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Allegorie, distopie e maiali: La Fattoria dell’Animale

All’inizio di un’emergenza che ci ha portati nel mezzo di una situazione distopica, in cui ci troviamo chiusi in casa senza sapere cosa succederà la settimana dopo, aspettando la prossima conferenza live per avere delucidazioni o farci cullare da una voce rassicurante che Internet ha già manipolato come piace a noi, è uscito La fattoria dell’animale (Feltrinelli Comics, 2020), l’allegorico–distopico fumetto di Stefano Antonucci e Daniele Fabbri, illustrato da Maurizio Boscarol, che parla di come una finta emergenza, fabbricata di tutto punto, abbia portato a una situazione dittatoriale.

Gli autori non sono nuovi nell’esplorazione della situazione politica, italiana e non, attraverso l’illustrazione. Dopo Il Ruspa di Antonucci per Fumetti di Cane, sotto l’attenzione della satira a fumetti torna Matteo Salvini, un personaggio (sì, non una persona) della politica italiana che, se non ci fosse stato il Covid–19, chissà dove sarebbe ora. Antonucci e Fabbri provano a immaginarselo, proiettando le mosse di un Salvini (nel fumetto impersonato dal maiale Capitano) al potere.

Omaggiando e riprendendo il quasi–omonimo La fattoria degli animali di George Orwell, ci viene raccontata la scalata di Capitano alla guida della fattoria in cui l’animale vive, che avviene in un modo terribilmente simile a quello che conosciamo di prima mano: manipolando le notizie e creando una realtà parallela, a suon di «e allora i conigli?» pubblicati da giornali come News Vere (La Refubblica, anyone?), a disposizione dei propri concittadini (perché così li fa sentire, non ancora sudditi). Come nel caso della dipartita di Senatore, che prima di lui aveva condotto il colpo di stato e governava la fattoria: Capitano si affretta a parlare alle folle, rassicurandole con una serie di negazioni che in realtà le aizzano nella ricerca di un colpevole.

Restiamo uniti, non pensiamo alla causa di questa morte né a cercare un colpevole. Non pensiamo a chi possa essere stato, né a chi era con lui l’ultima volta. Non gettiamo tra noi il seme del sospetto.

Capitano, da La fattoria dell’animale

Non dobbiamo, però, farci trarre in inganno dalla grossolanità di certe mosse di Capitano, dovute soprattutto all’ingordigia: è riuscito ad arrivare dov’è perché è, soprattutto, astuto – anche se ci duole ammetterlo. È un lato diverso di Salvini che non avevamo ancora visto ne Il Ruspa, dove gran parte del successo era dovuto all’astuzia del verme che lo accompagna. Qui cominciamo a notare che anche lui è dotato di zanne e sa usarle nei momenti opportuni, come quando arriva il momento di far fuori Senatore dalla scena politica della fattoria e Capitano decide di demandare il compito al fido Lùc* Maurice, per non compromettersi in prima persona. È così che riesce, colpo dopo colpo, lasciando che siano gli altri a credere di volerlo, creando una situazione di panico e di allerta e di diffidenza costanti, a diventare il Lui di cui ha (o crede di aver) bisogno la fattoria.

Ci troviamo, così, in due realtà che convivono: quella delle parole della narrazione dei fatti che accadono ne La fattoria dell’animale, belle racchiuse nei balloon tipici del genere, e poi quella che è il fumetto stesso a mostrarci, l’oggettività dei fatti. Nessuna delle due realtà annulla l’altra, nessuna delle due può esistere senza l’altra, nessuna delle due è, in definitiva, più vera dell’altra. Ed è questo il pericolo.

Così, animali sempre più scheletrici ci vengono mostrati mentre leggiamo messaggi sulla sicurezza della fattoria, i tesori di Capitano si accumulano nelle sue stanze mentre si parla di bene collettivo. È la retorica, bellezza, in grado di distorcere la percezione delle cose, di proiettare qualcosa che non c’è, di creare dal nulla.

Più di tutto, infatti, e proseguendo il percorso iniziato da Antonucci con Il Ruspa, La fattoria dell’animale è un libro sulle parole e sul loro potere. La retorica del linguaggio politico è, in quest’opera, padrona del campo, su cui agisce tramite il braccio destro di ogni dittatura: la violenza.

Le rappresaglie si sprecano e diventano assolutamente gratuite per mano dei lupi, passati dall’essere i nemici giurati degli animali della fattoria a impersonare le guardie di Capitano grazie a un colpo di genio di Lùc, che trasforma i conigli nei nuovi nemici contro cui scagliarsi e a cui attribuire i problemi della fattoria. La ricerca di un continuo nemico contro cui catalizzare le energie negative è ciò su cui si regge ogni propaganda di questo tipo: lo sfogo dell’istinto violento e la soddisfazione della vittoria contro l’avversario diventano il collante della società, che si sente unita e protetta anche dalla propria capacità di esercitare la violenza.

Se “cultura” viene dal latino coleo, cioè coltivare, per indicare la cura continua di cui ha bisogno l’istruzione o la società o il governo, una cura simile a quella che il contadino dedica al suo campo, seguendolo nel tempo per migliorarlo finché non dà i suoi frutti e nemmeno allora è finita , l’accrescere del potere di Capitano e i suoi scagnozzi indica l’abbruttimento necessario e progressivo degli animali della fattoria, manipolati ed esclusi fino a non aver nemmeno più diritto al titolo del libro.

Le risate ci sono, ne La fattoria dell’animale, ma sono risate a denti stretti prima, amare poi, isteriche infine, mentre Antonucci e Fabbri ci svelano, tavola dopo tavola, pagina dopo pagina, l’ascesa di Capitano da un lato e la caduta della fattoria dall’altro – perché non ci può essere l’una senza l’altra.
Fino a scoprire perché gli animali siano la vera ricchezza.

a sinistra, Maurizio Boscarol – a destra, Marc Chagall

Piccola nota per concludere: la fattoria prima dello scempio disegnata da Boscarol mi ricorda i lavori in bianco e nero di Marc Chagall e mi ha dato, per un pochino, un senso di pace ovattata.

* dalle mie parti, o quasi, “luc” significa allocco e, di conseguenza, scemo, sciocco.

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