I maestri del dolore sulla pagina – Conversazione con Fuani Marino

Di Fuani Marino avevamo parlato in un articolo il mese scorso, sempre per l’Osservatorio di narrative non-fiction italiana.

Il suo Svegliami a mezzanotte è sicuramente uno degli esempi più interessanti di memoir degli ultimi anni, sia per il suo passo iniziale, quasi da thriller, per la scrittura fluida, per il tipo di voce brutalmente sincera, e anche per i temi trattati: suicidio (tentato, il suo), depressione e pressione sociale sulle malattie mentali. Sono tutti temi che Marino affronta con quasi totale assenza di timore di ferire le persone coinvolte, come se alcune verità non si potessero fermare. E ha ragione.

Quanto coraggio ci vuole? Ci sono scrittori che hanno avuto timore di pubblicare anche romanzi di fiction, per timore che parenti e amici si riconoscessero nei personaggi. Avrebbe avuto senso scriverlo con nomi diversi?

Forse sarebbe stato più semplice, ma non mi attira molto questo genere di depistaggio. Più che coraggio credo ci voglia molta incoscienza.

Ti sei chiesta come avrebbe cambiato i tuoi rapporti sociali? Cosa sarebbe successo alle persone che conoscevi?

Naturalmente sì, ne ero molto spaventata. E tuttavia sentivo che era la cosa giusta, anche per le molte persone con esperienze analoghe che erano state meno fortunate di me o che non avevano avuto la possibilità di raccontare la propria storia. Purtroppo ci sono state reazioni di persone vicine che mi hanno ferita, ma non si scrive per ricercare consensi, almeno non è questo il modo in cui intendo la scrittura.

Qual è stato il processo che ti ha portato a scrivere questo memoir? Come dicevi ha che fare con la necessità di rendere una tua esperienza accessibile a tutti e creare maggiore consapevolezza, è presente una tua personale necessità di elaborazione del trauma?

Ho cominciato a scrivere di quest’evento a distanza di cinque anni dall’accaduto, quando l’avevo in larga parte metabolizzato. A un certo punto mi è sembrato che la mia vita fosse come un romanzo, scriverne mi ha aiutata a mettere una distanza e a riguardare il tutto in una visione d’insieme, oltre che a comprendere alcune cose. Una di queste è stata che non avevo nessun motivo di colpevolizzarmi e che vissuti come il mio non andrebbero nascosti come invece purtroppo accade.

Quando hai cominciato a scrivere avevi già una struttura di come dovesse essere organizzato? Quanto lavoro di editing c’è stato?

Ero reduce da incontri medici poco felici, in cui mi ero sentita spesso una cavia da laboratorio, così per reazione ho immaginato un libro che procedeva come una cartella clinica e che in origine doveva chiamarsi come il farmaco che mi ha salvato la vita: Lyrica. Il lavoro di editing si è concentrato prevalentemente sulle parti saggistiche.

In un primo momento credevo solo di raccontare la mia storia, ma sin da quando ero ancora ricoverata, ho cominciato a circondarmi di libri, film, personaggi letterari che avessero a che fare col disagio psichico e col suicidio per cercare di comprendere quello che mi era successo.

Il tema della scrittura come cura spunta a circa metà del libro, dopo che per anni ti eri occupata di un altro tipo di scrittura, quella giornalistica. Cosa ne pensi?

La scrittura ha sempre fatto parte di me. Sin da ragazzina ho riempito pagine e pagine di diario, poi ci sono stati gli articoli, fino a quando hanno smesso di interessarmi.

Senz’altro rappresenta un’importante forma di sfogo, da ragazza mi aiutava anche a comprendere come mi sentissi e perché. Oggi i miei scritti sono il luogo in cui riverso la rabbia, le malinconie, la tristezza delle cose perdute.

Quali sono stati i tuoi parenti spirituali nella narrativa non-fiction? Padri, madri, zie e cugine? Riesci a paragonare il tuo libro a qualcos’altro?

Mi hanno detto che ricordo Joan Didion, e non posso che esserne lusingata dal momento che si tratta di un’indiscussa maestra nello sbattere il dolore sulla pagina così com’è. Ho amato molto anche Emmanuel Carrère, Miriam Towes, Ottessa Moshfegh. E devo senz’altro qualcosa ai diari di Sylvia Plath, che è stato un vero peccato perdere così presto.

Cosa ti attira della loro scrittura? Didion, Toews, Moshfegh, combattenti e piene di dolore che riescono a trasformare in letteratura.

L’autenticità, vera o presunta, che hanno nel raccontare il loro essere fragili. Una caratteristica che me le ha fatte sentire vicine pur non conoscendole, ma forse è questo quello che fa la letteratura.

Cosa leggevi da ragazzina? Quale autore/autrice saresti voluta diventare?

A tredici anni mi colpì profondamente il diario di Anna Frank, credo per le stesse ragioni di cui scrivo sopra. Senza saperlo stavo già leggendo non-fiction. Al liceo, invece di seguire le lezioni, portavo in classe i libri di Bukowski, di cui mi piaceva la miscela di strafottenza e disperazione, ma non ho mai desiderato essere uno scrittore o una scrittrice in particolare.

C’è un grande fiorire di reportage di viaggio, di biografie classiche e nell’ultimo periodo, per fortuna, una piccola crescita nei memoir. C’è però una quasi totale assenza di personal essay nella narrativa non-fiction italiana. Ti sei mai chiesta come mai? Secondo te c’è una motivazione culturale?

Il personal essay è un genere ibrido, che riflette su un argomento specifico, trattato appunto in modo saggistico, ma lo fa partendo dalla propria esperienza personale, o comunque ponendo al centro il punto di vista dell’autore. Da noi si tende ancora a tenere slegati la forma del saggio e quella del romanzo, ma confido che nel giro di qualche anno, anche grazie alle molte traduzioni valide di questo genere, diventerà sempre più frequente.

Tre titoli di non-fiction da non perdere:

Lessico famigliare di Natalia Ginzburg
La più amata di Teresa Ciabatti
L’uomo che trema di Andrea Pomella

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