Bhadavadgita

L’opera più importante che non avete mai sentito nominare: la Bhadavadgita

Quindi, lunedì 10 gennaio è stato il blue Monday, il giorno più triste dell’anno. 

Pazienza se il blue Monday non esiste, se è un’invenzione del marketing, di una compagnia aerea di serie B su cui ancora tutti marciano. Non importa. 

Anche se il giorno più triste dell’anno non dovesse essere il secondo lunedì di gennaio, è sicuro che prima o poi il giorno più triste dell’anno deve arrivare. E in fin dei conti è inevitabile essere tristi a volte, mi pare, se si pensa ai problemi al lavoro o con lə partner e ovviamente (e soprattutto) ai problemi con se stessi, e poi il tempo che passa, l’incertezza delle scelte, il cambiamento climatico, il governo che traballa, la qualità dell’aria peggiore d’Europa, la pandemia che non molla l’osso… Come si fa a non essere tristə?

Non ho la risposta, ho solo un piccolo appiglio, che nei momenti in cui tutto sembra andare a rotoli mi dà spesso una mano: la Bhagavadgita, un breve poema indiano che dice qualcosa di essenziale su come proteggersi dal senso di disfatta che ogni tanto si impadronisce di noi. 

La Bhagavadgita è una riflessione sull’azione, anzi sull’inevitabilità dell’azione, sulle catene che ci tengono legati all’azione. Si tratta di un testo che si trova nella parte conclusiva della più importante opera dell’epica indiana, il Mahabharata, un poema lungo qualcosa come dieci volte la Bibbia (agli Indiani piace esagerare – ma anche questa è metafisica), che racconta la lotta tra due famiglie imparentate per il controllo di un regno.

La Bhagavadgita si colloca nel momento immediatamente precedente allo scontro finale, quando Arjuna (principe della famiglia che poi conquisterà il regno) sta per entrare nella battaglia. Arjuna va alla battaglia a bordo di un carro, accompagnato dal suo auriga Krishna (e questo Krishna è proprio lo stesso che tanto piace agli Hare Krishna che avete visto tante volte cantare felici ed estatici nei parchi delle vostre città).

Al momento dell’inizio dello scontro, però, Arjuna non riesce a trovare le forze per combattere: dall’altra parte dello schieramento ci sono i suoi parenti, e lui pensa che sia disonorevole e ingiusto impegnarsi nel tentativo di ammazzare i propri consanguinei.

Qui Krishna prende la parola, affermando che Arjuna è preda dello scoramento perché si concentra sulle conseguenze delle sue azioni, e non sulle azioni stesse. Arjuna è un guerriero, le condizioni della battaglia sono ormai maturate e irreversibili: l’unica cosa giusta da fare a questo punto è combattere, senza porsi la questione di ciò che questo comporterà.

Potrebbe sembrare un’argomentazione fragile per giustificare il massacro dei propri parenti, ma se si astrae il ragionamento di Krishna dal contesto truculento della narrazione si trova qualcosa di utile anche per noi.

Tu sei competente ad agire, ma non a godere del frutto dei tuoi atti. Non prendere mai come movente il frutto della tua azione. […]

Saldo in questa disciplina fa quello che devi fare, senza permetterti attaccamento alcuno, con animo uguale nel successo e nell’insuccesso. L’equanimità – ecco ciò che si chiama disciplina. […]

Quanto a coloro che hanno per movente dell’agire il frutto dell’azione, sono davvero da compiangere.

Bhagavadgita, Canto II, 47-49

Krishna chiede di fare qualcosa di bizzarro. Agire senza pensare ai frutti delle proprie azioni. È una richiesta strana: tutto quello che facciamo in genere lo facciamo per un risultato. 

Ma a guardare con attenzione, non è forse questa attitudine che ci fa soffrire? I desideri frustrati, le fugaci vittorie che si trasformano presto in insoddisfazione, la sofferenza che deriva dall’aver fatto una scelta sbagliata: non sono tutte conseguenze che discendono dall’aver fatto troppo affidamento sui frutti delle nostre azioni?

Krishna chiede ad Arjuna (e a noi) di concentrarci meno sui frutti dell’azione, e di più sulla correttezza dell’azione. 

Certo, è molto difficile sapere quando un’azione è giusta. È molto più facile (all’apparenza) dire se è utile o no. Qui sta tutto il nodo della Bhagavadgita, e di un bel pezzo della filosofia indiana.  

Un tempo pensavo che l’insegnamento della Bhagavadgita fosse un punto di arrivo. Una volta che si era capito che bisognava concentrarsi sulla giustezza dell’azione rinunciando ai frutti, bastava farlo: il gioco era fatto. Si sarebbe in fretta diventati saggi, distaccati, felici.

Oggi, invece, penso che opere come questa siano sempre un punto di partenza, un’indicazione sulla direzione da tenere. Possono dare qualche indizio su quello che si troverà, ma mai spiegarlo appieno. 

In fin dei conti, anche Krishna è ambiguo quando parla dei risultati promessi da questo metodo. Diventare saggi, accedere al sommo bene, sottrarsi alla sofferenza: sono le espressioni che si trovano nella Bhagavadgita e che descrivono qualcosa che non sappiamo bene cosa sia. E che, tuttavia, in qualche modo sentiamo essere importante, anzi, decisivo.

Rimane la fatica di decidere e di capire, giorno dopo giorno, cosa voglia dire agire con giustizia e senza attaccamento agli atti. Da questo punto di vista anche il Mahabharata non dà risposte definitive. 

Arjuna si riscuoterà, capirà che al punto in cui è arrivato la battaglia e la violenza sono le sole vie percorribili; combatterà quindi, verserà il sangue dei suoi parenti e otterrà la vittoria. Una vittoria avvelenata dalla strage che l’ha preceduta e che nell’epos indiano segna l’inizio di un’età buia dell’umanità, l’età di Kali, nella quale ci troveremmo tuttora.

Anche Arjuna si trova quindi alla fine con delle mezze risposte, una filosofia sulla carta altissima ma che alla fine l’ha condotto a un presente incerto e difficile da decifrare, dove la felicità è provvisoria e la rovina sembra incombere. Un po’ come capita a noi, no? 

Eppure in questa confusione, se ci ritagliamo un po’ di spazio, possiamo apprezzare delle cose che ci sembrano, non voglio dire vere, ma almeno importanti. Provate quindi, la prossima volta che state male per qualcosa a chiedervi: e se per una volta non avessi agito aspettandomi un certo frutto dalle mie azioni?

Spero abbiate passato tuttə un buon Blue Monday. 

Davide Martello

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