Copertina de "La custodia dei cieli profondi"

La morte di una stella – Raffaele Riba e La custodia dei cieli profondi

Immaginate un giorno di uscire di casa, magari è proprio domani mattina. È ancora febbraio, l’aria è umida e piena di fumi, ma il sole c’è già alle sette e sai che avrai una mezzoretta di luce anche dopo il lavoro. Vai al lavoro, prendi i mezzi, vai al supermercato, stai a casa. Può essere un lunedì come un giovedì come un sabato. A un certo punto prendi in mano qualcosa di assolutamente normale. Un cappello, una matita, una tazza: una cosa che eri proprio certo fosse di un colore – arancione ad esempio – invece adesso è verde. All’inizio pensi che siano i tuoi occhi. Poi che la lampadina sia rotta. Poi ti accorgi che è qualcosa che viene da fuori di te, da fuori della tua casa, da fuori del mondo in cui vivi. Controlli il cielo, che finora è stato per te niente più che un coperchio, e all’improvviso ti accorgi che invece è spazio vuoto tra te e qualcosa fuori.

Fuori c’è un secondo sole. Un sole blu. Comunque sia, il telefono suona, il caffè bolle, la lavatrice ha finito e la storia continua.

Il nuovo libro di Raffaele Riba, La custodia dei cieli profondi (pubblicato per 66thand2ndinizia con questa premessa di sapore fantascientifico. Due soli, uno giallo e uno blu, di solito sono territorio degli Urania & Co. Ma basta fare un giro su Wikipedia per scoprire che è solo scienza, che è successo già più di una volta e può succedere ancora da un momento all’altro: una stella muore, e lo scoppio genera un grande punto luminoso che potrebbe irraggiare la terra per mesi, anni, cambiando il concetto di ore, di colori.

I protagonisti di questa storia potremmo essere noi, chiunque di noi viva sotto l’emisfero boreale, il giorno in cui arriverà fino alla Terra la luce dell’esplosione di Betelgeuse, dalla costellazione di Orione.

Copertina de "La custodia dei cieli profondi"

Copertina de “La custodia dei cieli profondi”. Anche l’impaginato è bellissimo.

Raffaele ha scelto di raccontare la storia di due fratelli, Gabriele ed Emanuele, due persone normali e due archetipi, che fanno esattamente ciò che farebbero tutti in questo caso: continuano a distruggere la propria vita per contingenze umane. Il doppio sole non li disturba, e forse anzi, da un certo momento, inizia ad imitarli.

La custodia dei cieli profondi è un libro che andrebbe letto già solo per queste premesse (vi ho raccontato appena le prime due pagine!). Ma soprattutto perché è uno di quei libri che non capitavano da un po’, e che ti fanno venire voglia di alzare spesso gli occhi e sperare che qualcosa di assurdo, a un certo punto, debba pur capitare. Con la sicurezza che comunque non cambierebbe niente.

 

Ciao Raffaele, e grazie per aver accettato di rispondere a qualche domanda su La custodia dei cieli profondi. La tua storia corre su due piani paralleli, quasi che uno sembra essere immaginato come metafora dell’altro. Il legame tra due fratelli che muore, una stella che muore. Leggendo il libro, il nesso tra queste due storie si presenta come naturale e inevitabile. Ma nella genesi del romanzo, come hai accoppiato questi due temi così distanti? Come ti è venuta l’idea di saldare la storia di una supernova a quella di una casa di campagna?
Inizialmente questa era soltanto la storia di due fratelli, una storia che avrebbe dovuto essere anche un po’ Storia, nel senso che i due dovevano essere un Caino e un Abele dei giorni nostri. Come poi nel libro accade, la dicotomia era anche di sfere di interesse, e visioni del mondo: un fratello era studioso di un poeta ligure di inizio Novecento, mentre l’altro avrebbe dovuto essere un fisico teorico. Sono sempre stato molto appassionato di scienza; per quanto il diploma da perito chimico non basti, ho sempre letto molta divulgazione. Preparare il personaggio ha voluto dire intensificare le letture, leggere tutto ciò che mi capitava a tiro su onde e particelle e la lunghezza di Planck e la forza debole e la vita di Dirac e il bosone di Higgs… Emanuele, inizialmente doveva essere un fisico delle particelle, ma poi dall’infinitamente piccolo sono passato all’infinitamente grande. La custodia dei cieli profondi racconta una storia di disgregazione familiare – e le supernove erano la miglior preghiera laica a cui il libro poteva guardare per dare un senso ai suoi presupposti.

La struttura del tuo libro mi ha ricordato un classico italiano, forse il primo a presentare scienza e narrativa come nuclei così compatibili. Parlo de Le Cosmicomiche di Italo Calvino, dove ogni storia parte dal cosmo e restringe progressivamente fino all’individuo. Nel tuo libro manca – è evidente – il genere comico, ma c’è molta ispirazione dal cosmico. Secondo te si può dire che esiste un filone cosmico, in letteratura? Le scienze naturali e la matematica possono aiutare la narrativa portando a suo sostegno strumenti di cui è carente? E quali strumenti?
Lessi Le cosmicomiche molto tempo fa: non le ho rilette per il libro. Ho letto un racconto di Arthur C. Clarke intitolato La stella, ma poco altro. In uno il comico, nell’altro il fantascientifico. Non so se esista un filone cosmico o naturalistico o matematico in letteratura, ma credo che la canonizzazione sia un rischio. La letteratura è bella quando racconta le cose della vita in maniera spontanea e necessaria. Levi ne Il sistema periodico fa così, Rigoni Stern in Arboreto selvatico fa così: insomma visto che il cosmo, la natura e la matematica fanno parte della vita dell’uomo è normale che filtrino nella letteratura, ma spero e credo che non si arriverà alla canonizzazione, al “romanzo scientifico”.

Calvino spiegava così il titolo Le Cosmicomiche: «Nell’elemento cosmico per me non entra tanto il richiamo dell’attualità “spaziale”, quanto il tentativo di rimettermi in rapporto con qualcosa di molto più antico. Nell’uomo primitivo e nei classici il senso cosmico era l’atteggiamento più naturale; noi invece per affrontare le cose troppo grosse abbiamo bisogno d’uno schermo, d’un filtro, e questa è la funzione del comico».
Trovo questa affermazione adatta anche alla tua storia, una storia talmente dolorosa che per essere spiegata ha bisogno di narrarsi in un evento galattico, oltre-umano, quasi sovrannaturale. Il protagonista della storia cerca disperatamente appiglio nell’antichità e negli eventi naturali – due punti fermi certi. E come gli antichi, scherma gli eventi tragici che lo segnano nella natura, non nell’ironia tipica dell’uomo contemporaneo. Proprietario di un libro di mitologia classica, fa la guardia a una casa e a una stella che non esistono più.
Sono solo questi due i cieli di cui è custode? Cosa puoi raccontarci del titolo che hai scelto?
Quando la stella che ho studiato diventerà una supernova, quando insomma esploderà, per un certo periodo di tempo il cielo sarà schiarito da una seconda fonte luminosa. Un fenomeno già successo per l’esplosione della grande Supernova del Cigno o per la Supernova del Granchio del 1054. Sarà visibile anche di giorno e di notte proietterà a terra le nostre ombre.
Siamo nati e cresciuti abituati a un colore della luce, a una sola fonte luminosa che, come un punto di fuga, dà una tridimensionalità allo spazio di cui, pur non essendo consapevoli, siamo costruiti. Questa luce, diversa e più lontana del nostro sole quotidiano, immetterà una nuova tridimensionalità, ci darà un senso diverso della distanza e dei colori o, almeno, questo è quello che ho cercato di figurarmi nel momento in cui ho dovuto descrivere questo fenomeno astrale. La custodia – l’elemento di un uomo, quindi terrestre – poi diventa celeste, ma di un cielo diverso, con una spazialità e quindi una temporalità diversa dall’ordinario.

Leggendo, ho avuto spesso la sensazione che questo libro fosse ambientato in un certo passato generico, da storie di nonni, di antenati. Questo fin quando i richiami all’esterno della casa – l’Università, la casa di riposo, il paese – non riportavano l’ambientazione a un tempo a noi presente. Mentre per il fratello che vive fuori dalla casa il tempo scorre normalmente, il protagonista fa affermazioni di portata generazionale, come fosse esterno al tempo in cui vive.
Quando accade questa storia? 600 anni dopo l’esplosione di Betelgeuse, ovviamente. Dunque potrebbe essere accaduta, potrebbe accadere a breve o potrebbe non accadere mai?
La storia accade più o meno negli anni dieci di questo secolo. Ma volevo che fosse una storia dai confini temporali sfumati. Un po’ perché quando leggo mi piace viaggiare in tempi indeterminati, un po’ perché la fisica ci dice cose entusiasmanti e spaventose (per l’idea che ce ne eravamo fatti) sul tempo. I 645 anni luce che ci separano da Betelgeuse non sono un indicatore di tempo, ma di spazio. E allora anche il tempo del libro è più una questione di spazio che di lancette, il tempo è chiamato in causa soltanto quando si parla di cose troppo umane.

Il protagonista dice dei propri coetanei: «Gli amici erano compaesani e i compaesani una cifra dell’equazione elementare in cui ognuno fa il suo compito diventando adulto senza lotta». Descrive il suo ruolo così, invece: «È stato così perché così doveva essere, perché credevo che anche il posto in cui si vive avesse bisogno di una generazione che ne segue un’altra. E che migliora». Da cosa gli viene questa saggezza così antica? Dal dolore, dall’isolamento, dalla pazzia? O è qualcosa di innato, i cui primi sintomi affiorano nella scena in cui da bambino spazza le scale, e avverte già la responsabilità della casa che lo sovrasta? Si diventa custodi o si nasce custodi?
Credo che si nasca per essere custodi, ma lo si diventi soltanto se la vita te lo insegna. Gabriele è sempre stato affascinato dall’interno, se avesse un animale guida sarebbe il riccio che custodisce sé e la sua casa chiudendosi al mondo. Certamente la sua poetica del fanciullino, come era per il Pascoli, gli fa vedere la poesia nelle cose che ha intorno, cose votate alla naturale decadenza –  a meno di una naturale custodia.
Si inizia a essere custodi in un giorno qualsiasi, quando magari si spazzano le scale e poi la conoscenza della custodia, la filosofia della custodia, comincia ad aprirsi piano piano e a rivelarsi o manifestarsi per quello che è: un sapere, un istinto che l’uomo si porta dietro da millenni e che ogni giorno aggiunge un capitolo nuovo a questa antichissima storia di salvaguardia delle cose. E della specie.

Ti ho fatto prima una domanda sul tempo in cui è ambientata la storia, ma trovo che forse la caratteristica più importante del romanzo sia il luogo in cui si svolge tutto: una casa in rovina, sotto un cielo in lutto. Le implicazioni psicologiche dell’ambiente sono evidenti quasi come gli umori della brughiera che circonda Miss Catherine in Wuthering Heights. Ma se il romanzo estero preferisce affidare più spesso le emozioni dei personaggi alla natura, affidarle alla casa è quasi un classico per gli italiani. Mi viene in mente La cognizione del dolore di Gadda (1963), dove le scene emotivamente più dense si svolgono in una casa dove pesa l’ombra di un fratello scomparso e l’afflizione di una madre distante. Ho pensato anche a La tempesta di Emilio Tadini (1993), dove il protagonista, abbandonato dagli affetti, resta a vigilare una casa-sacrario dove ogni stanza è un teatro di crescente follia. Approfondendo la ricerca, si potrebbe creare un filone italiano sulla rappresentazione della casa, espressione massima del conscio e del subconscio del protagonista, la cui vita è interamente votata a nutrire un involucro vuoto.
La custodia dei cieli profondi (2018)fa indubbiamente parte di questo filone, che si svolge quasi immutato da oltre cinquant’anni. Cinquant’anni in cui eppure sono avvenuti cambiamenti drastici nella società in cui viviamo, e che coinvolgono anche l’idea stessa di casa. E allora perché, nel 2018, la casa in letteratura è ancora la stessa casa di un mondo che non esiste più, ma resta lo stesso mostro materno che imprigiona e alimenta il personaggio?
Perché la casa è prima di tutto tana e poi abitazione, la casa è prima di tutto riparo che progetto edile. Anche qui, l’origine di questo sentimento risale talmente in là nel tempo, agli albori della nostra cultura, che si può quasi confondere con l’istinto.
Una casa assurda, terribile e magnetica in questo senso, è la casa di Correzione di Thomas Bernhard.

Ti faccio l’ultima domanda e – giuro – sarà breve. All’inizio della tua storia, i due fratelli ricevono due regali antitetici e complementari, un libro di mitologia e un atlante astronomico. Le due personalità si svilupperanno in linee rette e parallele partendo da questi due punti, e niente di ciò che faranno potrà cambiare la loro storia. Anzi: è come se tutto ciò che fanno non può che portarli verso un destino preciso. Il mondo della tua storia è determinista? C’è niente che i personaggi avrebbero potuto fare, per cambiare le loro storie?
Non mi piace il determinismo, ma sono molto affascinato dall’inerzia, soprattutto quando si parla di esseri umani. Per carattere, istinto, temperamento ognuno è portato a percorrere certe strade piuttosto che altre. Se fossimo determinati, non ci sarebbero variabili, invece, fortunatamente, talvolta il caso o l’attrazione di qualche forza esterna ci fanno cambiare percorso. Gabriele, il protagonista, a un certo punto cambia strada, passa dalla custodia al delirio, quasi autoindotto, anche se effettivamente, sbagliava prima come ha sbagliato poi…

Ultimissima: consiglieresti ai nostri lettori un libro? E una costellazione?
La costellazione è facile, sarò scontato: Orione con la sua cintura e la spalla in alto a sinistra (Betelgeuse, appunto) la si può vedere adesso, è una costellazione del cielo di inverno e sorge a sud-est. Il libro è un casino, sono meno delle stelle e delle costellazioni, ma si fa più fatica. Ora come ora consiglierei  Da duemila anni di Mihail Sebastian.

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