Caressa e Bergoni

Il cielo è azzurro sopra Berlino – Il teleracconto di un Mondiale che ha cambiato tutto

L’anno del mondiale è stato il primo in cui quelli che hanno meno di 40 anni si sono goduti un mondiale vinto da noi, alla faccia di Pasadena, Byron Moreno e Zenga che va a farfalle.

L’anno del mondiale avevamo una difesa pazzesca, con un Buffon in stato di grazia, Nesta e Cannavaro a fare da muro. Cannavaro, poi, ha vinto pure il pallone d’oro. Ma il giocatore che ha deciso il mondiale, tra gol e insulti alla mamma di Zidane, è Marco Materazzi. Vedi, alle volte.

L’anno del mondiale al numero 1 in classifica c’era Sei parte di me degli Zero Assoluto. Gli Zero Assoluto, ci rendiamo conto? Ma l’anno del mondiale è Po po po po po po, Seven nation army in stile curva. Siamo una squadra fortissimi. Lo vogliamo dire? E adesso ridacci la nostra gioconda perché siamo noi i campioni del mondo.

L’anno del mondiale è quello che ha deciso, se ce n’era ancora bisogno, che contro la Germania vinciamo noi. In casa loro, con tutto contro, con tutti contro. Dopo un palo, una traversa, la sfortuna che perseguita.

Vinciamo noi e basta.

L’anno del mondiale, dopo i festeggiamenti, dopo gli idranti, i salti sulle macchine, sugli apetti degli altri, dopo i pianti e le risa, ho rivisto la partita con i miei amici, in religioso silenzio. Uno dormiva, l’altro forse. Io no, l’ho vista tutta, pensando che ora potevo pure morire lì, non mi fregava più niente.

L’anno del mondiale è l’anno nostro, e questo rende tutto il resto poco interessante, come se fosse un mondiale come gli altri, sì, ma col nostro cappello sopra. E dire che quel mondiale tedesco lo abbiamo visto in un altro modo, nel vero senso del termine. A telecamera lontana, con pochi primi piani e pochi replay, la camera fissa come uno spettacolo in 16:9, il massimo della fiction, o come stare allo stadio, con il sonoro e il campo, immenso, davanti. Germania 2006 è il primo mondiale pensato su televisori in 16:9, LCD a schermo piatto e rettangolare, per noi che stavamo mandando il Mivar in pensione e ci apprestavamo a salutare la terza generazione di Playstation. Per non parlare di quella promozione Mediaworld: un televisore in regalo se l’Italia vince i Mondiali. Ahi.

La vecchia ripresa, fissa sulla palla e sul giocatore, è roba da calcio d’altri tempi, da Notti magiche e Milan degli invincibili: il futuro sono i movimenti senza palla, il widescreen, i giocatori che attaccano gli spazi. Il futuro è il digitale.

Non solo. Quello del 2006 è il primo mondiale senza Bruno Pizzul. Ecco, sicuramente non li ha commentati tutti lui, nel 1982 c’era Nando Martellini con il mitico “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”. Noi under 40, però siamo cresciuti con la nazionale raccontata da Pizzul, dalla voce istituzionale e rassicurante del nonno bonaccione, dove l’enfasi di quello che succede sul campo non deve mai sconfinare nel drammatico.

Bruno Pizzul è l’ultima voce unica della nazionale, di quella stessa nazionale trasmessa sempre e solo dalla Rai. Germania 2006 è il primo mondiale trasmesso da due emittenti, due stili, due mondi diversi: Rai e Sky.

La Rai si presenta con una squadra già rodata nel tempo: Cerqueti, Nesti, Bizzotto, Forti e Bezzi. A commentare la nazionale, invece, Marco Civoli e un campione come Sandro Mazzola. Uno che ha giocato Italia-Germania 4-3, per intenderci. Ma la squadra Rai, per la prima volta, è chiamata a confrontarsi con un avversario, un avversario tosto e pronto per fare il grande salto. I cronisti sono Compagnoni, Tecca, Pardo, Gentile, Foroni, Tavelli, Di Marzio, Nucera e Prini, mentre le partite della nazionale sono pane per Fabio Caressa e un campione del mondo come Beppe Bergomi.

Le forze in campo ci dicono che qualcosa sta cambiando: la spedizione Rai conta 80 persone coinvolte contro le 225 complessive del colosso di Murdoch, Sky può trasmettere tutte le partite del mondiale mentre la Rai ne avrà a disposizione soltanto 25 su 64. Certo, Togo – Corea del Sud sarà anche una partita dallo scarso appeal, ma passare da una situazione di monopolio a rincorrere l’avversario cambia completamente le prospettive di Rai Sport. E tutto questo in un anno, il 2006, che vede l’Italia trionfare la competizione.

La Rai, come spesso accade, rimane a metà tra innovazione e tradizione, tra passato e futuro. La telecronaca di Civoli segna uno stacco morbido rispetto a quella di Bruno Pizzul. Il ritmo è compassato, a bassa frequenza, e aumenta di mordente soltanto nelle fasi finali, ma senza particolari cambi di stile: i gol decisivi vengono accolti con un tenerissimo “Evviva!”, le occasioni in cui rischiamo di subire un colpo vengono scongiurate da un catartico “Mamma mia!”.

Ecco, quello che rimane, come fosse una prerogativa indispensabile per un telecronista Rai, è il tono da nonno affettuoso e insieme brontolone. Il tono è confidenziale, si sprecano i “Vai Gigi!” e i vai “Vai Fabio” verso Buffon e Cannavaro, che trasformano la nazionale in Casa Italia

Anche i momenti più intensi, quelli dove la telecronaca si innalza per accompagnare emotivamente le azioni in campo, rimangono in un lessico che è già malinconia, è lo splendido tramonto di una lingua in disuso che sa di caramelle Rossana, di segnale orario, di consigli per gli acquisti. Il passaggio con l’Australia, arrivato negli ultimi minuti su calcio di rigore, viene accolto con un liberatorio “Guus Hiddink, questa volta non ci hai fregato”. Il riferimento è ai mondiali del 2002, quando Hiddink allenava la Corea e Byron Moreno diventava l’uomo più odiato d’Italia.

La nazionale viene vista secondo la logica del miracolo italiano, che ce la fa malgrado tutto e malgrado tutti, ma soprattutto malgrado se stessa. E tutto questo in terra nemica, in quella Germania che non ci ama e in cui i nostri migranti si sentono disperatamente soli. L’ennesimo palo, preso nei tempi supplementari, fa sbottonare finalmente anche Civoli: “Ma questa è una maledizione!” Si rimane però nella logica del tutto contro di noi, dell’accanimento contro il più debole. E in questa narrazione non può che essere il più inaspettato, la comparsa che si improvvisa eroe, a sbloccare la situazione. Civoli esalta il momento con l’invocazione, invasato da un’epifania che porta al divino: “Mio dio, mio dio, Fabio Grosso. Fabio. Fabio Grosso. Fabio Grosso”.

LA partita di questo mondiale è chiaramente Italia-Germania, il trionfo in casa loro, la madre di tutte le sfide. La vittoria del 9 luglio non può essere il compimento finale del miracolo, non può essere che poesia: “il cielo è azzurro sopra Berlino”. 

Da un genere all’altro: l’approccio scelto da Sky si avvicina all’epica, alla mitizzazione dello sport. Non a caso, di tutta l’ottima squadra di Sky, viene scelto Fabio Caressa. Sarà il mondiale della consacrazione per Caressa, per la sua narrazione a cavallo tra epica e Sud America. Sono sudamericane le urla, il risultato o i marcatori ripetuti più volte: “Calcio di rigore! Calcio di rigore! Calcio di rigore!”, “Francesco Totti! Totti! Totti! Totti! Totti! Totti! Totti! Totti!”. Ma il mondiale raccontato da Caressa si intesse nel mito fin da subito, da prima del calcio di inizio. Ogni partita della nazionale viene anticipata da un’introduzione ispirazionale, carica, figlia di quella retorica tipica dei film americani, i migliori a costruirsi un’epica contemporanea.

Nella prima partita Caressa lascia momentaneamente il microfono a Bergomi, campione del mondo nel 1982. Racconta il pre-partita, un momento sacro che ha i caratteri del rito. Le stesse frasi, gli stessi gesti, come un mantra. La chiusura di Caressa, se ancora non bastasse, rende l’atmosfera ancora più carica: oggi sapremo chi siamo. 

Italia-U.S.A. pone due culture a contatto, due popoli fratelli. “Abbiamo sofferto con loro e per loro, […], li abbiamo visti volare a canestro e raggiungere la Luna. Ma nel calcio, vogliamo comandare noi”.

I mondiali 2006 diventano un grande racconto di formazione di un guerriero che vuole rialzarsi e diventare grande. Se Italia-Repubblica Ceca è la partita della paura (“Il coraggio non è mai stato non avere paura.”), Italia-Australia è la vista di un continente ignoto, di un tesoro che ci aspetta (“Vogliamo andare avanti. Fino all’Eldorado.”). Si arriva ai quarti di finali, a quell’Italia-Ucraina che è “il muro che divide la normalità dall’eccellenza” fino a Italia-Germania, dove ritorna la narrazione in stile Davide e Golia, gli italiani immigrati in Germania per i quali stiamo lottando: “Oggi essere italiani conta di più”.

Il racconto di Sky è coerente, la narrazione non si limita ad adeguarsi all’evento sportivo ma lo plasma, gli dona una chiara chiave di lettura. La voce di Caressa diventa un tassello fondamentale dei nostri ricordi mondiali, persino per chi ha optato per la telecronaca di Civoli e Mazzola.

La famigerata testata di Zidane a Materazzi sarà sempre associata all’indignazione di Caressa, dai suoi sfrontati “Eh no! Eh no!” fino al liberatorio “Sotto la doccia! Sotto la doccia!” e se la coppia Caressa Bergomi decide di citare Martellini urlando 4 volte “Campioni del mondo”, Caressa chiosa con un genuino e orgasmico “abbracciamoci forte e vogliamo tanto bene”. 

Le telecronache mondiali di Caressa ottengono milioni di visualizzazioni su YouTube, persino dei remix con quella Seven Nation Army che diventerà presto “Po po po po po po”. Sembra quasi un passaggio di consegne tra due generazioni diverse, due velocità diverse, due modi diversi per vivere lo sport.

L’anno del mondiale è stato quindici anni fa. Marco Civoli ha dismesso i panni del telecronista, Fabio Caressa è rimasto un po’ troppo incastrato nelle sue personalissime notti magiche, esasperando il suo modo di leggere le partite. DAZN ed Amazon Prime stanno per ridefinire, di nuovo, le regole del calcio televisivo: la fruizione legata ad un’app, gli approfondimenti in modalità Netflix, la copertura del campo. Inutile rimanere nella nostalgia: gli ultimi avvenimenti, dalla SuperLega al mondiale dicembrino in Qatar, ci dimostrano che il calcio delle bandiere, di Pizzul e di Novantesimo minuto sono splendidi reperti archeologici da ricordare in una docu/fiction come quelle su Totti e Baggio. Ma se ricorderemo sempre come eravamo seduti il 9 luglio del 2006, con chi abbiamo condiviso le lacrime e le patatine davanti ad uno schermo, nella memoria della nazione rimarranno scolpite due voci, due racconti diversi della stessa storia, l’ultimo esempio di pacificazione generazionale racchiuso in tre parole, le più belle di tutte: campioni del mondo.

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