Ciò che nel silenzio non tace – L’esordio di Martina Merletti

“La verità viene sempre a galla” mi ha ribadito mia madre al telefono ieri sera a proposito di una sciocchezza familiare. Ci ho ripensato stamattina, mentre terminavo Ciò che nel silenzio non tace, esordio di Martina Merletti, pubblicato da Einaudi nella sezione Coralli, romanzo finalista al Premio POP – Premio Opera Prima. Una storia che si intreccia con la Storia, quella della Seconda Guerra Mondiale, i campi di concentramento, l’Italia fascista e antifascista, il carcere Le Nuove di Torino, ispirata a una storia vera, quella di suor Giuseppina de Muro, superiora della sezione femminile del Carcere giudiziario Le Nuove, che si distinse nell’assistere i detenuti e confortare i condannati a morte, tentando di rendere meno disumane le condizioni carcerarie imposte dal regime e dalle SS.

Fin dalle prime pagine mi sono ritrovata in una dimensione molto piccola e molto umana, di paese: casupole, un cimitero, un bar dove tuttə si ritrovano per bere un punch caldo o un caffè decaffeinato e ho provato la stessa sensazione che ho avuto leggendo Piccola osteria senza parole di Massimo Cuomo (Edizioni E/O), nonostante ci siano differenze abissali nella trama. Il romanzo di Merletti si svolge in due archi temporali differenti – il 1944 e il 1999 – che si rincorrono, si abbracciano, si respingono e si allontanano. Da una parte ci sono gli orrori della guerra, la paura, la povertà e la carestia controbilanciati dal coraggio partigiano, dalle lotte, dalla solidarietà; dall’altra parte, invece, c’è un lutto, la nostalgia per un campo di girasoli, una suora che fuma il sigaro e beve punch caldo e Fernet, una donna sulle tracce di un fratellastro perduto, un nipote che soffre la mancanza dello zio, un fratello che non va al cimitero, un’anziana ottantenne con un peso sul cuore.

Tutto ha inizio nel 1944, al carcere Le Nuove di Torino dove una suora prende in braccio un neonato, figlio di una prigioniera, lo addormenta con una pezza imbevuta di vino e riesce a portarlo fuori da lì nel carrello della biancheria. Il neonato si chiama Libero perché i genitori hanno lottato e creduto fermamente nella libertà e perché – anche se non lo sa ancora perché troppo piccolo – il neonato, questa libertà, la ricercherà per tutta la vita, immerso nella natura.

Più di cinquant’anni dopo, Aila, una giovane donna che ha appena perso la madre per un’encefalite, scopre che a quel neonato, che adesso sarà un uomo, è legata più di quanto immagini e così decide di scoprirne di più. Si mette a fare ricerche e spesso, nei fine settimana, da Torino procede in direzione Chivasso, verso un paesino dove abita suor Emma che, ai tempi della guerra, svolse servizio al carcere Le Nuove e conobbe Elda Trabotti, la madre di Aila.

Nel piccolo paese, abitato da poche anime, è impossibile non accorgersi della sitadin-a che viene a trovare la suora e che stuzzica la curiosità. Dall’altro lato, la cittadina, Aila, viene a sapere che pochi mesi prima il paese è stato scosso dalla morte di Gilberto, fratello di Fulvio (proprietario del bar del paese) e figlio di Teresa Frola, vedova Sellaci. Ogni membro della famiglia vive il lutto a modo suo ma colui che soffre di più la mancanza, soprattutto per un fattore d’età e per aver perso un punto di riferimento, è Giacomo, figlio adolescente di Fulvio e Agnese.

Questi personaggi, legati da fili invisibili, spesso taciturni e immersi nel loro dolore (a ognuno i suoi, come si suol dire), tessono una trama fatta di segreti, di silenzi e di ricerche, volta a scoprire la verità e cosa si nasconda negli spazi più profondi e più celati dell’essere umano, dell’io, e quanto della Storia sia sconosciuto ai più per via di depistaggi, di documenti bruciati, perduti, di parole non dette e confessioni non fatte.

Con che coraggio? – aveva preso a dire quella sera Domenico. – Nostalgici? Gliela do io la nostalgia. Che venissero a dirglielo in faccia, aveva proseguito, cosí dopo avergli spiegato due cose, li avrebbe presi a calci nel culo, i nostalgici, la signora dei fichi e tutto il suo pagliaio. Le piaceva la dittatura? Che se ne andasse in Spagna, allora.

Con una scrittura attenta e precisa e capitoli scanditi da una prosa breve ma incisiva, Martina Merletti racconta un tassello importante del Novecento, ricordando quanto dobbiamo non solo ai partigiani e alle partigiane che lottarono in nome della libertà, ma anche ai civili, a uomini e donne che diedero un luogo sicuro, un posto in cui dormire o riposare – sempre attanagliati dalla paura di perire, ma non per questo spaventati – un pasto caldo o semplicemente una parola di conforto a chi agiva in prima linea, ma tuttə, chi più chi meno, ad agognare lo stesso desiderio, lo stesso fine: la libertà.

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