Quando il cielo vuole spuntano le stelle – Da Gulu Station a Roma

«Mi chiesi come mai non avevo mai sentito parlare di qualcosa che era dappertutto. Ma poi mi venne in mente che ero di Gulu Station e che al villaggio non ci preoccupiamo molto di cosa c’è dentro le cose. Ci interessa solo cosa c’è dentro le persone.»

Anche in quest’anno, in questo 2020 che volge al termine e che è stato segnato da una pandemia, si è parlato di migranti, di persone che fuggono dalle loro terre senza speranza con il sogno di arrivare dall’altro lato del mare, all’estero, che viene visto come un luogo esotico, ricco e foriero di lavoro, di accoglienza e di una prospettiva di vita molto alta. Sarebbe bello dire che è davvero così, che dall’altro lato ci sono persone che tendono non solo le mani ma anche le braccia, che aprono le porte di casa loro, scevri da pregiudizi e paura del diverso. Non è sempre così.

Di storie di persone che partono e arrivano, sia inventate che realmente accadute, la letteratura è piena: queste due tipologie di storie hanno in comune il fatto che siano veritiere (anche se i personaggi che partono sono inventati, le traversate sono davvero così come vengono descritte), il racconto di tradizioni, di canti popolari, di odori e sapori, se chiudiamo gli occhi possiamo davvero percepire il fastidio della polvere che si solleva da terra e arriva negli occhi. In queste storie vengono citati proverbi, detti folcloristici, fiabe e aneddoti che anche noi – in qualche modo – conosciamo, seppur con delle differenze.

Leggendo Quando il cielo vuole spuntano le stelle di E.C. Osondu, arrivato in Italia grazie a Francesco Brioschi Editore e tradotto da Gioia Guerzoni (una delle più brave traduttrici che abbiamo in Italia, btw), ho pensato molto ai libri sui viaggi migranti che ho letto negli ultimi anni e la prima differenza che ho trovato rispetto agli altri è stata la meticolosità con cui viene narrato ciò che accade prima della traversata, i momenti di convivialità e di attesa, fatta perlopiù di paura e di eccitazione. Osondu dà vita a un protagonista, voce narrante, che descrive nel dettaglio la scelta di partire, ispirato da un ragazzo più grande del suo paese. Il protagonista descrive le persone che incontra e racconta le loro storie e il perché hanno deciso di mettersi in viaggio verso una meta ben precisa o verso l’Europa e basta, un paese che ha tutto ciò che si ha a Roma e in Germania, «ma moltiplicato per dieci o forse cento, un paese in cui la moneta è rispettata in tutto il mondo, è una moneta di ferro, solida, che non si fa portare via dal vento».

Il protagonista, che si fa chiamare figlio di Nene (quest’ultima lo ha preso con sé quando sono morti i suoi genitori), abita nel villaggio africano di Gulu Station, un posto in cui, nonostante il nome, i binari della ferrovia non sono mai arrivati, un luogo in cui tutti conoscono tutti, dove tutti sono molto bravi a farsi gli affari degli altri, dove la vita viene accettata così com’è data.
Il figlio di Nene vuole andare a Roma perché crede che Roma sia il paradiso (non solo perché “ci vive” il Papa). Decide che la sua meta sarà Roma perché è lì che Bros, un ragazzo un po’ più grande di lui che torna al villaggio solo per conquistare la signorina Koi Koi e portarla con sé nella Città Eterna, ha fatto fortuna. Bros racconta cose meravigliose della città in cui abita, dei soldi che guadagna, dell’agiatezza in cui vive. Il figlio di Nene si lascia incantare dal resoconto di Bros e decide di partire: vuole rendere Nene felice e riempirla di doni.

«Partirai per il tuo viaggio, ma non è ancora il momento giusto. Quando il cielo vuole, spuntano le stelle, mai prima» dice Nene al figlio. Ed è proprio quando Nene parte per un viaggio senza ritorno, che gli astri spuntano e il nostro protagonista è pronto a partire. Ma per raggiungere Roma bisogna attraversare prima il deserto, poi il mare che è un deserto fatto di acqua.
Nel suo viaggio la voce narrante incontra persone che provengono da diversi villaggi o città e che – come lui – hanno un sogno o un obiettivo che vogliono assolutamente realizzare. C’è Ayira che parte per aiutare la sua famiglia; c’è Anyi che vorrebbe diventare un calciatore famoso e che non è mai stato scelto dagli scout del suo paese; c’è Zaaid che fugge dalla guerra. Alcuni di loro partono sprovvisti di contatti nel luogo che hanno scelto come destinazione, altri, come il protagonista, hanno qualche conoscenza e un numero di telefono da chiamare non appena arriveranno.
In questo romanzo breve ed evocativo non vengono raffigurati solo momenti collettivi positivi. Al contrario, viene raccontata anche l’altra faccia della medaglia, le proposte che giungono da uomini ricchi che offrono parecchi soldi e viaggi aerei in prima classe solo per trasportare polvere bianca.

I capitoli, tutti molto corti, sono segnati dalle sensazioni del protagonista che riesce a riconoscere – grazie a un suo sesto senso e alla voce di Nene che non lo abbandona mai – quando una cosa è giusta e quando è sbagliata. Questa storia offre uno spaccato di vita vera (a tratti triste, a tratti gioiosa), ma la narrazione è energica, alimentata dalla speranza di chi decide di partire, rischiando di perdere la vita e gli affetti, di annegare in mare, di morire per ipotermia e tutto ciò che già conosciamo per via della cronaca nera e dei servizi al telegiornale a cui, turbati, assistiamo. Questa storia, dal finale asciutto ma pieno di aspettativa, ci ricorda che i sogni non sono invincibili ma che se ci crediamo fermamente possiamo fare di tutto per realizzare non solo i nostri ma anche quelli degli altri, di chi arriva dall’altro lato perché – come scrive Alessandra Di Maio nella postfazione – dobbiamo ricordarci che «il mare unisce le terre, più che separarle».

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