tornare-a-casa-fazi-editore

Tornare a casa con Dörte Hansen e Fazi Editore

Un libro che ci trasporta nella Frisia del nord, vicinissimi alla Danimarca. Un racconto che si snoda tra case e strade, ma anche tra anni e ricordi. Un romanzo che forse è un’indagine, una riscoperta e una ricerca – senza sapere di esserlo. È il momento di Tornare a casa, con Dörte Hansen e Fazi Editore.

Casa significa Brinkebüll, il paesino verso cui è diretto Ingwer Feddersen e da cui si era allontanato anni prima per studiare e diventare un archeologo. Che significa essere oggi un ricercatore/professore in uno studio disordinato, con dei colleghi ambiziosi, senza una relazione stabile ma con molti rapporti e un appartamento dalle porte aperte.

Ad aspettarlo in paese ci sono gli anziani e malconci Sönke ed Ella, che Ingwer chiama papà e mamma ma che sono, in realtà, i suoi nonni materni. Ma in scena ci sono anche altri personaggi: Marret, un bambino investito, un professore stanco, decine di avventori dell’osteria gestita dai Feddersen. Avanti e indietro nel tempo, Dörte Hansen trascina noi e tutti gli abitanti di Brinkebüll in un lento disvelamento, in un puzzle i cui pezzi erano rimasti ben chiusi in un cassetto, al riparo da occhi curiosi e orecchie indiscrete.

Per il paese

Ci rendiamo subito conto di una cosa: la storia della famiglia (perché parteciperà la famiglia, vero, alle nozze di ferro?) è la storia del villaggio che abitano; i personaggi che appaiono da un capitolo all’altro servono a comporre un quadro che racconta la storia degli anni che passano a Brinkebüll, delle crepe e delle chiusure, del taglio degli alberi e delle nuove strade.

A metà luglio l’estate arrivò sul serio, dall’oggi al domani. Via il bavaglio e gli stracci grigi dal cielo, il vento che per settimane aveva affettato e rosicchiato il paese sembrava improvvisamente sazio.

Dörte Hansen, Tornare a casa

Forse perché questi personaggi non potrebbero che esistere qui, in questa terra a tratti poco accogliente, che conserva le tracce di una civiltà lontana, in una routine fatta di bottega e locanda, di scuola e di feste religiose. Dörte Hansen lo sa bene: le descrizioni del paesaggio, l’indugiarsi nei dettagli minuti, le dissertazioni meteorologiche funzionano esattamente come i preludi de Le onde di Virginia Woolf. Inquadrano, più che l’azione, le sensazioni che accompagnano le persone da una strada all’altra, suggeriscono uno stato d’animo mentre guardano dalla finestra verso il campanile, indirizzano una lettura in chi non sa ancora cosa stia leggendo, propongono un’interpretazione senza che il narratore debba intervenire.

Il narratore, infatti, sembra conoscere alcuni dei segreti del paese, ma sa che non sta a lui rivelarli: può suggerire e può indicare, ma deve servirsi dei ricordi, delle malinconie, delle malelingue, del ritorno delle cicogne, del cadere della neve.

A Brinkebüll non avevi alcun diritto alla verità o alle risposte, non ti erano dovute spiegazioni, specialmente se eri un bambino. Se non capivi qualcosa, se le cose non ti quadravano o avevi uno strano sentore, dovevi arrivarci da solo. Giocavi al telefono senza fili con te stesso, assemblando spezzoni di frasi captati qua e là, e all’inizio non avevano senso.

Dörte Hansen, Tornare a casa

Le regole del paese valgono anche dentro le mura domestiche e, viceversa, le regole di ogni famiglia si riversano per le strade e secondo queste vengono giudicati i concittadini. Nessuno scampa allo sguardo degli altri: non è possibile nascondersi, né sfuggire al loro giudizio. Si può parlare delle cose, ma solo per sparlarne: non per analizzarle, non per comprenderle, non per sistemarle.

Tra il vero e il non vero c’era un sacco di aria in cui le cose fluttuavano leggere, quasi trasparenti, purché non se ne parlasse. Non sta né in cielo né in terra. Se le chiamavi per nome diventavano più vere, si appesantivano. Quando le cose avevano un nome non c’era verso di toglierle di mezzo. Appena le esprimevi a parole, quelle si piantavano lì come macigni.

Dörte Hansen, Tornare a casa

Il silenzio è la seconda lingua di Brinkebüll, quella che tutti i nostri personaggi parlano fluentemente. Scopriamo, infatti, che i segreti non sono davvero segreti: sono cose note ma non parlate; per esempio scopriamo che l’Ingwer adulto sa benissimo di non essere figlio di Sönke ed Ella, quindi il suo ritorno a casa non ha nulla a che fare con una precipitosa rivelazione del suo passato, con un’indagine senza scrupoli, con una richiesta di verità, in un anticlimax che Dörte Hansen gestisce alla perfezione.

Ci sono, in Tornare a casa, molti tipi di silenzio. Quello che sembra burbero di Sönke, che è in realtà un silenzio ferito; quello di Marret, che non è pazzo ma che è semplicemente su un’altra frequenza rispetto a quella di Brinkebüll; e quello premuroso di Ella, che non è brava con le parole, ma che attraversa il paese pieno di nebbia e chiede un’eccezione al bibliotecario, che le lasci prendere in prestito un libro per sola consultazione interna. E che torna a casa, per sedersi accanto a Marret e mostrarle la pagina 139 dell’Atlante di anatomia: utero con feto.

Scoprire i nomi, scoprire il passato

C’è anche un’altra lingua che viene parlata in paese e che, ci viene anticipato prima di essere in grado di interpretare gli indizi, se la si sa parlare è una chiave potente, un passepartout. È la lingua dei nomi.

Un nome come un buco della serratura. Lui ci si accostava e riusciva a vedere tutto.

Dörte Hansen, Tornare a casa

Un nome, a Brinkebüll, non è un auspicio: è un segnale. E il mistero del nome ci viene svelato alla fine del capitolo 16: Steensen, il professore del paese che tanto entra in scena e che crediamo serva per rappresentare la memoria storica, la disciplina, la vecchia guarda, è in realtà il nodo che tiene assieme tutti i personaggi principali. Si chiama infatti Christian, il nome che Sönke aveva chiesto a Ella di non dare al figlio di Marret, perché non fosse chiaro a tutti in paese che lo smacco di essere un marito gabbato, anni e anni prima, era stato accettato dall’oste. Ella aveva allora replicato con Ingwer, il nome del padre di Sönke: ed ecco che il marito prende in braccio quel piccolo bimbo, lo tiene come suo, lo infila sotto la camicia e lo mette dietro il bancone, gli taglia i capelli e gli non-parla nella sua lingua di oste poco acculturato.

Cominciamo a notare allora altre tracce, che non sono quelle fisiche e genetiche, ma che si sono trasmesse comunque per via ereditaria. Lo studio concentrato e spassionato di Steensen per il passato, le civiltà e la storia di quella terra; lo spirito osservatorio di Marret, il suo collezionare piccoli oggetti e catalogarli con precisione, conservandoli in camera propria come in un archivio della memoria collettiva tralasciata; il desiderio di Ingwer di scavare, trovare reperti e portarli alla luce, accompagnato dalla costante paura della scoperta.

Perché tornare a casa non è mai fare i conti con il passato, ma è farlo con chi si è diventati nel frattempo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.