Catholics kill

Religione e vita non sono separabili in questa esistenza, se ce ne sarà una prossima speriamo che sia esente dalla necessità di una fede nell’invisibile che comporti rispettare regole scolpite nella pietra.

Per adesso possiamo accontentarci di analizzare e commentare i sempre sorprendenti ventagli di possibilità, spesso ai limiti dell’assurdo, che la religione ci pone davanti. Ad esempio, di religione si può morire ancora. Crocifissione, lapidazione o colpo di spada non sono più frequenti nella progredita Europa eppure anche appartenendo alla medio-alta borghesia lavoratrice è possibile trovarsi su un tavolo operatorio e morire per una confessione a cui neppure si aderisce.

Accade nella cattolicissima Irlanda dove a una dentista indiana trentunenne,  Savita Halappanavar, che si trova in ospedale per un caso di aborto spontaneo, viene rifiutata l’interruzione di gravidanza terapeutica nonostante la donna si trovi in condizioni di salute precaria per la perdita spontanea del bambino.
Ricoverata nell’ospedale di Galway alla 17esima settimana di gravidanza si è vista rifiutare l’intervento da medici che, contrariamente alla legislazione sull’interruzione di gravidanza volontaria (IGV) che in Irlanda prevede l’intervento per la protezione della vita della madre, hanno preferito temporeggiare prima dell’intervento chirurgico perchè il cuore del feto batteva ancora.
«Questo è un paese cattolico» avrebbero risposto i chirurghi alle pressanti richieste dell’interessata e del marito secondo l’Irish Time. I due coniugi, entrambi di fede hindu, non irlandesi e non cattolici, hanno dovuto attendere due giorni e mezzo perché il cuore del feto cessasse di battere. Solo a questo punto è stata autorizzata la rimozione. Attesa risultata fatale per la madre che per infezione è morta di setticemia.
Praveen Halappanavar, marito e ingegnere 34enne, crede che se i medici fossero intervenuti con la dovuta tempestività almeno sua moglie si sarebbe salvata e oggi, dopo le proteste della popolazione, il deputato laburista Patrick Daly ha chiesto al proprio partito e ai colleghi di governo di rivedere la legislazione sull’interruzione di gravidanza.
Legislazione che in Irlanda tocca vette di illogicità paradossali dato che non permette l’IGV né in caso di stupro, né per richiesta personale, né per salvaguardare la salute fisica e mentale dell’interessata, né per anomalie del feto e fattori socio-economici. Criteri che in Europa valgono solo per Malta, Andorra, Principato di Monaco e di San Marino.

E in Italia? La patria del Sommo Pontefice è molto più avveduta in questo campo dato che dal 1978  la legge n. 194 permette alla donna di poter ricorrere alla IVG in una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza), nei primi 90 giorni di gestazione; mentre tra il quarto e il quinto mese è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica.
Non solo, con la diffusione regionale della RU486 nel 2010 anche in Italia è stato permesso l’aborto farmacologico che per il 96% delle donne, escluse le marchigiane a cui misteriosamente non è permesso l’uso della pillola del giorno dopo, si è dimostrato sicuro e senza complicazioni.

Tutto sembra essere in regola per fornire in una delicatissima situazione tutto l’apporto di assistenza necessario, la Libera associazione ginecologi per l’applicazione della 194 (Laiga) denuncia però una frattura tra la teoria e la pratica. Se per legge tutti gli ospedali italiani dovrebbero permettere entro la settima settimana sia l’aborto chirurgico con annessa anestesia che quello medico, in realtà solo Toscana, Emilia Romagna e Piemonte ricorrono regolarmente alla RU486, mentre nel resto della penisola è molto più raro trovare centri che permettano questo trattamento non invasivo; basti pensare che in tutta Roma solo il San Camillo offre questo servizio.

Cos’è che impedisce una facile e sicura risoluzione di un problema così spinoso? Come molte altre questioni italiche anche questa si lega a un problema morale e organizzativo.

Il primo riguarda gli obiettori di coscienza, paladini del vivere sacro sulla pelle degli altri, che tra ginecologi, anestesisti e personale medico toccano percentuali di più dell’80% in regioni come Campania, Molise e in città come Bolzano dove diventa ancor più difficile salvaguardare la propria salute fisica e mentale in ospedali dove il medico in prima persona si lava le mani del problema medico rimandandolo a giustificazione etico-religiose.

Il secondo impedimento riguarda la differenza tempistica nei trattamenti abortivi: se l’intervento chirurgico viene eseguito in day hospital, permettendo alla paziente di essere dimessa dopo poche ore dall’intervento, per l’interruzione farmacologica bisogna rispettare il regime di ricovero ordinario con le 72 ore ore di osservazione obbligatoria che, tra tagli alla sanità e liste d’attesa, diventa sempre più difficile da rispettare per gli ospedali costretti a rimandare o evitare il trattamento.

Secondo la Laiga però, e con lei l’esperienza decennale maturata negli altri paesi che hanno sperimentato le potenzialità della RU486, i tre giorni di ricovero non sono affatto necessari potendo eseguire il trattamento semplicemente in day hospital con riduzione dei tempi di attesa per la paziente e di costi e problemi di spazio per la struttura ospedaliera.
Una lettera è stata spedita dall’associazione al premier Monti per richiedere l’adeguamento della procedura farmacologica a quella chirurgica.

SimpsonCatholicHeavenTutto ciò mentre la Chiesa punisce ancora con il suo strumento più potente, la scomunica (esclusione dalla comunità dei fedeli, perdita di validità dei Sacramenti ricevuti e di quelli ricevibili, impossibilità di varcare i cancelli del Paradiso) chiunque attui o cooperi con una pratica abortiva. Questo secondo il dettame della Didakè, documento risalente al primo secolo dopo Cristo, dove si legge: «Tu non ucciderai con l’aborto il frutto del grembo e non farai perire il bimbo già nato».

Da questa data in avanti la Chiesa ha sempre risposto con semplicità al problema di una possibile madre, sia che sia stata vittima di violenza sia che si trovi in condizioni di indigenza. Dato che a un atto abominevole non si può rispondere con un altro atto abominevole sarà necessario porgere tutto l’aiuto possibile alla donna interessata fino al termine della gravidanza, poi se la neo madre non vorrà tenersi il bambino sarà la Chiesa a farsene carico, come ha sempre fatto. C’è chi potrebbe pensare, con un espressione piuttosto semplicistica: dalla padella nella brace.

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Immagine in evidenza tratta da SenzaColonne

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