Lorenzo Tosa

Un passo dopo l’altro. Intervista a Lorenzo Tosa

Mia mamma è una donna progressista. Crede nella solidarietà, nell’uguaglianza, in un mondo più giusto e più equo. Spesso discutiamo di politica, non ci troviamo sempre d’accordo ma sono felice di sapere che la pensi così. In questi anni si è sentita, ci siamo sentiti in minoranza, sovrastati da un certo pensiero becero e populista che ha catalizzato l’agenda politica italiana. Un nome, soltanto, sulla cresta dell’onda, una felpa troppo semplice da indossare, che ritrovava dappertutto.

Lei, che nella politica non trovava nulla di condivisibile, mi citava spesso un nome, una specie di antidoto, se vogliamo. Quel nome, famosissimo, è Lorenzo Tosa. Giornalista, comunicatore, ma soprattutto una voce tra le più riconoscibili di questi anni. Uno storyteller, se vogliamo. E da poco anche uno scrittore, con il suo Un passo dopo l’altro, edito da Mondadori. Un libro di viaggio, attraverso storie di resistenza civile e di solitudine, una bussola per orientarsi in un mondo dove è ancora possibile restare umani, Tosa stila la mappa di quelli che, come direbbe Borges, magari si ignorano ma stanno salvando il mondo.

Ne parliamo con l’autore, che ringraziamo per l’intervista.

Ciao Lorenzo, e grazie per l’intervista. Chi ti conosce dai Social è abituato a conoscerti e al tuo metterci la faccia, al raccontare i fatti secondo la tua idea di mondo. Questa volta hai scelto un mezzo diverso, con un pubblico diverso e un diverso tipo di fruizione. Ci racconteresti come nasce questo libro e dove si inserisce nella tua vita personale? 

Nasce, come spesso capita, da una mail, quella della mia futura editor, Lara Giorcelli, e da una scommessa: trasformare quel magma di parole, idee, suggestioni, storie in un libro vero e proprio, con l’ambizione di tracciare una mappa il più esatta possibile dell’Italia che resiste: all’odio sociale in cui è inciampata, all’indifferenza, all’incultura dominante, alla sciatteria anche linguistica e lessicale dilagante, inevitabilmente al Covid, come poi è diventato chiaro in corso d’opera, quando il libro, da reportage di viaggio, è diventato una fotografia più o meno precisa del nostro Paese immortalato nell’attimo in cui attraversa l’ignotoUn passo dopo l’altro è un libro nato e cresciuto a tutti gli effetti a cavallo tra due epoche, concepito in un periodo storico di relativa normalità e concluso letteralmente in un’altra dimensione fisica, politica, emotiva, anche letteraria se vogliamo. Quella che, dal punto di vista umano, è una tragedia epocale, dal punto di vista narrativo è stata una miniera da scavare un pezzo alla volta, per capire come siamo cambiati in pochi mesi come società, anche a livello di postura, nel modo di rapportarci l’uno con l’altro, di interpretare la dimensione pubblica. E non c’è punto d’osservazione migliore oggi per registrare tutto questo di un treno in corsa attraverso la penisola, le cui stazioni sono simbolicamente i personaggi del libro e le storie che hanno da raccontare. 

Libro di storie, di viaggio e di viaggi, con Liliana Segre e Mimmo Lucano come stelle polari e l’autore, Lorenzo Tosa, come motore e punto d’unione. Qual è il percorso comune dei protagonisti di questo libro? 

Quando ho cominciato a scriverlo, credevo fosse un libro sulla resistenza. Non quella con la R maiuscola ma quei piccoli atti di resistenza civile, culturali – individuali e universali a un tempo – che tutti noi possiamo portare a casa dalle storie di questi personaggi. E, in larga parte, è anche questo: un libro sulla nuova resistenza. Solo che, più m’immergevo in queste vite, più mi rendevo conto di come non fosse la resistenza a tenere insieme i fili della narrazione ma qualcosa di ancora più intimo e che oggi la nostra società tende a rifiutare, a nascondere, quasi fosse qualcosa di cui vergognarsi. Quella parola è solitudine. È la solitudine, indicibile, di Liliana Segre, che a 13 anni si ritrova orfana di padre (dopo esserlo stata, sin da bambina, di madre), senza parenti, cari, affetti, nel luogo più atroce che mente umana abbia mai concepito: Auscwhitz. O come quella di Potito, che più o meno alla stessa età scende in piazza, solo, con un cartello in mano, a manifestare per il clima in un piccolo paese di 8.000 abitanti a 30 chilometri da Foggia, proprio come Greta davanti al Parlamento di Stoccolma solo qualche mese prima. O come quella di Mailuna, che la notte di Natale del 2017 viene sbattuta fuori di casa dalla sorella a Pontedera e, a 20 anni, è obbligata a rimettere insieme i pezzi di una nuova esistenza in un Paese di cui sa poco o nulla e in cui subirà, nel giro di pochi anni, qualcosa come un centinaio di aggressioni razziste, spesso a sfondo sessuale. Ma anche la solitudine di Elena Linari, che trova il coraggio di fare coming out in un mondo, quello del calcio, in cui l’omosessualità è ancora un tabù, fino a quella di Mimmo Lucano, abbandonato e tradito dalla sua gente prima ancora che dai giudici e dalla politica. È una solitudine che, invece di schiacciare i protagonisti, invece di piegarli, diventa la leva eccezionale attraverso cui ognuno di loro ha costruito la propria rinascita, una solitudine creatrice, costruttrice, la definirei quasi una scintilla da cui è destinato a divampare l’incendio. 

Mimmo Lucano è stato uno dei protagonisti degli ultimi anni, il simbolo di un’Italia molto diversa da quella di certo sovranismo. Perché non si parla più di Riace, di quella Riace? 

Le ragioni sono molteplici. In parte politiche perché, col nuovo governo giallorosso, quella narrazione, un tempo funzionale all’opposizione a Salvini e all’esecutivo più di destra e oscurantista della Storia recente, oggi non ha più lo stesso impatto sull’opinione pubblica. In parte perché quel castello di fango e delegittimazione che è stato costruito attorno a Riace dalla politica – destra e sinistra senza eccezioni – ha sortito gli effetti sperati, spolpando dall’interno quell’utopia che è stata per quasi due decenni Riace, togliendole la terra su cui stava in piedi, cancellando, anche comunicativamente, una dopo l’altra, le prove della sua efficacia. Oggi, a distanza di quattro anni ormai da quando è partita la prima inchiesta, ogni prova di illecito è caduta nel nulla, al punto che il Consiglio di Stato ha definito il sistema Riace “un modello encomiabile di umanità”. Solo che era già troppo tardi, i migranti se n’erano ormai andati, il colore politico cambiato, i simboli dell’accoglienza addirittura cancellati in una sorta di “damnatio memoriae” che dietro di sé ha lasciato solo i ricordi e i fantasmi. Ma Riace non è altro che un seme di un albero che, come certi ulivi secolari della Calabria, può essere piantato ovunque.  

Il medium è il messaggio, recita l’opera di un grande studioso di comunicazione come McLuhan. Il grande pubblico ti ha imparato a conoscere ed apprezzare su Facebook, dove hai un numero incredibile di visualizzazioni, like, commenti. Per farlo hai dovuto impararne la sintassi, il pubblico, le potenzialità. Cosa hai capito, in tutti questi anni, di Facebook e della sua utenza? 

Che ogni mezzo ha un suo linguaggio e che, in comunicazione, non esiste necessariamente l’alto e il basso, il giusto o lo sbagliato. Esistono messaggi giusti o sbagliati a seconda del mezzo che utilizzi e del pubblico a cui sono rivolti. Se qualcuno oggi pensa di poter trapiantare Noam Chomsky su Facebook, auguri! Allo stesso modo detesto quando in libreria mi capita di sfogliare libri che sembrano zuppe raccogliticce di post e Instagram story con qualche bravo copy dietro a giustificare il costo del libro e che, alla prova dei numeri, finiscono per fallire miseramente perché – con tutti i limiti di un mercato che si è via via sempre più appiattito verso il basso – la qualità alla fine paga ancora. Il che non significa che i social producano necessariamente cultura bassa e a buon mercato, ma vanno utilizzati con la consapevolezza del pubblico e del target a cui ti stai rivolgendo, senza avere la sciocca pretesa di piegare a te il mezzo ma, viceversa, con l’umiltà e la pazienza di adattare il tuo linguaggio al mezzo che stai utilizzando. Credo sia questo che significhi, più o meno, la parola professionismo.  

Hai praticato, pratichi la politica e la comunicazione, due ambiti che conosci a menadito. Ma nel 2020 è ancora possibile fare attività politica senza avere un account? 

Nel 2020 non è possibile neanche aprire un bar o fare il geometra senza un account, figuriamoci il politico. Il che, attenzione, non significa che avere un account e fare grossi numeri sui social si traduca automaticamente in un successo elettorale. Parliamo di due mondi e di due medium molto più lontani di quanto siamo disposti a riconoscere. Un esempio concreto per capirci: io ho più del doppio dei follower di un Calenda e, se parliamo di post, raggiungo almeno tre o quattro volte il suo pubblico. Ma, se dovessimo riempire una piazza per un comizio, porterebbe dieci volte tanto il pubblico che potrei fare io. Sono luoghi, tempi, linguaggi diversi, aspettative e respiri differenti, e non sempre ciò che funziona da una parte poi ha successo dall’altra. Perciò, per rispondere alla tua domanda: sì, l‘account è fondamentale se vuoi fare politica (senza quello neanche esisti, un po’ come un sito internet dieci anni fa), ma chi pensa di costruirsi una carriera politica su Facebook temo che resterà deluso.  

I tuoi detrattori usano spesso l’espressione buonismo. Ma cos’è, per te, il buonismo? 

È una parola che detesto perché, come tutte le parole abusate, ripetute come slogan, conduce sempre inevitabilmente alla semplificazione, alla banalizzazione. L’aspetto più interessante del fenomeno è che spesso e volentieri questo termine viene utilizzato da chi non sa neanche cosa voglia dire. Lo capisci quando lo senti utilizzare nella sua variante “finto buonista”: ovvero il suo esatto contrario. Delle due l’una: o sei un buonista (vero), altrimenti, se sei “finto”, significa che non lo sei. Ma capisco che far cogliere questa leggerissima sfumatura lessicale a gente che scrive “ho” senz’acca sia una pretesa ardita… 

Se ti chiedessero di scrivere una versione aggiornata di questo libro e aggiungere un altro personaggio, chi sceglieresti? 

Una persona che non c’è più, un uomo vero, un prete di strada, di quelli che non esistono più. Uno di quelli che si svegliava ogni mattina e andava a portare la colazione ai poveri della sua città, Como, e che, in vita, è stato osteggiato, attaccato, persino multato dalla stessa Giunta che, il giorno della sua morte, lo ha osteggiato. Si chiamava Don Roberto Malgesini. Mi piace ricordarlo intanto qui. Un giorno, chissà. 

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