Andrea – Stanchezza, rabbia e staticità

Qualche anno fa, organizzai con alcuni miei amici un festival intitolato Nubi – Lettere dalla periferia e tenutosi a Castenaso, in provincia di Bologna. Nubi era stato pensato proprio per far rivivere la periferia bolognese, «cercare di riportare al centro della vita di Castenaso temi di una certa levatura a misura di giovane e a misura di paese e, soprattutto, riattivare Castenaso a livello di partecipazione e contenuti». “Bologna è a due passi”, mi dicevano i miei amici, “ed è normale che tutti vadano in centro per partecipare a festival, concerti, convegni ecc…”. E mi rendevo conto che era davvero così, anche per una come me che ha vissuto a Bologna da studentessa fuorisede e che non si era mai avventurata nelle periferie che sono piene di traffico, di lavoro e di vita. Alla prima edizione del festival partecipò anche Alberto Guidetti, in arte Bebo (drum machine de Lo Stato Sociale) che proprio in occasione della sua partecipazione al festival scrisse una frase molto bella: «Ci tengo però a precisare che è dalle periferie che partono le rivoluzioni: se non ci vieni ti piacciono i periodi convoluti».Ho ripensato a tutto questo leggendo Andrea, graphic novel scritto da Bebo (ma pubblicato a nome del gruppo) e illustrato da Luca Genovese, uscito qualche mese fa per Feltrinelli Comics. Andrea è un trentenne che lavora in un bar rilevato dal padre e rispecchia totalmente la disillusione giovanile, la stanchezza, la rabbia e, allo stesso tempo, la staticità in cui viviamo oggi. Il protagonista ha alle spalle la perdita di due persone care e sta sempre in silenzio, osserva i clienti del bar, qualche volta sbotta, ma tutt’al più chiama i call center per sfogarsi. Vive in periferia, dove si trova anche il suo bar, e la sua vita è abitudinaria: la sveglia, la doccia, il caffè, la sigaretta, l’apertura del bar, il lavoro, poi la chiusura. Rinchiuso nel suo mondo, parla solo con alcune persone: c’è Jura, il ragazzo serbo, quello che fa le consegne, e c’è Giuliano, suo padre, che sembra comprendere la tristezza del figlio, ma non riesce a farlo parlare. E, quando ci riesce, lo fa solo arrabbiare parlandogli dei “suoi tempi”, quando era tutto diverso.

Probabilmente dovremmo renderci conto che è possibile lottare e difendersi dai soprusi. Dai più banali a quelli che fanno danni incalcolabili. Probabilmente ha ragione il babbo. …Ma quello che non capisce – e che non capisce nessuno della sua generazione – è che ora nelle nostre vite la vera lotta è restare normali…Riuscire a non impazzire, reggere l’urto con un mondo non solo molto più stratificato, ma molto più depressivo. Non c’è la possibilità di muoversi verso il “benessere”, c’è solo una realtà fatta di lavori e lavoretti, violenza verbale e fisica, livelli di indifferenza così profondi che siamo tutti sempre soli. Quindi l’unica alternativa è scappare e trovare un piano di fuga, come Dillinger.

Nel suo bar, Andrea è padrone degli sguardi, delle conversazioni, della lettura dei giornali, del razzismo che dilaga, delle cotte adolescenziali mai o mal corrisposte, delle liti tra i clienti, delle pubblicità sul progresso che fanno capolino dall’altro lato della strada. Nel suo bar, luogo di passaggio, Andrea percepisce il mondo che va alla deriva e si arrabbia, con se stesso in primis, perché si sente inerme e a tratti inutile. Nelle sue parole si legge la delusione di come siamo diventati e del perché questo sia accaduto.

Tutto peggiora quando il Comune decide di progetto di riqualificazione che prevede lo sfratto di famiglie e lavoratori. E, in questa fase della storia, è molto interessante l’ingresso in scena dell’architetta Azzurra Paglia che ha presentato il progetto. Anche Azzurra, come Andrea, è combattuta: è riuscita ad arrivare in alto, è capoprogetto e, in una società maschilista, realizzarsi è un’ambizione che diventa realtà. Ma allo stesso tempo, Azzurra si domanda dove finiranno quelle persone, cosa ne sarà di loro, cos’è giusto e cos’è sbagliato, e anche se vorrebbe scegliere, sa già che non ha scelta. Anche lei è intrappolata in uno schema da cui è difficile – o meglio – scomodo uscire.

Il finale aperto lascia il lettore sgomento, con un lieve senso di malessere e di colpevolezza. Andrea è frantumato dentro. Avrebbe bisogno di un abbraccio o di un ceffone. O di tutti e due nello stesso momento. E non è il solo, ne avremmo bisogno tutti.


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