Con Paolo Ciampi in un viaggio da Firenze all’India

Anni fa – troppi – mi sono ritrovata a trascorrere un intero anno universitario in Alsazia. Non so se vi è mai capitato di fare un giro da quelle parti proprio in questo periodo, quello natalizio, ma l’atmosfera che si respira è davvero qualcosa di magico.

Eppure si sa, può capitare che il Natale porti con sé anche alcuni ricordi che si tramutano in nostalgia, soprattutto se si è lontani. È così che, ormai troppi anni fa e in un’Alsazia che profumava di vin brûlé e gaufres ricoperti di cioccolato, ho dato vita a un rituale un po’ strano: entrare nelle case della gente con lo sguardo – attraverso i vetri di quelle finestre ad altezza d’uomo – e con la fantasia – attraverso le finestre della mia immaginazione.

In Il maragià di Firenze, ultimo romanzo di Paolo Ciampi, edito da Arkadia Editore per la collana Senza rotta, ho ritrovato le stesse emozioni delle passeggiate tra le strade di Mulhouse; la stessa innocente e genuina curiosità di interrogarsi sul tempo e sulla vita di ognuno, che si tratti di una piccola famiglia francese o di un, purtroppo, poco conosciuto maragià di passaggio a Firenze.

L’Indiano sarà pure quella statua in fondo a Firenze, nello sguardo che non mi guarda, quell’espressione che non si concede. Però è anche una mano che non si stacca dopo che ci si è presentati. Così anche su questa mattina si distende la stessa domanda. Questa storia che poi non è una storia: la voglio proprio raccontare?

Così l’autore si interroga nelle prime pagine del romanzo, ed è così che io – che di come si scrive un libro ne sono davvero poco – immagino che nasca il progetto di un romanzo. Perché è da qui che nasce tutto, dalla volontà di trasformare idee e pensieri, in inchiostro nero su un foglio bianco. E non necessariamente per qualcun altro. Va bene anche che sia una storia da tenere solo per se stessi. Perché dare concretezza alle idee e ai pensieri significa anche dare un volto ai personaggi che li abitano o, come in questo caso, dare voce a chi non ha avuto abbastanza tempo per finire di raccontare la propria storia.

Che tipo di romanzo è Il maragià di Firenze?

È una domanda alla quale rispondo con fatica. È un diario di viaggio, questo senza dubbio. È una giornata di fine giugno e siamo seduti a un tavolino con l’autore, una birra davanti e un taccuino da riempire.

Da qui intraprendiamo un viaggio che attraversa Firenze, una Firenze di qualche anno fa quando l’autore era ancora un universitario, e una Firenze moderna che ospita nuovi studenti, nuovi rituali, nuove storie.

Monumento al Principe Indiano

Sempre seduti allo stesso tavolino, con la stessa birra e lo stesso taccuino davanti partiamo anche per un altro viaggio, quello che ci porta in India e dall’India ci fa tornare in Europa con tappa a Londra. 

Eppure, perdersi tra le righe che ricostruiscono la storia dell’Indiano è anche un po’ respirare l’atmosfera di una fiaba. L’India, si sa, ci rimanda alle storie di Le mille e una notte e stimola la curiosità verso una mondo che ci pare così lontano e incantato.

Sì, sei tu, pescato su Internet. Allo stesso modo di tutti noi, che siamo immagini che su Internet approdano, non sempre di nostra volontà. Figurati tu, che in vita non hai conosciuto nemmeno il telegrafo senza fili.

La questione del rapporto con il web, Google e la tecnologia affiora molte volte e ci spinge a riflettere. In un’epoca nella quale basta un clic per raggiungere e reperire qualsiasi informazione, abbiamo dimenticato la bellezza dello sfogliare pagine consumate dal tempo e da altri mani curiose; abbiamo sacrificato il piacere di curiosare, confrontare, approfondire, per avere tutto e subito.

Le nostre vite, mi è venuto in mente, sono come questi passeggeri che si accalcano ai gate delle partenze, ora sono in fila e in qualche attimo dopo non ci sono più, sono partiti. Allo stesso modo degli ospiti degli alberghi, ancora questa immagine, che al mattino saldano in conto e lasciano la camera a chi verrà.

Che legame c’è tra tempo e ricordo? Se l’autore non si fosse interrogato sulla figura di quella statua in fondo a Firenze, se non avesse ripercorso, navigando, le tappe della sua breve vita, il tempo e la memoria quanto ci avrebbero restituito di questo volto impresso sulla pietra?

Eppure c’è un posto nel quale tempo e ricordo si fondono e quel posto è l’Arno, lontano parente del Gange e rispetto a questo grande fiume di molto più piccolo, ma ugualmente costituito di acqua e, quindi, di memoria: “i ricordi sono acqua che scorre, le vite lo sono”.

Firenze, che di questo romanzo è lo sfondo ma anche un personaggio. Firenze, che dopo Bologna, è la città che mi ha rubato il cuore, ora ha un motivo in più per essere visitata.

Immagini: https://bit.ly/38k78QO e Arkadia Editore.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.