Chissà se i bagarini esistono ancora. Porte aperte, Paolo Condò e me

La prima volta che sono stato allo stadio avevo 19 anni e stavo vivendo, senza saperlo, il periodo di tante nostalgie di oggi. 

Laziale da sempre, il mio primo appuntamento allo stadio è stato in Spagna, al Sánchez-Pizjuán di Siviglia: era la classica gita in trasferta del quinto superiore, quando il CoVid non c’era e niente avrebbe potuto fermare quello che per molti era il primo viaggio fuori dall’Italia, quel momento di gioiosa maturità che anticipava quella ufficiale, di maturità, e più evidentemente la fine del liceo. 

Io e i miei amici avevamo incontrato un bagarino, e chissà se esistono più o se si sono estinti con la tessera del tifoso. A forza di escuchame e di s aggiunte alla fine di ogni parola, avevamo acquistato due biglietti in tribuna per vedere l’Inghilterra di Don Fabio Capello contro la fortissima Spagna. Una ramanzina dall’intero corpo docenti, il dubbio che quei biglietti fossero finti, la fuga dopo cena ed eccoci là, praticamente a due metri dal campo, a cantare “Villa Villa Villa, Villa Maravilla” e sentirci parte di qualcosa di grande, di semplice e inspiegabile allo stesso tempo: la magia del calcio.

Ha ragione Paolo Condò quando dice che il suo Porte aperte, libro illustrato edito da Baldini + Castoldi, è un’autobiografia per immagini. Templi del calcio come l’Olimpico, il Camp Nou, San Siro, il Santiago Bernabeu e persino il Manuzzi di Cesena o il Dall’Ara di Bologna fanno parte della nostra vita e ci fanno rivivere mondi e culture diverse sotto il comune denominatore del calcio. Condò in questi stadi ha vissuto il suo magistero professionale da cronista, quello che l’ha portato ad essere uno dei giornalisti sportivi (e non solo) più rappresentativi e preparati della sua generazione.

Ma non solo. Paolo Condò non è soltanto un reporter, un cronista della messa cantata del calcio, ma un suo fedele fervente e appassionato. Condò ama le storie di fantasia al potere e partecipazione, nello sport come nella vita (come non fosse la stessa cosa, peraltro): dal Barça di Messi e Pep Guardiola a ritrovarsi per caso davanti a Fidel Castro che arriva a La Paz per soffiare il vento caldo della rivoluzione. O storie di passione cieca, dal pub di Glasgow dove si scontrano gli eterni rivali di Celtic e Rangers a quel San Paolo che, come un altro Sanpa ben famoso in questi giorni, ha schiacciato Maradona sotto il peso del suo amore claustrofobico.

Perdendosi tra immagini e parole, le Porte aperte di Condò finiscono per portarci in mondi che non ci aspettavamo, a cavallo tra ciò che definiamo reale e ciò che definiamo finzione, spesso sbagliando. 

Sono tanti i riferimenti tra grande e piccolo schermo, da Invictus a Missing passando per Lisbon Story o le trasferte colombiane che sembrano uscite direttamente da Narcos: la realtà delle foto si incrocia con la finzione cinematografica senza soluzione di continuità, come suggerisce lo stesso Condò quando rivela che ogni fotografo al Maracanã si ripromette di scattare la stessa foto:

Ci sono bellissime foto del Maracanã visto dalla favela che gli sta di fronte, la Mangueira. Sono immagini “costruite”, nel senso che i vari fotografi portano gruppi di ragazzini sugli stessi tetti ogni volta che allo stadio c’è un evento importante – e dai Mondiali alle Olimpiadi gli ultimi anni ne sono stati prodighi – alla ricerca del contrasto perfetto. La favela è povera e fatiscente, i ragazzini indossano t-shirt sdrucite e braghette sporche, ma da relativamente vicino osservano il Maracanã al suo apice, nel momento in cui miliardi di persone lo stanno vedendo in mondovisione. È una foto “facile”, una volta che l’hai pensata: ma non smette di essere suggestiva.

La televisione ha trasformato per sempre lo sport in spettacolo, strutturandone i tempi, le parole, i meccanismi per adattarli alla comodità del pubblico a casa. Le foto e i racconti di Condò ci restituiscono il dietro le quinte, ciò che avviene a telecamera spenta ma che, per l’autore, ha lo stesso valore di ciò che avviene in diretta: i sorrisi dei colleghi, le persone incrociate di passaggio, le deviazioni, il contorno.

Cosa rimarrà di questi anni ’20? Chi la scatterà la fotografia, ammesso che ci sia qualcosa da mettere nel nostro personalissimo album di ricordi e di sogni che lo sport ci regala? Il calcio di oggi vira verso il grottesco, segnato dal vuoto che circonda i giocatori in campo e il silenzio che accompagna il jingle della Champions, la famosa musichetta, o l’inno nazionale. E ci rende lontanissimi nelle nostre case, a controllare se la prossima partita è su Sky o su DAZN, fare l’asta del Fantacalcio su Zoom, controllare le condizioni dei nostri giocatori preferiti tramite le storie Instagram che condividono.

Ecco, la domanda che vorrei fare a Condò è capire cosa sarebbe cambiato, se avesse cominciato oggi, se ne sarebbe valsa comunque la pena. E mentre provo a immaginare una risposta, mi rimane un senso di nostalgia verso le trasferte che ho fatto, con il Camogli in autogrill e la sciarpetta al collo, verso il caffè Borghetti che esiste solo allo stadio. E quando mi diranno che in fondo sono 22 milionari che corrono, racconterò di ciò che rappresentano il San Mamés, Maradona, l’erba di Wembley.  Porte aperte sul mondo che non vediamo l’ora di tornare a spalancare.

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