Una donna tra filosofia e società: intervista ad Annalisa Coliva

Abbiamo intervistato la professoressa Annalisa Coliva, docente di filosofia del linguaggio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Nella sua vita si è interessata di epistemologia, filosofia della mente e psicologia, filosofia del linguaggio, metafisica e storia della filosofia analitica. Tra le sue pubblicazioni, oltre ad articoli sulle maggiori riviste di filosofia: Moore e Wittgenstein: scetticismo, certezza e senso comune; I concetti; Filosofia analitica. Temi e problemi; Mind, Meaning and Knowledge. Essays in Honour of Crispin Wright.

Partendo dal seminario da lei tenuto poco tempo fa presso l’Università di Bologna (23 novembre 2012) su uno dei suoi lavori di prossima uscita, Extended Rationality. A Moderatist Epistemology, di cosa tratta essenzialmente lo scritto? 
Il mio libro Extended rationality. A moderatist epistemology tratta del problema della natura della giustificazione e della razionalità epistemiche e di come il nuovo modo in cui propongo d’intenderle abbia conseguenze rilevanti per la risoluzione di una lunga serie d’importanti problemi filosofici; ad esempio, lo scetticismo circa l’esistenza del mondo esterno, la giustificazione di regole d’inferenza basilari, come il modus ponens, e la natura della testimonianza. L’idea centrale, che dà il titolo al libro, è che non è necessario avere giustificazioni per ricadere all’interno della razionalità, poiché questa si estende anche a tutte quelle assunzioni e regole d’inferenza che sono necessarie al prodursi delle giustificazioni.
Questa idea, a mio avviso, è una rielaborazione originale di alcune tesi di Wittgenstein in Della certezza, su cui avevo ampiamente scritto nel mio libro del 2010 Moore and Wittgenstein. Scepticism, certainty and common sense (Palgrave). Sono in parte anche abbozzate nel capitolo finale del mio Scetticismo. Dubbio, paradosso e conoscenza (Laterza, 2012).

Volendo e potendo dare una definizione di filosofia, nella fattispecie epistemologia e filosofia del linguaggio, lei cosa proporrebbe?
Proporrei le definizioni abituali. L’epistemologia è sostanzialmente teoria della conoscenza e della giustificazione, che ha solo come caso particolare la conoscenza scientifica o le giustificazioni che si possono ottenere attraverso metodi scientifici.
La filosofia del linguaggio è lo studio delle condizioni che fanno sì che un insieme di segni, di per sé non diverso da uno scarabocchio o da un borbottio, possa avere significato.

In quanto professore associato presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali dell’Unimore, qual è la sua valutazione sul metodo di formazione, anche accademica, italiano? Che differenze riscontra rispetto all’estero, soprattutto nello studio della filosofia, partendo dalla sua formazione pluriennale presso l’University of St. Andrews?
Le differenze sono molteplici. Una volta, prima della riforma, l’università italiana non aveva proprio nulla da invidiare alle altre, se non nella formazione avanzata (dottorato), secondo me. Si leggeva e si studiava davvero molto e molto più approfonditamente che altrove. Oggi col sistema dei CFU tutto questo patrimonio si sta dissipando, senza un
bilanciamento sul piano dell’acquisizione di metodi di lavoro caratteristici della pratica filosofica. Vale a dire: si legge molto meno e non si fanno abbastanza seminari né tutorial, che sono il luogo tradizionalmente deputato all’addestramento alla discussione accademica, nella formazione anglosassone.
Inoltre, non si scrive abbastanza, per colpa dell’insana abitudine di fare per lo più esami orali o semplicemente il loro equivalente scritto. L’addestramento alla scrittura accademica, segnatamente di un paper filosofico, è invece prassi comune nel sistema anglosassone, in cui gli studenti devono scrivere un saggio breve ogni 2 settimane circa (se non più spesso ancora). Dopo di che non deve stupire se sono molto più abili
di noi a produrre paper adatti ai canoni delle riviste scientifiche… non è solo una questione di lingua!

Ci vorrebbe parlare del progetto COGITO di cui è responsabile?
COGITO (www.cogito.lagado.org) è un centro di ricerca in filosofia che ho convintamente contribuito a creare, in ciò coadiuvata da altre persone: il direttore prof. Paolo Leonardi, l’ex direttrice, prof.ssa Eva Picardi, i dott. Sebastiano Moruzzi e Giorgio Volpe. Ha una duplice missione: la ricerca e la formazione, in particolar modo dottorale. Vi sono vari progetti (in epistemologia, in filosofia del linguaggio, in filosofia
della logica e della matematica, nonché in storia della filosofia analitica), ciascuno con un paio di responsabili. Ogni gruppo organizza seminari che si tengono a cadenza regolare in cui si fanno letture, ma anche presentazioni di *work in progress*. L’audience è composta sia da professori, che da postdoc, che dottorandi e studenti magistrali particolarmente motivati. Tutti si alternano nel ruolo di “discussion leader”. Ogni gruppo organizza inoltre workshop e convegni nazionali e internazionali. Vi sono poi i
cosiddetti COGITO DAY in cui i membri di COGITO afferenti a gruppi diversi presentano il proprio lavoro al resto dei membri del centro. Gli studenti e i dottorandi hanno quindi modo d’imparare sul campo a presentare e discutere sia il loro lavoro, sia la letteratura rilevante nelle varie aree coperte dai progetti di COGITO, nonché di beneficiare di un’atmosfera collegiale che non esiterei a definire rara nel panorama italiano. Il
centro esiste  dal 2009 e dal 2012 è riconosciuto dall’Università di Bologna e attira già diversi colleghi e dottorandi *visiting* da molte parti del mondo. Spero possa diventare presto un centro interdipartimentale e interateneo.

Il dialogo della filosofia con la società e l’epoca attuale qual è? Se presente secondo lei viene abbastanza valorizzato, in Italia, ad oggi?
Sono un filosofo analitico e quindi non mi interessa il rapporto con la società se con ciò s’intende fare una critica della società del nostro tempo o darne un’interpretazione storica e/o ermeneutica (normalmente cataclismatica….ma è da poco passato il fatidico 21/12/2012 e siamo ancora qui!). Penso invece che nelle società complesse, basate sulla
conoscenza, sia molto importante diffondere modelli di comprensione e strumenti di analisi adeguati, onde evitare pericolose semplificazioni. In questo la filosofia analitica, in tutte le sue branche, è utilissima e ancora poco diffusa sia nella fomazione scolastica che sui mass media, benché alcuni nobili tentativi si siano fatti (ad esempio “Zettel” su RAI educational, o alcuni interventi nella rubrica “Le rane” di IL, che però ha molto presto cambiato rotta, o anche alcuni articoli sul Sole24ore o sulle terze pagine dei maggiori quotidiani, che ovviamente, però, spesso tendono a ipersemplificare).

Vorrebbe fornirci la definizione della nozione di “immediate justification” e il perché della scelta di questo ambito di ricerca?
La nozione di giustificazione immediata – cui io non credo, va detto – consiste in questo: vi sono fonti di conoscenza, come ad esempio la percezione, ma anche la testimonianza, o la memoria, che semplicemente per il fatto di operare ci forniscono giustificazioni per le nostre credenze sul mondo intorno a noi o il passato. Se vi fossero giustificazioni
immediate, la conoscenza sarebbe molto semplice: basterebbe aprire gli occhi e registrare nelle proprie credenze quello che i sensi certificano (e lo stesso dicasi, mutatis mutandis, per le altre presunte fonti di giustificazione immediata). Se ciò fosse vero, moltissime forme di scetticismo, ad esempio quello riguardo all’esistenza del mondo esterno, semplicemente non avrebbero ragione di esistere. Sarebbero frutto di un
banale errore circa la natura della giustificazione e quindi della conoscenza (nella misura in cui la giustificazione è necessaria al darsi della conoscenza). Non a caso, quindi, molta epistemologia contemporanea si è dedicata a questo tema, nella speranza di venire a capo di numerose e complesse questioni filosofiche.
Come ho detto, non credo nelle giustificazioni immediate; credo cioè che vi sia bisogno non solo dell’apporto dei sensi, per avere giustificazioni per le nostre credenze empiriche, ma anche di alcune credenze generali di sfondo, come ad esempio che vi sia un mondo esterno, che i nostri sensi funzionino per lo più a dovere, che non siamo vittime di sogni lucidi e persistenti, ecc. O si pensi al caso della testimonianza: certo leggiamo documenti e crediamo a ciò che riportano, ma questo è razionale solo
assumendo che *in generale* gli altri esseri umani non intendano ingannarci (e altro). A mio avviso, ammettere che le giustificazioni si diano solo sullo sfondo di certe assunzioni non significa aprire le porte allo scetticismo di chi sostiene l’impossibilità di giustificare tali assunzioni. La *extended rationality view* cerca proprio di evitare questo risultato, pur non credendo nella facile risposta che i sostenitori delle giustificazioni immediate tendono a dare contro lo scetticismo. Per dirla almeno in parte con Wittgenstein: le giustificazioni hanno sempre luogo all’interno di un sistema di assunzioni che a loro volta sono costitutive di ciò che chiamiamo “razionalità epistemica”. Esse sono quindi razionali pur non essendo giustificate.
Vorrei aggiungere che questo, a mio avviso, non implica nessuna forma di relativismo epistemico. Le assunzioni di cui c’è bisogno, infatti, non sono quelle di qualche particolare teoria scientifica o pseudo tale, o di un qualche sistema culturale, come tali opinabili e rivedibili. Sono quelle che contraddistinguono i metodi *basilari* di formazione di credenze e di giustificazioni per soggetti fatti come noi: soggetti che
non possono conoscere il mondo se non attraverso i sensi, che non hanno intuizioni di verità, ma che possono ragionare a partire da certe premesse, secondo certe regole; che non hanno accesso a certi fatti del passato se non attraverso la testimonianza e che possono continuare a credere cose che hanno esperito in passato solo attraverso la memoria. Insomma, la mia è un’epistemologia “umanistica” nel senso che parte da, e arriva all’essere umano, indipendentemente da quale sia la sua cultura o la sua epoca di appartenenza, per chiarire a quali condizioni possa avere giustificazioni e conoscenza. Suonerà “fuori moda” in un’epoca che spesso radicalizza il tema della località epistemica a società, culture o anche singoli individui. Quello che forse dovremmo ricordarci è che non importa a quale latitudine viviamo o in quale epoca; vi sono comunque alcune
costanti umane che non attengono solo alla nostra dotazione biologica, ma anche al modo in cui possiamo conoscere la realtà.

Un filosofo/una filosofa al cui pensiero deve molto per la sua formazione?
Sicuramente Wittgenstein, ma letto in maniera critica e impiegato ai fini di una filosofia costruttiva e non meramente descrittiva, come ho imparato a fare studiando con Crispin Wright.

Filosofia e ruolo della donna nella società, cosa ne pensa? 
Si pensa spesso che la filosofia (più che la sua storia) sia un mestiere da uomini, forse perché si tende ad associare l’astrattezza al pensiero maschile e l’immersione nei sentimenti e nel contingente con quello femminile. C’è sicuramente un lato piuttosto “maschile” nella pratica filosofica soprattutto analitica, che è argomentativa e spesso volta a fare il punto contro il proprio avversario teorico.
Da che mondo è mondo, le donne che pensano, che parlano, che scrivono e  che sanno opporsi testa a testa fanno paura e un modo per esorcizzarla è stato quello di considerarle “uomini in gonnella” e in parte costringerle (in maniera più o meno esplicita) a duplicare il modello maschile, rinunciando così a molti lati della femminilità soprattutto sul piano personale, in primis riguardo alla maternità.
Ecco, in questo il modello da seguire, secondo me, è in certo senso quello di Elizabeth Anscombe, una delle più importanti filosofe della storia: non solo è stata così influente da divenire un vero e proprio classico contemporaneo, ma non ha certo rinunciato ad essere moglie (di Peter Geach, altro importante filosofo contemporaneo) né ad essere madre (di sette (!) figli …. Insomma: si può volere e avere tutto… basta lavorare sodo e non farsi troppo condizionare dall’esterno o da quei modelli che a volte potremmo aver interiorizzato fin da piccole.

Un contributo fondamentale questo, della Prof.ssa Coliva, che desideriamo ringraziare ardentemente per l’assoluta collaborazione e disponibilità.

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