Ballata per le nostre anime di Mauro Garofalo – Una danza di vendette e riscatti

Chiedersi se esista o meno un destino già scritto per ognuno di noi è una domanda che almeno una volta ci siamo posti tutti. Domandarsi quanto le nostre azioni determinino ciò che siamo e diventeremo dovrebbe costituire uno spunto di riflessione costante. Troppo spesso, invece, ci ritroviamo a pensare e constatare come siano i pregiudizi, le dicerie o una singola azione sbagliata a fornire una immagine di noi che non ci rappresenta e nella quale sentiamo di non entrare affatto.

Queste domande e riflessioni sono il centro dell’ultimo romanzo di Mauro Garofalo, dal titolo Ballata per le nostre anime. L’autore prova, e riesce, a dare voce a una storia di più di un secolo fa e ambientata in una piccolissima borgata nel cuore della Val Brembana.

Questa è la storia di un uomo tranquillo.

Padre di otto figli.

Onesto lavoratore.

Che un giorno imbracciò il fucile e uccise cinque uomini e due donne.

Accadde in un piccolo borgo in mezzo ai monti, dove negli anni la gente usciva di casa già sul presto, chi a badare alle bestie chi al carbone, la legna che serviva a friggere uova e pancetta sopra padelle annerite, i panni stesi sui fili finché fosse salito in alto il sole a sbiancare il bucato della Caterina Milesi, la Nèla, ora un poco sfiorita, in sottana, il cuore gualcito dall’angoscia d’esser bella, ancora, si guardava attorno per spiare il sospiro di amanti oramai immaginari; Giudici, il segretario comunale, con le sue cartellette, s’affannava con le suole delle scarpe usurate ad arrivare prima del rintocco del campanile, vedetta dei peccati su in alto la collina, mentre il calzolaio Ghilardi, che avrebbe venduto la madre pur di esporre le sue idee al consiglio comunale, invece gli toccava aggiustar tacchi e fare buon viso a cattivo gioco; dentro la canonica, il don Filippi scriveva i sermoni per la domenica che sempre sarebbe arrivata, spietata come la mannaia di Dio; le altre anime che si sarebbero salvate proseguivano indaffarate l’ordinaria litania del quotidiano.

L’uomo tranquillo si chiamava Simone Pianetti e la sua è una storia di vendetta e riscatto. Perché Simone un uomo tranquillo lo era davvero ma la vita, che a volte può essere ingiusta e crudele, gli ha causato solo grandi delusioni e dolori. Così Simone, chiamato anche Vendicatore della Val Bremabana, la mattina del 13 luglio 1914 imbraccia il fucile e uccide sette abitanti del suo paese per poi sparire sui monti senza essere mai ritrovato.

Quello che spinge Simone a un gesto così estremo è la voglia di riparare a un torto. Fin da ragazzino, infatti, Simù viene additato come il figlio strano dei Pianetti; quello che un giorno, senza apparente motivo, aveva imbracciato il fucile e tentato di sparare a suo padre. E non è servito a nulla emigrare in America, tornare con costosi abiti, sposarsi e mettere su una attività propria, perché quando in paese viene etichettato, quella etichetta, quella tara te la porti dietro per sempre. Simone non vuole riscattare soltanto se stesso, ma anche il nome della propria famiglia, infangato da anni di dicerie popolare e malelingue.

La famiglia di Simone invece era, se non ricca, quantomeno agiata. Ma era stato per via del libro, e della maledizione. Il fatto che uno sapesse leggere non andava bene, che “chi sa leggere t’imbroglia”, lo sanno pure i sassi. Da che mondo era mondo, ci si affidava alle stagioni, la terra bassa non ti tradiva, così i patti a sputo sul palmo di mano. Che c’era da interpretare? Se uno ti diceva che una cosa era così, era così. Senza fare questioni.

Su questo invece la discendenza dei Pianetti era sempre stata strana: sapevano leggere e far di conto, nascondevano qualcosa. Dalle pentole poi mica ci cavi i coperchi, per fare quelli ti serve anzi il demonio. E i patti col diavolo, da quelle parti, se c’era qualcuno che li aveva stretti, poteva essere giusto una famiglia.

Gente ch’era venuta da fuori, i Pianetti erano diventati ricchi a quella maniera, mormorava basso il paese, borbottava a copia del rumore del Brembo cupo a fondovalle che tempo addietro avessero rubato terreni.

Quello di Garofalo è un romanzo con tutti i caratteri di una ballata, come dice il titolo stesso. Una vera e propria danza di anime. Vittime e carnefice, in una storia in cui non è facile comprendere chi ricopra l’una e l’altra parte. La struttura stessa del romanzo, alternanza tra la storia di Simone che ci viene raccontata da un narratore esterno, e le parti in cui sono le vittime stesse a fornirci il proprio punto di vista sull’accaduto, contribuisce a dare un senso di movimento alla storia, quasi come un ballo.

Lo stile non è particolarmente semplice e il linguaggio piuttosto ricercato. Elementi che sottolineano il carattere ricercato e curato del romanzo. Garofalo, infatti, riesce in un’impresa non facile: mettere per iscritto una storia che, come il suo protagonista, è sfuggente, oltre che lontana nel tempo.

Elemento essenziale in tutta la storia è la natura. Le montagne, le valli, i boschi notturni e le acque – dei fiumi come dell’oceano – sono più di un semplice sfondo, sono veri e proprio personaggi che sanno più del narratore e dei personaggi stessi.

Ballata per le nostre anime non è un romanzo che si legge tutto d’un fiato. Al contrario, è una storia che richiede tempo, tempo per poterne apprezzare la musicalità e per poter ascoltare tutte le voci che la raccontano, quelle delle anime degli uomini e quelle degli elementi della natura.

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