Gianni Agostinelli

Atomi opachi del male – Resti di Gianni Agostinelli

Chi mi conosce lo sa, ho un’ossessione per Federigo Tozzi, che cito spesso anche su Tropismi. La scorsa estate ho letto i suoi racconti, ingiustamente meno famosi dei romanzi, e mi è rimasta impressa l’incredibile coerenza tematica, che diventa quasi un teorema: in ogni relazione, in ogni rapporto c’è un persecutore e un perseguitato, la violenza è sempre incistata nell’amore e si vuole tanto più bene ad una persona quanto più ti fa del male.

Questi atomi opachi del male, in un modo o nell’altro, si ritrovano sempre nella provincia, specialmente in Italia. Come quella di Gianni Agostinelli, che nel suo Resti, Italo Svevo Edizioni, ci porta tra la Toscana, l’Umbria e il Lazio, tra le campagne e l’Appennino. Sintomatica la citazione che accompagna l’opera fin dalla copertina: 

Non c’è evoluzione nella violenza di Massimo, nel malmostoso Leo e nell’eterno sconfitto Alceste, i protagonisti del romanzo, che nel romanzo osserviamo dalle avventure di ragazzi fino a quella che dovrebbe essere l’età adulta: i tentativi di fuga, geografica ed esistenziali, sono sempre destinati a fallire, il paese ha una forza di gravità che cancella ogni possibile slancio, il male è semplice e quotidiano, sta nei proverbi di paese e nei motteggi che si attaccano come melma, nell’impossibilità di un futuro, nella gente che conosce chi sei e, soprattutto, cosa rappresenti.

La violenza è alla base di ognuno dei rapporti su cui indaga Agostinelli. Non si salvano vecchi padri e giovani figli, con figure materne che lasciano il vuoto dopo la loro morte, non si salva l’amore che dovrebbe unire due solitudini, ma finisce per diventare prevaricazione, parafulmine di ogni male. Non si salva l’amicizia, basata su dinamiche di potere che vede Alceste come unico personaggio che non commette atti contro il prossimo, più per debolezza e fato che per purezza d’animo. 

Perché non c’è niente di puro o di bucolico nella campagna di Agostinelli, non c’è redenzione né messaggio da trasmettere. Lo testimonia la lingua, arida e senza deviazioni verso un lirismo che non si potrebbe concedere, ma che segue dimessa l’aridità della provincia e delle persone che la abitano e infestano come gramigna, e come gramigna ne vengono estirpati. Forse non è destino, ma è il naturale ciclo delle cose, della vita che, a guardarla da certe prospettive, non è che l’altra medaglia della morte.

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