Sognare a fumetti

Alla ricerca di una pausa dal monocromatismo ultracromatico del libro e dall’ultracromatismo monocromatico del cinema ci si rivolge al fumetto, ma è difficile trovare qualcosa di contemporaneo che non ammicchi furbescamente al mercato editoriale; imbattersi in una piattaforma  di sorprendenti storie a fumetti, gratuite e costantemente aggiornate come Mammaiuto ti fa allora sentire come un Pedro Pizarro davanti alle schiuse porte di Cuzco (senza il precedente massacro).
Mammaiuto è un collettivo peninsulare ed internazionale di disegnatori e narrastorie, «una ciurma di simpatici e barbuti criminali disorganizzati, un po’ presuntuosi, sostenuti da una lealtà incrollabile e guidati da una direzione comune» secondo le parole di uno dei fondatori, Lorenzo Palloni, che scelse il nome partendo proprio dagli sgangherati e sentimentali mariuoli del film Porco Rosso di Hayao Miyazaki, personaggi italiani creati da un autore giapponese che racconta grandi storie alla francese, rappresentando quella pluralità di tendenze e caratteristiche che fu di fondamento al collettivo nel 2011, quando si configurò come associazione, e che da allora si è allargato, diventando quasi una famiglia.

Lorenzo sognava di fare il fumettista da quando aveva sei anni, ha finito il Liceo Classico e poi la Scuola Comics a Firenze; dopo le prime pubblicazioni ha collaborato con l’Unione Europea, poi è nata Mammaiuto, per la quale ha fatto la serie Mooned e disegnato Un Lungo Cammino. Nel 2014 è uscito il suo primo libro in Francia, The Corner disegnato da Andrea Settimo e che presto uscirà in Italia per Rizzoli Lizard. L’anno prossimo Sarbacane Editions pubblicherà il suo nuovo libro L’Ile, e al momento è al lavoro su nuovi libri per il mercato internazionale e su nuove serie per Mammaiuto. La seguente intervista è un piccolo spiraglio di come funziona la desta fase REM di un fumettista.

Vorrei partire da una delle tue storie, Ubuntu, che si sviluppa come un cortometraggio e finisce con la citazione di un regista, spesso mi chiedo come fosse possibile concepire un fumetto prima dell’avvento della televisione. quanto del fumetto adesso è sorretto da un’intelaiatura cinematografica e quanto pensi che differisca il modo di pensare ed immaginare la propria striscia da un Richard Felton Outcault a uno degli autori che adesso disegnano su Mammaiuto?
Raccontare storie non è una questione evolutiva, o legata allo zitgeist, non c’è realmente un “prima di”. Si tratta solo e sempre di lavorare nel modo migliore possibile all’interno del medium che stai esplorando.
Uno dei libri che impongo durante i miei corsi è La sceneggiatura di Syd Field: un manuale che va oltre l’insegnamento della struttura di script cinematografico, è un pamphlet sul raccontare in modo ottimale le storie. Scott McCloud, in Capire il fumetto parla di fumetto e cinema come di media imparentati: il primo si muove nello spazio, il secondo nel tempo, ma alla base c’è sempre l’Immagine. Questo ti dice fino a che punto i media si leghino. Quella che tu chiami intelaiatura cinematografica è la base di qualunque storia: tre atti, due colpi di scena. Quando racconti una barzelletta, utilizzi lo stesso schema che usa Tarantino in ogni suo film, lo stesso delle antiche commedie e tragedie greche.
Detto ciò, ogni autore ha il proprio approccio, ognuno differisce in processo, ispirazioni, tendenze visive (ed è in parte questa la potenza di Mammaiuto: un’unica visione del medium e molteplici espressioni del medesimo, cosa che si vedrà molto bene nell’antologico su cui stiamo lavorando, in uscita a Lucca Comics 2015); non si può dire con certezza che il modo di pensare alle storie, dopo un secolo d’impero dell’Immagine, sia cambiato, ma si può credere che lo sfruttamento d’idee trite e ritrite ed eventuali crisi creative spingano gli autori a trovare nuove forme e meccanismi di racconto.
È stato il libro La conquista dell’Inutile di Werner Herzog a ispirarmi Ubuntu, da lì la citazione che rammenti, che quindi è più letteraria che cinematografica. Che casino, eh?

estratto da "Ubuntu" di Lorenzo Palloni

estratto da “Ubuntu” di Lorenzo Palloni

La capacità di creare mondi con le proprie mani è un privilegio e può essere una dannazione, hai mai provato quel grado di emarginazione che porta a preferire il proprio immaginario al mondo esterno? Se sì, quanto e come credi che ciò possa avere a che fare con la formazione di un senso critico e della propria creatività?
Parli di emarginazione a un fumettista e sfondi un portone aperto. Più che preferire il mio immaginario al mondo esterno, spesso preferisco il mio immaginario a quello degli altri. E non è solo una questione di gusti, è che mi annoio a passare il tempo in mondi che avrei potuto creare io, e in modo migliore. È più una dannazione, in questo senso: vedi le falle, gli errori, tutto ciò che potresti raccontare meglio; e tornare indietro è impossibile, quindi metti da parte quel libro o quel fumetto con un senso di delusione costante, e torni al lavoro, che di conseguenza diventa anche il tuo svago.
Ignorare o derubricare l’esterno sarebbe poco furbo: tutte le storie che adesso racconto vengono da lì, mi rifornisce di materiale che rimastico all’infinito e poi risputo mutato in modi imprevedibili.
Ma in passato mi è capitato di accantonare un po’ il mondo esterno, ed è allora che mi sono fossilizzato e che il mio senso critico si è atrofizzato, non avendo modo di confrontarsi. Guardarsi intorno fa paura, potresti scoprire di essere inadeguato, cosa che personalmente ho temuto per lungo tempo.
Se mi sono formato, è stato lavorando a stretto contatto con gente che ne sapeva più di me, punto. Tenere occhi e orecchie aperti, comunicare e prendersi svariati calci nel culo è tuttora l’unico modo che conosco per formarsi e migliorare. E anche un po’ di furbizia non guasta.

La gratuità sembra ormai essere il marchio distintivo che rende meritevole un’opera, credi che la necessità di denaro possa mettere in crisi un processo creativo e quale genere di convinzione sostiene la condivisione delle creazioni del vostro collettivo?
Mammaiuto crede fermamente che tutto ciò che dài ti torna indietro. L’abbiamo dimostrato con il piccolo crowdfuding che abbiamo fatto con successo nel 2013, e più spesso con tutti i nostri libri, che sono mise en carte di serie pubblicate sul sito: abbiamo dei lettori, non sappiamo chi o quanti siano, ma sono disposti a pagare per qualcosa che è già completamente gratuito su internet, e forse al solo scopo di mantenerci in salute per produrre altre storie che metteremo gratis online domani.
Crediamo anche, diversamente dagli editori italiani, che il lavoro dell’autore vada retribuito: per questo l’80% dei proventi di un libro va all’autore e il 20% all’associazione, e non il contrario.
Detto ciò, la necessità di denaro ti piega alle leggi del mercato, se hai la volontà di fare fumetti per lavoro, ma non è necessario che metta in crisi il tuo processo creativo; metterà in crisi la tua onestà intellettuale, il tuo amor proprio e il rispetto per te stesso, al massimo.

Nella maggior parte delle strisce emerge il disagio come un colore fondamentale da stemperare con l’ironia, penso a The Paganos che descrive la giungla scolastica o all’Abominevole che si muove in una foresta di animali alle prese con idiosincrasie umane, e qui la domanda buffa: è allora il disagio inestirpabile dalla creazione o lo è la nostra società civile?
Andiamo sul filosofico, mi piace. Io penso che la società civile, in quanto violenta forzatura, non possa non portare ad ognuno un senso primordiale di disagio. Che tu lo senta o no, da qualche parte dentro di te hai la certezza che ora dovresti vivere di caccia e raccolta, stare in una grotta, mangiare frutti in un campo allo stato brado, a goderti un tramonto incredibile senza l’ansia del cartellino da timbrare domattina. Viviamo in un tipo di società completamente innaturale, non possiamo aspettarci più di tanto. E anche se il disagio umano venisse, più profondamente, dalla decodifica dell’esistenza, dalla certezza dell’inutilità e della vuotezza della vita, si rifletterebbe comunque nella creazione artistica.
Il Conflitto, che è il motore primo di ogni singola storia mai raccontata, cosa è se non un disagio drammatizzato? Forse la nostra potenza di narratori va a braccetto con la necessità di liberarsi del proprio disagio, di esorcizzarlo.
In The Paganos, per quanto acerbamente, ho cercato di raccontare il disagio del convivere; in Mooned il disagio di esistere; in Esatto (il mio prossimo webcomic per Mammaiuto) proverò a esplorare il disagio del sopravvivere.
Finché ci sarà disagio, ci saranno storie da raccontare.

una striscia da "The Paganos" di Lorenzo Palloni

una striscia da “The Paganos” di Lorenzo Palloni

Hai mai pensato che potesse essere più giusto smettere di perdere tempo dietro ai fumetti per perseguire strade più concrete, sicure, stabili e dal profitto assicurato? Se no, quale molla manda avanti il meccanismo della tua convinzione?
Ritorniamo all’Inutile di Herzog, mi pare: un tizio che ha speso anni e milioni di dollari per girare dal vivo una scena di Fitzcarraldo, dove una gigantesca barca viene trascinata su una montagna e la scavalca. Scena che avrebbe potuto fare tranquillamente con un modellino, ma il vecchio Werner si è sempre rifiutato, convinto che ne valesse la pena, anche a costo di morire. Mi sono sempre trovato d’accordo con questa visione estrema dell’arte. Io che di Mammaiuto sono il più mainstream, quello dai gusti più facili e commerciali, quello con l’occhio meno editoriale, sono forse il componente che in realtà ha la visione più sciamanica: penso che le storie assorbano ciò che gli dài e diano tutto indietro. Non potrei mai fare a meno di sentire ciò che do o ricevo con le mie storie.
Ma il guadagno monetario è comunque piccolo, e non mi basta, quindi devo fare altro: commissioni, illustrazioni, loghi, grafiche. Questo da quando ho diciotto anni. Vorrei poter arrivare al punto di guadagnare solo ed esclusivamente con i fumetti, ma è utopia, e se non lo è, ci vorranno altri anni e altra fortuna. «La vita non è un fumetto, baby».
In passato sì, ho pensato di mollare e fare altro, ma ero stupido. Oggi più vado avanti più penso che la mia sia l’unica strada che posso percorrere. Con un po’ d’immodestia ti dico che avrei potuto fare tutto, o quasi. I lavori di fatica no, non li sopporto, ma ho una mente abbastanza plastica, che si adatta facilmente, e anche buone capacità di astrazione e sopportazione. Eppure quello che faccio ora è quello che sono. Un giorno forse perderò il mio equilibrio e mi peserà non avere un hobby che non sia anche il mio lavoro, ma da qui a preferire di alzarmi quotidianamente con il pensiero di fare per dieci ore al giorno qualcosa che odio fino alla pensione ce ne vuole. Tanto varrebbe terminarsi, e parlo sul serio. Se non posso fare quello che voglio, che ci sto a fare al mondo? Se non posso perdere tempo raccontando, allora tanto vale non avere tempo affatto.

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