Bristol: quando la religione diventa sessismo

 

Bristol, città a Sud Ovest del Regno Unito, è celebre per il suo porto d’importanza storica, per il ponte da cui prende il nome, per aver dato i nativi a J.K. Rowling, per la produzione di cartoncino e –pochi anni or sono– per la ricerca e la costruzione nel settore aerospaziale.

Ma non oggi. Bristol è infatti finita sulla pagina di molti giornali a causa dell’assunzione di una posizione fortemente sessista in ambiente accademico, che oltre a risultare in aperto contrasto con lo spirito progressista che si riconosce ha sconvolto almeno metà (quella costituita da donne) paese: un gruppo cristiano interno alla prestigiosa University of Bristol ha proibito alle donne di esprimersi in pubbliche assemblee a meno che non siano sposate.

Il gruppo in questione, la Bristol University Christian Union, volgendo il suo impegno  nell’avanzamento formativo studentesco, ha sempre svolto un ruolo centrale in sede accademica, concessogli dalla stessa Università . Gli scopi primari dell’associazione sarebbero, secondo lo statuto su cui si fonda, rappresentare e supportare gli studenti; promuovere attività sociali, culturali e sportive che tengano conto delle loro passioni, dei loro interessi e della loro sicurezza; mediare nel rapporto tra studenti e gerarchia accademica facendo le veci dei primi; fornire loro luoghi di incontro, discussione e dibattito. Il tutto nel rispetto dei principi base sia laici che cristiani, tra i quali spiccano la libertà, l’individualità e l’uguaglianza.

Niente di diverso da una comune associazione studentesca, si direbbe, se non fosse che per motivi religiosi l’associazione è venuta meno al principio di uguaglianza stabilendo che i membri di sesso femminile appartenenti al direttivo o vicini ad esso non possano pronunciarsi  durante gli incontri, i seminari, le assemblee e i corsi tenuti dalla stessa.

Si mormora che la posizione sia stata assunta in seguito alla dimissione del cattolicissimo Segretario agli Affari Internazionali del gruppo, avvenuta per dissenso alle linee guida dell’associazione che consentivano alle donne di partecipare attivamente anche in assenza dei loro mariti. La convinzione del Segretario avrebbe trovato un seguito, tra i membri dell’associazione, vasto al punto che il Presidente , timoroso di perdere consenso, sarebbe infine stato costretto a fare una scelta tanto radicale.

Al di là delle possibili dinamiche avvenute, comunque, la vera ed effettiva motivazione della decisione è contenuta nella Bibbia, più specificamente nella Prima lettera ai Corinti, 14, 34 – 35, dove si riporta:   “Le donne nelle riunioni tacciano, perché non è stata affidata a loro la missione di parlare, ma stiano sottomesse, come dice la legge. Se vogliono essere istruite in qualche cosa, interroghino i loro mariti a casa, perché è indecoroso che una donna parli in un’assemblea.”

Matt Oliver, presidente dell’associazione succitata, ha raccontato ai media che l’esclusione delle donne da meeting ed insegnamenti è stata sofferta ma necessaria, risultando in linea con i dettami di Dio che chiunque si definisca devoto è tenuto a rispettare. Nella mail originale inviata ai membri del gruppo, ritrovata e pubblicata dall’Huffington Post che ha denunciato la vicenda, si legge: “Dopo una lunga riflessione su questo tema, cercando la saggezza di Dio e discutendo su di essa con tutto il comitato, abbiamo preso questa decisione sull’insegnamento da parte delle donne. Noi tutti abbiamo le nostre idee su argomenti quali le donne e il loro ruolo di speaker, convinzioni che spesso trovano riscontro nell’organizzazione delle chiese che scegliamo di frequentare. È buono e giusto che noi tutti manteniamo le nostre idee che rispecchiano l’insegnamento della Bibbia

E certo è buono mantenere idee maschiliste, se è vero che la rimozione delle donne dall’ambiente accademico costituisce una garanzia di potere – in senso ampio e in senso stretto – ai soli uomini, ma altrettanto certamente non è giusto, se è vero  – e lo è  – che tali idee non si conformano a criteri di equità ed imparzialità come la giustizia e la giustezza vorrebbero, nonché come l’Università ha l’obbligo di curarsi che avvenga.

La Bristol University Feminist Society, associazione universitaria femminista dell’omonima città, ha già manifestato sdegno e rabbia per l’avvenuto, definendolo un atto di sessismo offensivo e discriminatorio e promettendo un’ondata di proteste nel caso in cui non si verifichi un cambio di rotta del gruppo cattolico.

Alessandra Berti, Vicepresidente del Sindacato per il benessere e l’uguaglianza degli studenti (Welfare and Equality), ha assicurato che la questione verrà approfondita in sede istituzionale. “In particolare – ha riferito al Guardiansi dovrà ottenere la certezza che la nostra politica di parità sia adeguatamente rispettata in tutti i casi. Il Sindacato ha considerato le accuse di discriminazione molto serie, perché l’ UBU (University Bristol Union) sostiene le pari opportunità e vieta la discriminazione per motivi di età, disabilità, cambiamento di sesso, matrimonio o di convivenza civile, gravidanza o maternità, razza, religione o convinzioni (tra cui la mancanza di fede), sesso e orientamento sessuale, in linea con la Equality Act 2010 ”.

Intanto l’UBU ha già fatto partire un’indagine contro l’associazione universitaria cattolica, che al momento rischia di incorrere nelle sanzioni stabilite dal Codice di condotta (Code of Conduct) per aver contravvenuto ad alcune norme del codice, quali “Operare nel rispetto della legge”; “Sostenere la reputazione dell’Università e dell’Unione degli Studenti” ; “Rispettare l’uguaglianza, la democrazia e la libertà di pensiero, espressione e azione” ( dodicesima sezione del The club and society Committee Handbook, il manuale del codice di comportamento universitario).

Nessuno si è espresso chiaramente sulla possibilità – molto alta – che l’associazione venga punita, ma l’intera comunità universitaria sembra favorevole ad una sanzione disciplinare esemplare nei confronti dell’associazione che ha commesso un grave attentato alla parità dei sessi oltraggiando non solo le donne tutte, ma anche il prestigio dell’Università di Bristol.

È l’ennesimo episodio di sessismo a svantaggio della donna dall’inizio della Storia, ma che si sia verificato proprio in Gran Bretagna, dove il femminismo affonda le sue radici storiche e dove si è formata la prima donna medico della Storia (Elisabeth Blackwell, nata proprio a Bristol), è senza dubbio insolito e – considerando i tempi – inverosimile.

Ancora una volta si è chiamati a riflettere sulla funzione pubblica della donna, che il lungo processo di emancipazione sembra non aver del tutto affermato; ancora una volta si è costrette a ribadire il proprio diritto all’autonomia di pensiero e all’espressione, come se ogni conquista femminile avesse bisogno di riconfermarsi e come se una donna dovesse costantemente lottare per ottenere brandelli di un riconoscimento che sempre le è stato negato e che, di tanto in tanto, le viene strappato nell’indifferenza del mondo e per volontà religiosa.

La perdita di consenso che la Chiesa Cattolica subisce ormai da due decenni dimostra l’obsolescenza del conservatorismo cui essa è legata. E’ evidente che i cristiani desiderano un cambiamento profondo nell’istituzione ecclesiastica, ad un ammorbidimento rispetto ad alcune tematiche incondivisibili umanamente e civilmente nonostante i dettami della Bibbia, ad una umanità nuova che guardi alla sostanza piuttosto che alla forma e che si ponga come obiettivi primari il benessere e la felicità del singolo e della comunità piuttosto che il divieto imperativo e il giudizio categorico, ola condanna assoluta e la mortificazione dei desideri e delle paure più umani.

L’iscrizione a Twitter del Papa, dopo il lancio del rosario elettronico e del tablet nelle scuole dei salesiani, confermerebbe secondo gli esponenti di spicco della Chiesa il desiderio di aderire ad un principio progressista, ma la tecnologia non implica il progresso, se è infine impiegata per promuovere e propagandare le stesse ideologie di sempre e in particolare quelle volte all’inibizione o alla mutilazione della volontà e della libertà del soggetto, e sembra che solo la Chiesa ignori tale ovvietà.

È giunto il momento che la Chiesa si adegui ai tempi, una volta constatato che i tempi non sanno né intendono più adeguarsi alla Chiesa. E’ giunto il momento che i principi universali di uguaglianza, giustizia sociale e diritto naturale vengano anteposti a quelli relativi della chiesa, una dinamica che non solo è auspicabile ma deve essere pretesa all’interno di ogni Stato laico e giusto che sia degno di essere definito tale.

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