro di sé e non è disposta a zittirla.
Per questo, quando viene pronunciata la frase che spezza il cuore a tutti – «Mimmo, io volevo dirti che…» «Alba, senti: fai conto che per me non è successo niente» – da un marito che si rivoltola dall’altra parte del letto matrimoniale, in una casa a Pescara io non ho potuto fare altro che dire ad alta voce «Ma a lei è successo tutto!». Ed è chiaro che anche Rosalba, in quel momento, se ne rende conto: che la disobbedienza originaria, quella di non rimanere ferma e buona in attesa all’Autogrill, non era una sbandata o un colpo di follia, ma un mettersi in ascolto di se stessa, uno scoprirsi protagonista delle proprie azioni e della propria vita.

Questo film è una storia. La storia di persone, di sentimenti, di luoghi, di evoluzioni e riscoperte: si sorride, si ride, ci si commuove, ci si esalta, si è felici. E, forse per la prima volta nella mia vita, sento di aver trovato un film che vorrei vedere e vedere ancora.


* uno dei motti di Tropismi è, da sempre, good things take time.

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