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Pelli

di Valentina Nicoli

Via Garibaldi si allunga ogni notte. No, davvero, qualcuno aggiunge una mattonella ed è sempre più lunga. Forse proprio noi che la camminiamo, coi nostri stessi passi. Altro che un chilometro, ormai saranno dieci. Poi di giorno no, di giorno coi negozi aperti e le biciclette che schivano i passanti, si accorcia di nuovo. Ma di notte via Garibaldi è lunghissima. È più lunga a dicembre e gennaio con le luminarie che non si sa bene cosa siano, cioè si sa cosa sono, sono un uomo e una donna testa contro testa, ma è il significato profondo che sfugge — o meglio colpisce e poi sfugge, sotto nella pancia si sa cosa vuol dire ma su nella testa no —, forse rappresentano la fusione intellettuale fra individui, forse vuol dire che un giorno si inghiottiranno a vicenda.

A me chi m’inghiotte ora che lei è andata via?
Sento che la domanda che mi mangia le viscere è questa, mentre percorro a falcate imprecise via Garibaldi. Ho le gambe lunghe e il sole negli occhi, il sole pallido del mattino presto che si riflette sulla miriade di mattonelle mi stordisce. Sono in un deserto di ghiaccio circondato da altri esseri umani che come me vanno da qualche parte. Loro con passo sicuro, io con le gambe che mi fanno un po’ male. La crescita, ha detto il medico, Questo ragazzo s’è alzato di botto. Io, intanto, ho dolore a tutte le ossa, le rotule spesso cedono, la schiena è irrequieta e trasmette lamentele alla testa, che pure fa male. Nella testa che fa male, in mezzo agli occhi socchiusi che si difendono dai colpi di lama del sole, sento il pensiero di lei. È andata via qualche mese fa e tutti mi dicono È normale, siete giovani, parole sputate fuori con saccenza. Vorrei rispondere Quindi non deve far male?
Forse c’è lei nelle mie ossa che crescono.
Cammino col pensiero che l’unica persona che io abbia mai amato è andata via ed è rimasta solo nelle mie ossa. Abbiamo sedici anni, siamo ragazzini, Amore è una parola che non si deve usare quando sei ragazzino, quindi io non la uso e non lo dico a nessuno che da quando lei è andata via io non ho tanta voglia di alzarmi la mattina e che le mie giornate sono come via Garibaldi, s’allungano ogni notte.
Che a scuola avevo solo lei e ora mi sento un po’ solo, che non so con chi andare a comprare la focaccia farcita dal focacciaro, che quando la incontro alle macchinette del caffè con le sue amiche brufolose nemmeno mi sorride, che prima di incontrarla la riconosco nell’aria perché ha quell’odore di profumi troppo costosi sulla pelle di una ragazzina.

Svolto in via dei Mercanti e la mia pelle è nera come il cielo senza stelle. Non cammino sola.
Sono venuta in questa strada la prima volta con un ragazzo, mi ha portata ad ascoltare un concerto. Concerto forse non è la parola giusta: musicisti amatoriali che si esibiscono dal balcone di un palazzo storico, un palazzo di ringhiera di quelli popolari, per il pubblico stipato nel cortile interno. La musica è strana, non ha tempo, non ha sentimento, non ha storia, nulla che si sia già sentito. È musica che ricorda sé stessa e la sento riecheggiare nelle mie orecchie a sventola. C’è odore di vin brulè e di gelsomini che crescono rachitici sui balconi delle case. Io accanto a questo ragazzo penso alle mie vertebre che si comprimono per permettere ai miei occhi di vedere i colori eccentrici dei vestiti dei musicisti, i loro volti trasognati, i loro strumenti che sono un tutt’uno coi loro corpi.
Ci passo spesso di qua mentre torno dal lavoro, la mattina presto col sole a sinistra nascosto dalle case. Quando intravedo il cancello del complesso di ringhiera mi massaggio il palmo destro della mano, coperto di calli e bruciature. Sento la pelle, è ruvida e sottile dove fa male. Forse è colpa dei bicchieri bollenti tirati fuori dalla lavastoviglie, o dello shaker che stringo forte col suo odore di menta, o del coltello che uso per affettare il lime.
Un’altra mano sfiora il palmo della mia e mi riporta indietro negli anni. È la mano di mia mamma che è morta da qualche mese. È lei che mi cammina accanto. Mi tocca la punta delle dita con il suo tocco tiepido, come il latte che si dà nel biberon ai bambini e si testa prima col mignolino. Mi tocca il ricordo di lei e delle lezioni di piano che mi dava da bambina. Di come guidava le mie mani sui tasti e le stringeva quando mi innervosivo e le sbattevo violentemente sulla tastiera che emetteva suoni arrabbiati. Le note dei concerti dal balcone si mescolano a quelle dei dischi che lei mi faceva ascoltare e ai movimenti ritmici dei miei piedi,

Un passo, sono in via Barbaroux, e le mie gambe sono corte. Procedo affannato con un maglione di troppo verso l’ufficio e so che sotto le mie ascelle si sta disegnando un alone che sarà causa di imbarazzo quando dovrò togliere il cappotto. I colleghi non mi hanno molto in simpatia, non mi hanno molto in generale, mi considerano al pari della fotocopiatrice: una cosa che sta lì e fa il suo lavoro in modo relativamente silenzioso. Ma poco importa, finché ho qualcosa a cui tornare. Fra un mese e due giorni potrò chiamare la donna che amo Mia moglie e sua figlia sarà anche Mia figlia. Sono una fotocopiatrice sudata con una casa a cui tornare. Passo davanti al negozio di surgelati e penso che sulla via del ritorno mi fermerò a comprare la schiacciata toscana e un po’ di prosciutto e magari anche le crocchette di patate e cucinerò la cena alle mie due future donne. Poi farò le treccine alla piccola, quelle sottili da indiana, quando ha i capelli ancora bagnati; le piace perché la mattina dopo le scioglie e i suoi capelli sono ondulati come la protagonista di quel cartone animato che mi ha fatto vedere cento volte tirandomi il maglione nei suoi momenti preferiti. La guardo mentre si rimira allo specchio con un sorrisetto furbo e ravviva le sue onde nere e penso che è proprio nata per essere mia figlia. E sento addosso lo sguardo benevolo delle mia futura moglie che pensa, almeno spero, la stessa cosa. Mi stacco il maglione dalla pelle, sbuffo, e accelero il passo verso l’ufficio.

In via Venti Settembre mi cede il ginocchio sinistro in una fitta scricchiolante. Ho le gambe pesanti, anche se le vedo sottili e sfocate, come sfocati sono i visi dei passanti attorno a me. So che ho scordato a casa gli occhiali, non leggo le scritte delle insegne, vedo i colori, ne confondo le forme, non sono in una città ma in un quadro astratto. La pastiglia delle quattro del mattino e quella delle sei si fanno compagnia nello stomaco vuoto che rimbomba a ogni passo. Sto cercando un bar dove comprare due cornetti, a casa la moka è pronta sul fornello che va solo acceso.
Ho un nodo nella spalla destra, bilancia il dolore al ginocchio sinistro, mi tiene in piedi. Lo tocco e si annoda di più sotto la pelle sottile di carta velina spiegazzata. È una pelle bianca macchiata di caffè vecchio come me. Una pelle infreddolita. Eppure sono ben coperta, sento il peso del piumino sulle spalle; mi sforzo di localizzare il freddo e lo sento nella testa, la sfioro con una mano e mi accorgo che ho pochi capelli corti. So che sono bianchi, non li sento appesantiti come quando impiastricciati dalla tinta, sono radi, sottili.
Lei mi aspetta a casa, ecco a cosa devo tornare. È la sensazione di avere un filo legato al polso che mi riconduce indietro, che mi guida nel mondo nebuloso della miopia. Dormiva quando sono uscita, o forse non davvero. So che la troverò a letto a leggere uno dei suoi tomi e che la giornata potrà iniziare. Le porterò il caffè e il cornetto e lei leggerà un po’ per me.
È venuta a vivere con me quando mio marito se n’è andato vent’anni fa. No, non è mica morto. Lo so che noi vecchi diciamo che ai nostri tempi le relazioni non si abbandonavano, si aggiustavano, ma mica è vero per tutti. Mio marito mi ha abbandonata dopo trent’anni di matrimonio, quando ormai il più della vita era andato. E io sono rimasta a bocca aperta, senza saliva. Lei è venuta a vivere con me per farmi compagnia, forse per pietà, per cucinare per me, per tenermi d’occhio. Poi è rimasta. E le piace la marmellata ai frutti di bosco.

Imbocco via Principe Amedeo e ho le labbra che sanno di fumo di sigaretta. Mi riconosco per i tacchi alti che picchiettano penetranti sul selciato. Sulla spalla destra ho un peso, una borsa da ufficio rettangolare, rigida, contiene il mio laptop con tutti i miei articoli, reportage, progetti. C’è anche un taccuino verde su cui annoto a mano pensieri con penne infantili comprate alle bancarelle del mercato di Porta Palazzo.
Ho la pancia gonfia, sento la pelle tirare, non la pelle di fuori, quella è molle e cadente ormai da anni, quella di dentro. La pelle degli organi tutta tesa. L’utero che lamenta la sua inutilità. È la menopausa, dice il medico, fa effetti strani. La porto con fierezza dentro una camicia che la lascia intravedere, non mi fa paura. Agli altri sì, a chi mi sta attorno faceva paura già anni fa, l’ombra del momento in cui non avrei più potuto procreare. Me lo diceva mia mamma che dovevo trovarmi un uomo, che era ora. Me lo diceva mia nonna di sposarmi, che avrei avuto il suo vestito. Me lo dicevano le amiche, Non lo vuoi un bambino?, Vedi che carini. Tutti così spaventati dal momento in cui avrei smesso di sanguinare una volta al mese, ma non io. Sapevo cosa volevo, a vent’anni, come a trenta, come oggi che ne ho cinquanta e di bambini non ne ho, di mariti nemmeno, ma neppure di mogli, né cani, gatti o canarini. Ritorno la sera a un appartamento grande, ordinato e vuoto e io non mi sento mai vuota.

Svolto in via Accademia Albertina e ho un’erezione. Colpa mia che ho pensato troppo a quella ragazza che stamattina ho lasciato nel letto ancora mezza nuda. Le ho lanciato uno sguardo prima di uscire, uno sguardo un po’ troppo lungo perché aveva i capelli rossi sparsi sul cuscino come spaghetti al sugo e la bocca semi aperta. Russava lievemente, come tante piccole bolle di sapone che scoppiano in rapida sequenza, e questo mi ha fatto sorridere perché odio il suono del russare, ma non mi sono accorto, per tutta la notte, che lei lo stesse facendo accanto a me. Mi stringo nella sciarpa di lana e sento addosso l’odore del suo sudore anche se ho fatto una doccia, la sua pelle è la mia. Sento le sue dita sottili premere sulle mie natiche. Sento la sua lingua nell’orecchio e provo a distrarmi guardando i passanti nei bar ma la pelle mi richiama lì. Non so se mi spingerà a cercarla di nuovo, non so se la pelle può avere tanto potere sulla mia volontà, ma so che la giornata in università è persa in partenza, in mezzo alle righe vedrò lei e si porterà via i miei occhi.

Entro in piazza Carlo Emanuele II e sono solo io. Io in mezzo ai lampioni alti con i vetri colorati e il metallo ricciuto che li ingabbia. Io al cospetto dell’ampiezza del cielo rinchiuso fra i tetti. Sono nel cuore della città perché il cuore di Torino sono le sue pizze. Perché il cuore di un posto lo decidiamo noi.
Entro nel cuore della città e sono un cuore anch’io. Nulla attorno, solo un cuore con le sue camere e i suoi vasi sanguigni. Non ho voce, solo un ritmico scoordinato battito. Non ho voce stridula di ragazzina o frignante di bambino, non ho voce sottile da anziana o roca da uomo. Non ho voce e non ho nulla più da dire perché sono solo un cuore che batte nudo in una piazza.
Ma lei lo sa che è un cuore? Mi chiede una vecchia che passa di lì col suo carrellino della spesa.
Sì, signora, c’ho fatto caso.
Non ho peso, solo qualche grammo. Non ho organi coi loro bisogni pressanti. Non ho fretta, finalmente, non ho una meta, una scaletta di cose da fare.
Mm, Annuisce la donna.
Non sono spezzato e non fremo di desiderio. Sono un grumo di carne viva senza peso. Non agogno. Non mi scappa la pipì, non ho fame, non ho voglia di far sesso.
Non le fa strano? Dico, essere solo un cuore.
Pensavo peggio.
Farei spallucce ma non ho spalle, non ho nodi vicino alle vertebre che fanno male. Non ho spalle e non ho pesi sulle spalle. Nessuno può dirmi Devi aver le spalle larghe in questa situazione difficile, perché io le spalle non le ho. Non ho ossa, nulla che si possa spezzare, piegare, aggiustare.
Ma come fa senza la testa? Mi domanda gracidante la vecchia curiosa.
A quanto pare non serve tanto.
Forse si pensa dal sangue, spiegherebbe tante cose. Se si pensasse dal sangue si penserebbe dal posto dove il sangue corre. Allora a volte si penserebbe dalla testa, a volte dalla pancia, a volte dai piedi, altre dalle dita. Io sono solo un cuore e il mio sangue coi suoi pensieri è tutto lì.
E senza pelle? Come fa senza pelle?
Signora, mi creda, dopo aver cambiato tante pelli è quasi un sollievo non averne una.
E come la mette con gli occhi? Gli occhi, lo specchio dell’anima, come fa senza quelli?
Già mi si vede il cuore. Ammesso che cuore e anima siano la stessa cosa.
La signora si siede accanto a me, su un muretto bianco sporco di calce. Sparisce anche lei, sparisce la pelle fredda bianca come le pagine non scritte, sparisce l’alluce valgo, spariscono le mani gonfie, gli occhi neri, le guance cadenti da carlino, i capelli lunghi bianchi, sparisce il cranio, la dentiera, lo stomaco rovinato, l’unico rene.

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